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“Dogman” non è una storia di trent’anni fa

“Dogman” non è una storia di trent’anni fa
Giugno 07
10:09 2018

Non è mai facile scrivere d’un film che s’ispira ad un fatto di cronaca, violento, tornano facilmente alla memoria le parole del critico delirante a cui Nanni Moretti in Caro Diario ‘rinfaccia’ d’aver scritto bene dei film pultp-trash, sempre lì col domandarsi se rappresentare la violenza serva a qualcosa, possa dichiararsi urgenza d’un’opera artistica.

Con Dogman di Matteo Garrone, però, il pericolo è presto scongiurato, a partire dalla bella fotografia di Nicolaj Brüel e dal fondale quasi teatrale, summa di tutti i degradi, un quartierone costruito sul mare, frazione di Castel Volturno,  alla ‘dichiarazione di intenti’ letta nel ringhio o nel guaito dei cani che s’avvicendano alla toelettatura ai quali noi facciamo il verso e non il contrario, eppure più facili da riportare alla ragione che non l’animale uomo. Ogni segnale serve a riprodurre e a ricordarci, perciò, che questo è il mondo che abbiamo contribuito a costruire. Il regista ambienta la storia nel 2017 e non negli anni ’80, ma non è che per forza si debba pensare all’orrore del ‘canaro della Magliana’, perchè il fatto non è rimasto certo orfano nel suo genere. Animate le strade allagate e malmesse con bar zeppi di videogiochi (a gestione mafiosa) e negozi compro-oro, Marcello Fonte, è dogman che per vivere lava e asciuga cani tutto il giorno, qualche volta aiutato dalla figlioletta avuta dall’ex compagna, in un ritratto di quotidianità civile e affettuosa come ce ne sono pochi. Le facce che animano questa strana periferia di Garrone, non sono meno mostruose di alcune di orchi e popolani de Il racconto dei racconti, belle  a modo loro, facce solo maschili; la violenza psicologica e fisica che il pugile Simoncino perpetra nei confronti in primis di Marcello (Simoncino è vezzeggiativo per chiamare una ‘bestia’ piena d’odio e cocaina, interpretato da uno straordinario Edoardo Pesce, legato a doppio filo con una mamma che lo campa), diventa fastidiosa e pressante come quella di Carmine in Mamma Roma di P.P. Pasolini, continua minaccia e cifra d’un destino a cui non ci si sottrae. Qui l’ansia che Simoncino si manifesti e la tensione che genera la sua presenza sono paragonabili a quelle dell’apparire dello squalo nell’omonimo film di Spielberg o di altra creatura da film dell’orrore, tant’è il divario tra la vita condotta da Marcello e quella del ‘pugile suonato’ anche se nessuno dei due disdegna la cocaina buona, qualche furtarello di cui però a Marcello non restano che le mance, e le corse in moto.

La gente che circonda questa periferia paradigmatica di tutte le altre ha una apparenza bieca in contrasto col  volto sereno di Marcello coi capelli scuri sempre ben ravviati che guarda non meno stupito di Alice nel suo ‘paese delle meraviglie’ l’avvicendarsi di tanti corpulenti tatuati o meno  che, col linguaggio di chi è abituato a fare da sé in quanto a ordine pubblico, deciderebbero di pagare un paio di sicari per togliere di mezzo l’ingovernabile Simoncino che picchia a morte e deruba chi può per mantenersi fra moto di lusso e roba buona. Marcello per sé e per sua figlia sogna spiagge caraibiche e fondali puliti per fare immersioni subacquee e l’istantanea dei nostri tempi animati da sogni ‘mostruosamente proibiti, solo per finta alla portata di tutti; di chi crede che basti amare gli animali per essere delle brave persone; di persone ‘perbene’ che gestiscono bar coi videogiochi per ‘raggranellare’ qualcosetta mettendo le mani nelle tasche dei più deboli; d’una speculazione edilizia che s’è mangiata le coste e non ha prodotto un briciolo di bellezza ingoiando tutto il territorio che c’era; della abiezione cresciuta per forza di cose nei territori di nessuno…c’è tutta nel suo fatale esistere.

Tutto accade sotto un cielo livido e spesso piovoso che pare peggiorare col procedere degli eventi, fino all’epilogo finale conosciuto sempre per via delle cronache eppure depurato del peggio dalla sceneggiatura e vissuto da Marcello, dopo aver sopportato tanto per il bene di tutti, come la liberazione d’un luogo da fiaba dall’orco cattivo. Ché da lì potrà ripartire qualcosa di buono e se non proprio buono almeno non costantemente minacciato dalla ‘bestia’. Il peso di Simoncino però, non solo simbolico, graverà fino alla fine sulle spalle di Marcello, in mezzo all’indifferenza del quartiere, perchè anche il bullo era un uomo di carne, ossa e sangue e tutto ciò che si vede attorno a loro, di conseguenza tutto quello che non c’è (istituzioni, bellezza, giardini, giostrine meno misere per i bimbi, coesione sociale in nome di ideali giusti) ha fatto della loro storia quel che è diventata: una tragedia. Garrone suggerisce che da qui non si riparte? Forse no, ma la visione continua ad agire il suo male per un bel pezzo… e non si tratta di riflettere su un fatto di cronaca nera di tanti anni fa. (Serena Grizi)

Nell’articolo un fotogramma di Dogman e il regista Garrone con Fonte – immagini web –

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