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Educare nella diversità

Aprile 08
11:53 2010

Comunemente la diversità e l’anomalia rivelano il limite, l’inefficienza e l’inettitudine anziché la possibilità di instaurare un contatto con ciò che si discosta dal sé. L’aggettivo ‘insufficiente’ calca ciò che manca; sembra irragionevole chiedersi: perché non evidenzia con ugual vigore tutto ciò che potrebbe essere colmato? Nell’educazione di individui che solitamente vengono etichettati come ‘diversi’, si sperimenta un passaggio che dal concetto di libertà approda a quello di liberazione, la quale rappresenta nient’affatto una forma d’evasione in un sovra-mondo, bensì il tramite che consente di avvicinarsi alla realtà in modo critico, favorendo relazioni fondate sul rispetto, sulla solidarietà e sull’uguaglianza. La formazione è insitamente una trasformazione, per mezzo della quale la vita da possibilità diviene realtà. Il ‘dover essere’ va a connotarsi, dunque, come l’impegno primo dell’individuo. Potenzialmente ogni singolo possiede il proprio sé e il compito di portarlo a compimento. Tutti, anche coloro che, partendo da effimeri termini di paragone, vengono considerati ‘i diversi’, dovrebbero avere il diritto e il dovere di riconoscere e sviluppare appieno le proprie peculiari capacità. Ogni fanciullo che nasce è un natale, ossia un inizio che reca in sé un’imprevedibilità positiva, un’unicità inviolabile, specifica e al contempo permeabile alla peculiarità dell’altro. La persona non va ad esaurirsi nell’evento, dunque la disabilità o l’anomalia non rappresenteranno mai in toto un individuo. Formare non equivale a fare in modo che un essere introietti un’idea avulsa dal proprio sé. Si favorisce il cambiamento quando l’osservazione e la comprensione dell’altro è esente dal giudizio. Stabilire a priori ciò che qualcuno dovrebbe essere porta alla non valorizzazione di quell’altrui posto dinanzi, che chiede solo di poter essere ciò che realmente è, e non ciò che, con pareri, attese e aspettative, gli si impone di essere. Nessuno può inglobare un altro nella sua dimensione, occorre rispettare la possibilità dell’essere di ogni singolo nella sua specificità. L’apertura all’altro trova la sua forma più esplicita e diretta nella comunicazione, che apre al singolo le possibilità insite in quell’altrimenti di sé, che si esperisce solo nell’atto stesso dell’apertura. Tale incontro va a connotarsi come l’elemento fondante di ogni comunità. Si esiste in quanto inseriti in una globalità; il singolo individuo trova senso e significato nella collettività. Si diventa esseri sociali nel momento in cui si interiorizza l’altro da sé, riconoscendone la sua piena autonomia e la sua caratteristica singolarità. Il rapporto dialogico non si esaurisce nello scambio verbale, ma si costituisce di toni e gesti, e si fonda principalmente sulla capacità d’ascolto e di domanda. Comprendere altre sfaccettature della realtà presuppone la capacità di decentrarsi dal proprio punto di vista, assumendo la prospettiva di un altro essere che osserva lo stesso scorcio, ma da una diversa angolazione. L’apertura stabilisce quella vicinanza che permette ad un essere di diventare ciò che realmente è, ma che senza quel contatto non potrebbe, nello stesso modo, essere. Essa diventa prerogativa e sostegno dell’avvenire. Innesca un processo di cambiamento nel momento in cui consente a due esseri di rapportarsi in modo umile e mite. Dall’interazione degli individui scaturisce l’inedito e si delinea quella che Aldo Capitini definisce la Realtà Liberata, «un tipo di realtà diverso da quello insufficientissimo con cui hanno a che fare i nostri occhi e le nostre mani, dove chi è vivo e chi è morto, e chi è sano e chi soffre, e dove la virtù (cioè la produzione del valore) è conculcata»1. In essa tutti gli oggetti e tutti gli esseri rappresentano l’inizio di qualcos’altro. È questa un’esistenza nella quale riecheggiano i valori e le singolarità degli incapaci e degli esperti, degli infermi e dei forti, degli storpi e dei sani, degli ignoranti e dei dotti, dei vivi e dei morti. Una tale realtà si affaccia sull’orizzonte dell’altrimenti, dell’altrui e dell’altrove, non sottostà ad orizzonti già dati e consente di esperire, in un essere singolo, qualcosa di più di ciò che di esso si coglie ordinariamente. Essa racchiude, e al contempo segue, la crescita morale dell’individuo. Educa colui che permette ad un altro d’ascoltare la voce del valore che vive in se stesso e nella realtà in cui s’inserisce. Il formatore trasmette all’educando valori fautori di un cambiamento, rivelandoli attraverso una presenza rassicurante, un amore disinteressato e un rispetto perseverante. È educatore non chi propina la certezza, ma chi la mette in discussione. Il pedagogista ha il compito di aprire nuove possibilità, non può limitarsi a guardare, timoroso, dalla serratura, ma ha il dovere di aprirsi al vasto mondo dell’umano. Il ‘maestro’ è colui che non solo trasmette il sapere consolidato, ma è colui che offre all’educando gli strumenti affinché quest’ultimo possa proporre il nuovo, il non ancora detto; è colui che non verbalizza la verità, ma educa la coscienza dell’educando affinché possa scoprirla ed esperirla al meglio delle sue possibilità. Il prerequisito che consente d’accogliere l’altro è la necessità di conoscersi. L’educazione «è, prima di ogni altra cosa, un esame di coscienza»2 dell’educatore, consapevole del fatto che si dà all’altro, solo ciò che realmente si è. Chi raggiunge le finalità educative è colui che è persuaso della sua singolarità, del suo posto nel mondo e del fatto che il miglioramento dell’altro è un ulteriore accrescimento di se stesso. Per Confucio in ogni uomo esiste un lato oscuro che trasforma persone simili in individui molto diversi all’interno di una società. Si diventa migliori di ciò che si è, proprio quando si riesce a convogliare questo lato oscuro verso la consapevolezza. Un uomo non ancora conscio di sé ha anch’esso la possibilità di diventare parte attiva e costruttiva della realtà, nel momento in cui trasforma, in un tutto armonico, la massa di pensieri informi e disordinati che sovrastano il proprio essere. Un individuo che sappia prestare ascolto ai suoi conflitti interni non avrà timore nel confrontarsi né con la realtà né con gli altri esseri; avrà un atteggiamento che gli permetterà di mantenersi fedele al proprio sé in ogni circostanza. Si attua un’intima trasformazione di sé solo quando si accetta di comprendersi. La più ardua impresa umana è la scoperta, nonché il riconoscimento di quella forza che s’irradia dal proprio sé e che ha il potere di cambiare ad aeternum sia il modo di pensare sia quello di agire. «Ognuno di noi conosce gli altri, nessuno conosce se stesso»3. Ed è proprio questa la funzione di chi educa e si educa: portare l’educando e se stessi al riconoscimento e all’accettazione della peculiarità di ogni esistente. Nell’accettazione di sé, la percezione della finitezza umana, esperita attraverso il dolore, la disabilità e la diversità, non immobilizza l’agire, ma consente di vivere consapevolmente il dramma. Quando la sofferenza conduce all’interiorità e al contatto con i meandri del proprio sé, essa è una fonte di crescita inesauribile. Il divario, fra l’autenticità dell’essere e la falsa apparenza di sé e della percezione che si ha dell’altro, deriva dall’ossessione di considerare ciò che non si ha come più importante della valorizzazione di ciò che si è realmente.
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1 A. Capitini, L’atto di educare, La Nuova Italia, Firenze, 1951, p. 45.
2 A. Erbetta, Il tempo della giovinezza Situazione pedagogica e autenticità esistenziale, La Nuova Italia, Firenze, 2001, p. 4.
3 R. Osho, Filosofia della non violenza La radice della felicità, Stampa Alternativa, Roma, 1993, p. 27.

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