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“Fratello dei cani (Pasolini e l’odore della fine)”, di Marco Palladini

“Fratello dei cani (Pasolini e l’odore della fine)”, di Marco Palladini
Luglio 15
09:41 2012

Fratello-dei-caniFratello dei cani (Pasolini e l’odore della fine), rappresentato dal 3 al 6 maggio al Teatro Centrale Preneste di Roma, è uno spettacolo che verte sul percorso esistenziale e gli intricati nodi familiari di Pier Paolo Pasolini, in concomitanza col novantesimo anniversario della sua nascita. È un progetto con regia di Marco Palladini, che ne è protagonista anche sulla scena insieme a Fabio Traversa, che s’alterna in dialoghi di degno spessore brechtiano. Amedeo Morrone interviene per lo più nei cambi di scena con musiche e canto e, sullo sfondo, primeggia una videoproiezione che va da storici luoghi pasoliniani, come il Mandrione, a reperti del Sessantotto, fin tanto da integrare cinema e teatro lasciandoli interagire insieme in uno spaccato in odor di “Medea” con Cinzia Villari.

Le riprese e il montaggio video sono di Iolanda La Carrubba, mentre gli elementi scenici e i costumi sono di Luisa Taravella. Gli iniziali latrati interpretati dagli attori fanno da preludio alle parole di uno dei protagonisti, tutti vicendevoli e scambievoli alter-ego dello scrittore friuliano in una triangolazione tipicamente edipica dell’Io, Es e Super-io (“Mi disprezzano come un cane bastardo” perché “la verità non si può dire”) in cui Pasolini appare, di volta in volta, come viaggiatore e poeta del mondo, profeta o voce critica della propria contemporaneità. Si tace quando si ha paura, si parla quando il coraggio nega la crudeltà di una morte ostinatamente presente nei significati esistenziali rimossi dalla coscienza collettiva. La morte per il poeta è la condanna al silenzio, a tacere verità maiuscole per privilegiare verità minuscole simbolicamente connesse ad un potere nichilista, sprezzante e noncurante della verità poetica, quel Verbo maldestramente e continuamente annegato nella vita quotidiana da una presunta ed omologata maggioranza “piccolo borghese” che aspira all’indifferenza calcolatrice di un egoismo senza salvezza. Marco Palladini è riuscito nel non facile compito di dar vita a uno spettacolo compiuto sulla scomoda figura di Pasolini, è andato alla ricerca delle motivazioni più intime, esistenziali e psichiche che hanno condotto lo scrittore ad una solitudine col senso di ribellione nei confronti dell’ambiguo legame coi padri e, quindi, coi figli, giovani carni senza anima. Allora ecco Palladini-Pasolini incedere in scena con il proprio padre in carrozzella, demone ricoperto da un costrittivo e claustrofobico sudario: «Ho disprezzo per chi crea, se mi danno l’ordine, t’ammazzo.» Così nel reiterato, ma pacato parricidio, si compie l’estrema sintesi del conflitto generazionale sessantottino che condurrà il poeta a scontrarsi contro un’opinione pubblica borghese e bigotta, dedita alla mancata conoscenza della verità nell’opportunismo. Dal dilemma vecchi/giovani, Pasolini ne esce sconfitto perché consapevole del fatto che la gioventù indossa essenzialmente maschere di apparente lealtà politica per poi arrivare ad un nuovo e logorante potere in cui l’essere umano finisce per perdere valore, ridotto ad un corpo che cozza contro un altro. Il perduto Umanesimo idealizzato è sinonimo di autodistruzione, è la fine della Poesia, è cronaca di una morte profeticamente annunciata dallo stesso Pasolini. Non poteva mancare la presenza della madre, unica detentrice dell’anima e del cuore del figlio, ridotto però ad una sorta di adorazione schiavizzata nei confronti di un femminile idealizzato ed irraggiungibile interpretato da Cinzia Villari. Melodiosi e pungenti gli interventi musicali di Amedeo Morrone alla chitarra, compositore nella prima canzone e collaboratore con Palladini (autore del testo) nella seconda. La terza traccia è di Fabrizio De Andrè mentre le ultime due sono testi dello stesso Pasolini. Uno spettacolo davvero riuscito questo di Marco Palladini che dichiara: «La fine di Pasolini non è soltanto la ‘morte di un poeta’ e ci riguarda tutti, tutti quelli almeno che tuttora si ostinano a pensare al fare artistico come un modo privilegiato per cercare di dare un senso al mondo, per non arrendersi all’insensatezza panica che assedia e sembra sommergere l’epoca che viviamo.»

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