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I poveri “Made in Italy”

Novembre 25
09:05 2010

Erano saliti a 35 metri d’altezza, su quella gru di un cantiere di Brescia, trasformando quell’attrezzo, che serve anche per costruire, nel simbolo paradossale del loro equilibrio precario, in un paese in cui sono sospesi tra il bisogno di integrazione sociale e la continua minaccia dell’azzeramento delle loro prospettive. La stessa cosa è accaduta a Milano, dove un gruppo di lavoratori immigrati scioperanti era salito su una torre. Di operai – e questa volta italiani – licenziati o cassaintegrati, di precari e disoccupati, di lavoratori che hanno semplicemente visto chiudere le fabbriche di cui erano stati dipendenti magari per anni, si sono riempite anche le strade e le piazze dell’intero paese, da un periodo di tempo ancora più lungo della durata delle proteste di Brescia e Milano.

Crollano speranze, case, monumenti e palazzi, sotto terremoti, alluvioni e promesse che la politica non mantiene. Tornano triplicati quei cumuli di spazzatura nelle strade di Napoli, magicamente spariti durante i giorni della campagna elettorale. E il tutto avviene in un’Italia sempre più povera che non ce la fa ad “arrivare alla fine del mese“. E le giustificazioni di ciò sono ovviamente la crisi, il debito pubblico schizzato al 120%, problemi di allocazione delle risorse economiche. Ricerca, cultura, associazioni di volontariato, e altri settori della nostra economia saranno penalizzati comunque dalla nuova finanziaria, poiché diventate voci ingombranti nel capitolo della spesa pubblica. In quanto ai lavoratori precari, pare che loro una pensione non la vedranno neppure: lo denunciano il Corsera e altri giornali, prontamente interpretando il significato delle affermazioni del presidente dell’INPS, Mastrapasqua, che ha detto: «se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale». E allora nasce unanime e spontanea la stessa domanda che un aquilano, ancora alloggiato in albergo, ha posto durante il programma di Michele Santoro qualche sera fa: «ma questi soldi, ci sono o non ci sono?». Egli evidentemente alludeva ai fondi che il governo ha stanziato per pagare le spese degli albergatori che ospitano gli sfollati, ma che non sono stati ancora utilizzati per saldare i conti. Prende quindi sempre più corpo la paura che la povertà avanzi a grandi passi, che il Welfare italiano si stia sgretolando come le mura dei monumenti di Pompei. Indubbiamente è difficile far quadrare i conti di una “repubblica fondata sul lavoro“, soprattutto quando il lavoro diventa sempre più una chimera. E lo sanno anche gli immigrati, che il lavoro magari ce l’hanno ma che, quando scade il permesso di soggiorno, senza altre alternative, devono abbandonare.

Eppure, secondo il rapporto Migrantes della Caritas, gli extracomunitari contribuiscono alla produzione del PIL per l’11,1%, versano alle casse dello Stato quasi 11 miliardi di contributi previdenziali e fiscali l’anno, incidono per circa il 10% sul totale dei lavoratori dipendenti. Ogni anno le casse pubbliche ricevono dagli stranieri un regalo di circa un miliardo di euro per via del gettito fiscale, oltre alle entrate derivanti da tasse, contributi previdenziali e rinnovo dei permessi di soggiorno, a fronte di una spesa di neanche 10 miliardi per i servizi a loro destinati. A questi “lavoratori ultimi”, sfruttati e sottopagati, inoltre, appare ancor più strana la circostanza di avere attualmente dei figli che sono nati qui, che pensano in italiano, che parlano con uno dei nostri accenti e che dovranno richiedere un permesso di soggiorno, per studio o per lavoro, una volta diventati maggiorenni, per evitare di essere rispediti in un altro paese che non è mai stato il loro e di cui hanno sentito solo parlare dai propri genitori, o almeno questo è ciò che gli accadrà finché non avranno i requisiti necessari per richiedere la cittadinanza italiana.

Questo è dunque il paradosso dei nostri tempi, che ci accomuna ai lavoratori extracomunitari: vivere in un paese dalla crescita quasi azzerata, che non ci offre molte possibilità di integrazione sociale, perché nega diritti e possibilità di lavoro alla gente, anche in quei casi in cui essi esistono. E così noi italiani possiamo sentirci cittadini “poveri in patria”, mentre gli stranieri possono considerarsi lavoratori poveri e rifiutati (“criminali”, nello status clandestini), ma pur sempre poveri, poveri… e basta.

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