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Il diavolo veste qualsiasi marca

Il diavolo veste qualsiasi marca
Gennaio 04
02:00 2007

Il film-commedia di Frankel è un ottimo spunto di riflessioneIl bel film-commedia di David Frankel ‘Il Diavolo veste Prada’ è lo spunto giusto per tornare a parlare di precariato, tema che finisce in cronaca per i disagi che attiva, in politica, nella recente finanziaria e che pervade ormai ogni angolo del quotidiano. Il film, seppur leggero e viziato dalle esperienze del regista, risulta godibile per come è trattato il tema del lavoro, per la caotica magnificenza del centro di New York (con le solite pubblicità nemmeno tanto subliminali imposte dalla produzione), per la bravura delle co-protagoniste Anne Hathaway che interpreta Andy, giovane in cerca di un dignitoso lavoro di cronista che ‘solo’ per fare esperienza finisce nelle grinfie della direttrice della più famosa rivista di moda d’America, Miranda Priestley, una mostruosamente brava Meryl Streep, mai così algida, ed in un personaggio tanto ragionato nella recitazione da apparire perfetto nel suo agire all’interno di meccanismi apparentemente effimeri, il mondo della moda, attorno ai quali invece ruotano grandi interessi economici. Precario diviene voce del film, poiché, nell’odierno sistema, precario è colui che non comprende subito le regole e non vi si attiene in nome’del bene superiore. Chi è precario oggi lo sarà sempre, uno slogan o una domanda (?): il precariato occupazionale ha ormai condotto allo sviluppo di una temporaneità in ogni aspetto dell’esistenza, studio, famiglia, residenza, potere d’acquisto, decisa da pochi ‘stabili’sempre al posto giusto nel momento giusto.
*Ovvero essere precari in una multinazionale. Per i colleghi non esisti. Ma non occorre sorprendersi più di tanto. Una multinazionale non educa alla diversità (e un interinale è un diverso), e comunque non alla diversità che va oltre quel minimo di accettazione conseguente ad un umano sentimento di pena: e anche questo della pena non è un sentimento che coglie tutti indistintamente, ma solo persone già predisposte alla tolleranza da motivi presenti nel loro bagaglio culturale. Forse educare alla diversità non rientra nei compiti di una multinazionale, per quanto è qui che si concretizza la convivenza ‘globalizzata’ di razze, e quindi di lingue, di credenze religiose e abitudini di vita in generale. Ma sarebbe più giusto dire che una multinazionale non educa i lavoratori di non alto profilo professionale alla diversità, ammesse le dovute eccezioni ad ogni livello societario dettate in positivo ed in negativo dal proprio vissuto personale. Però la multinazionale lascia completamente liberi i lavoratori di esercitare il razzismo nei confronti dei più deboli (tutti coloro che conoscono poco l’azienda lo sono) e di coloro che non hanno potere contrattuale: nella categoria rientrano di nuovo i lavoratori interinali che sono considerati non solo senza alcun attuale potere contrattuale, ma come coloro che non ne avranno mai. A volte gruppi di lavoratori diversi per caratteri personali e senza nulla in comune eccetto un contratto a tempo indeterminato per l’azienda in questione, si coalizzano come un branco di lupi nei confronti della preda interinale che, se troppo presa dall’imparare un nuovo lavoro (quindi di solito), non riesce a mettere su tattiche intelligenti di ‘risposta’ occultate da necessarie diplomazia e gentilezza e troverà molta difficoltà nel portare avanti il proprio lavoro ed anche, a volte, nell’ottenere un nuovo contratto. Sono veri e propri casi di mobbing che il lavoratore interinale scambia per la solita trafila che può capitare al neofita in qualsiasi nuovo posto di lavoro. Ma intanto le multinazionali non sono, quasi mai, normali posti di lavoro in quanto la filosofia della grande famiglia viene continuamente trasfusa su tutti i lavoratori per motivarne l’operato, salvo poi far credere ad ognuno di essere unico ed esclusivo, e di essere più apprezzato del collega a fianco; non a caso è vietatissimo confidare la propria retribuzione ad altri e così ognuno crede di essere retribuito meglio dell’altro per meriti segreti conosciuti solo da lui e dal suo superiore. (‘) Comunque nella grande famiglia tutti hanno un loro posto e alla fine anche ad un cugino maligno e impiccione si impara a voler bene proprio per il fatto che è parente; ad uno che non sarà mai di famiglia, invece, non ci si prova nemmeno e se ci si accorge che ci sta anche solo un po’ simpatico si subisce questo sentimento con riserva continuando a pensare ‘non è tanto preparato, ma da dove viene, chi lo conosce, ma come si veste!’. Insomma la grande famiglia mette in atto, come nella migliore tradizione, un serie di maldicenze sul nuovo arrivato, giudizi preconcetti sul suo modo di lavorare che viene descritto come scadente. Cerca di conoscerlo, ma nel modo più invadente e più corto, per esempio chiedendo informazioni sull’interessato al collega di famiglia che gli lavora accanto tutto il giorno e continuando a criticarlo aspramente fin nei minimi dettagli: nel vestire, nel cercare malignamente conferma di quello che racconta, perché qualcuno che non si conosce e che appartiene alla categoria temporanea può benissimo essere anche un bugiardo. Se per caso sei un tipo competitivo, o anche solo qualcuno che vuole lavorare, ma senza accollarsi errori o inadempienze di altri,competitivo e non sgobbone sono due categorie non ammesse tra gli interinali, esercita questo tuo diritto preparandoti alla battaglia: non puoi passarla liscia ed ogni piccolo successo sarà seguito da un serie di strane coincidenze che non te lo faranno dimenticare. (‘) Un’ultima ragione, ma non meno importante, che credo contribuisca all’accoglienza antipatica del collega interinale, è che con lui bisogna ricominciare sempre da capo. Il ragionamento è: se lui vuole essere flessibile va bene, ma perché dobbiamo esserlo anche noi? (‘) Infatti, sebbene l’agenzia di lavoro interinale sollevi l’azienda dalla selezione di personale nella prima fase della ricerca (scrematura nel mare magno dell’offerta) spetta poi, pur sempre, ai manager dell’azienda che deve integrare il lavoratore dire l’ultima parola, e questo significa selezionare, seppure fra una rosa già ristretta di candidati, e spetta senz’altro ai colleghi dell’ufficio al quale si verrà assegnati preparare il neofita al lavoro. Anche se arriva, come spesso accade, una persona veloce, abbastanza preparata sui sistemi informatici e pronta alla flessibilità di mansioni, orari, incarichi, un collega dovrà per un certo periodo di tempo portare avanti il proprio lavoro ordinario ed in più insegnare al nuovo arrivato (ogni azienda, specialmente le grandi, ha al suo interno una miriade di regole, moduli e procedure che il decano scopre veramente nella sua mole, solo quando deve fare la fatica di insegnarle ad un altro). Il nuovo arrivato in breve tempo alleggerirà il lavoro del settore al quale è stato destinato, ma spesso la catena dei nuovi è continua, causa progetti speciali, indecisione sulla effettiva ripartizione dei carichi di lavoro; così per alcuni impiegati, con l’arrivo del lavoro interinale, si è innescata una catena di doppio lavoro che in alcuni casi può portare all’esasperazione. Lungi, molto spesso, dal lamentarsi con i propri superiori, chi subisce questi carichi di lavoro aggiuntivi, a volte difficilmente gestibili a causa di orari ed esigenze operative diverse, rigetta la propria frustrazione sul tizio/a al quale deve insegnare tracciandone con i colleghi un ritratto di incompetente, rovescio, spesso, del ritratto del neofita che non può conoscere le regole aziendali come chi le segue (e le subisce) magari da vent’anni! Se per i colleghi diventi da subito un problema per i capi, quasi, non esisti. Devi garantire solo la flessibilità, anche se ormai lavori in una stessa azienda da 4/5 anni!!!! Essere sempre flessibili è faticoso, ma a questo chi ci pensa? Il lavoro interinale, d’altronde, sembra fatto solo per i giovani che vivono ancora in famiglia, che secondo un mito diffuso non hanno mai problemi di salute, che sono sempre disponibili, dei quali il rendimento non cala perché sempre tesi come corde di violino verso l’obiettivo. Ma se la condizione di flessibilità diventa la condizione della nostra vita prima o poi invecchieremo, prima o poi avremo un piccolo problema di salute o ce l’avrà nostro figlio (fra gli interinali ce ne sono alcuni con figli, anche molte donne sole con un figlio che tornano al lavoro dopo la maternità (la società dove lavoravano precedentemente le ha per questo licenziate) e, a volte, dopo una delusione matrimoniale.
* Dal saggio/racconto: ‘Interinale!!! Una storia (purtroppo) vera’.Versione integrale sul sito www.nuoviscrittori.it

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