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Kaputt per il libro?

Kaputt per il libro?
Giugno 24
12:39 2017

Considerazioni a margine di un articolo di Paolo Di Paolo

Leggo sull’Espresso un coraggioso e ricco articolo dello scrittore Paolo Di Paolo, intitolato “Alberto Angela, aiutaci tu”. Si tratta, in poche parole, di una provocazione sull’incapacità della TV a far vendere i libri, per la flessione di qualità e per la ripetitività delle rubriche apposite (Marzullo, Fazio etc).

Si domanda Di Paolo: «Dov’è l’effetto di quel patto fra editoria e televisione annunciato dal ministro Franceschini? Perché nessuno ha più voglia di inventarsi niente?»

Infatti sono metodiche sorpassate, quelle che ci propinano oggi i mezzi busti di fama: apparire da loro non aiuta, per quanto riguarda le vendite, né l’autore né l’editore, dopo i ‘miracoli’ che produceva un Maurizio Costanzo, ad esempio (sto esprimendo le mie idee), quando, presentato al pubblico di “Bontà loro” (il primo talk show tra il 1976 e ’78 trasmesso sulla Rete 1) il dilemma di un ingegnere (Luciano De Crescenzo) se restare impiegato di concetto o mettersi a fare lo scrittore, in una settimana si vendettero 500.000 copie del suo nuovo libro e da quel momento De Crescenzo ha preso un ascensore che lo ha portato al cielo. Stessa cose accadde con tantissimi altri. Poi con Fazio: un passaggio da lui, i primi tempi, corrispondeva a una visibilità che stimolava la lettura. Poi hanno preso sempre maggiore spazio i Fabio Volo, i Frassica… C’è, nel pezzo, una sorta di nostalgia per la bravura di Alessandro Baricco. Insomma, mi sembra di capire dall’autore dell’articolo stesso che la TV in genere non sappia promuovere più i libri. Io sono d’accordo col documentato brano del Di Paolo, d’accordo su tutto. Ma voglio solo aggiungere alcune considerazioni in margine al suo lavoro, poiché i periodi che Paolo descrive come efficaci, io li ho vissuti di persona. Sono un ottantenne nato al tempo giusto per vedere e vivere una tragedia planetaria come la guerra mondiale, ma anche la gioia della ricostruzione in ogni senso. La speranza del domani. Che oggi non c’è più o quasi…

Nella mia verde età di giovane autore incoraggiato da Carlo Levi, Luigi Volpicelli, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giorgio Petrocchi, Pier Paolo Pasolini etc, e a contatto con un editore di prestigio come Armando Armando, la meritocrazia aveva ancora la sua importanza, specie nel campo letterario. Gli editori davano garanzia di qualità se pubblicavano un libro; esistevano le selezioni a priori, soprattutto le stroncature, oggi sparite a causa di un patto segreto fra i potenti dell’industria editoriale. Siamo nella logica del do ut des, del clientelismo smaccato, del miscuglio di ogni valore; esiste un aumento indiscriminato delle pubblicazioni e un calo giustificabile dei lettori; i premi (almeno sembra) non fanno più vendere perché rientrano anch’essi nelle tuonanti lodi prefabbricate dall’industria e dal mercato. Ecco perché il lettore comune va in biblioteca a fare l’assaggio come si usa col cocomero per dire poi: “Taja ch’è rosso”, oppure: “Butta ‘sta cucuzza a fiume”.

La gente non crede più alla pubblicità della televisione e dei giornali che mostrano fin troppi titoli: per ricordarli tutti ci vuole un computer e uno annulla l’altro, allo stesso modo del tran tran librario: due mesi è la vita in libreria di un volume, dopo di che si manda indietro per l’arrivo di camion pieni di nuovi ‘capolavori’. Insomma, l’opera dell’intelletto, che richiede tempo per la composizione e tempo per la lettura, deve invece essere messa alla stregua del pesce fresco che il giorno dopo puzza, della frutta di giornata, di tutto quanto deperisce a scadenza ravvicinata.

La Divina Commedia, che è costata a Dante 20 anni di lavoro, come potrebbe essere giudicata, letta, presentata ed eliminata in due mesi? Eppure la logica attuale è questa. Ricordo i vecchi librai, quelli nascosti nella Roma dei vicoletti, i quali ti consigliavano letture magnifiche tirandole fuori da scaffali polverosi. Oggi un libro cancella l’altro con la fretta che tutti ci inghiotte in una corsa insensata, la quale rende impossibile soprattutto una cosa: la storicizzazione di un autore e di un’opera, che è il fine della letteratura. Mi parlava in un’intervista Giulio Ferroni, critico e storico letterario: oggi è impossibile storicizzare alcunché. Rifletto: allora tanto vale cambiare mestiere e scegliere un’attività più redditizia della carta stampata (Leopardi asseriva essere la scrittura la più sterile della attività umane)!

Ma perché i lettori calano sistematicamente e gli autori aumentano? Non ci facciamo illusioni: anche ai tempi dell’analfabetismo c’erano numerosi poeti, illetterati ma conoscitori per istinto musicale della metrica: quelli a braccio e ognuno si accontentava di farsi ascoltare magari all’osteria.

Anche il consumo dei libri è sempre stato costoso. Una buona parte della biblioteca dei miei coetanei era formata dalle gloriose realizzazioni della BUR, di poco costo, scritte piccole, copertina marrone, ma alla portata di noi studenti che non avevamo il telefonino né la tv, e neanche la radio a distrarci. Oggi un romanzo può costare 25 euro, vale a dire 50.000 lire di una volta! Ma chi ama leggere e ‘possedere’ un testo, cioè farlo suo attraverso le note, le sottolineature, le chiose etc., acquista comunque il libro e magari fa a meno di qualche altra cosa. Poi ci sono i libri del giorno, come le sfumature di grigio e ieri i colpi di spazzola, che si prendono in biblioteca e ci sono mesi di file di attesa… Infatti senti dire: «Io non compro a scatola chiusa, perché non mi fido delle chiacchiere della pubblicità. E se becco una fregatura, devo pure tenermela a occupare posto in casa?».

Quindi anche gli editori e gli autori, i critici e tutti devono fare mea culpa se i lettori, defraudati, sono divenuti guardinghi: la fine delle stroncature e della selezione non paga a lungo andare.

Ai tempi della mia giovinezza, bastavano sei-sette recensioni positive su organi seri, perché si esaurisse l’edizione.

Anni fa, quando facevo il pendolare in treno, in pullman, parecchi miei compagni di viaggio avevano in mano o il giornale o un volume. L’estate le spiagge, sotto gli ombrelloni, vedevano i libri fra le dita specie alle signore (gli uomini preferivano i quotidiani sportivi o economici: ma è stato sempre così, altrimenti Boccaccio non avrebbe dedicato il Decameron alle donne). Oggi i libri sono spariti. Al loro posto c’è il telefonino. C’è l’onnipresente facebook, che inchioda giovani, fanciulli e persone mature a ‘sfogliare’ profili tutto il santo giorno, togliendo quella sorta di solitudine e di raccoglimento, di ‘evasione’ dalla cronaca, che la lettura di un’opera richiede (quando pure non si usi in macchina, mentre si guida, il telefonino!).

Leggo su un importante libro di Zygmunt Bauman (il quale riporta un’indagine del professor Jonathan Zimmerman) che tre adolescenti americani su quattro trascorrono ogni istante del tempo a loro disposizione incollati a facebook o a MySpace, per chattare. I siti di chat – si legge ancora – rappresentano delle nuove, potenti droghe da cui questi giovani sono ormai dipendenti.

In Italia le cose non vanno meglio e, da quanto si può intuire e dedurre per esperienza diretta, anche numerosissimi adulti controllano notizie, messaggi inviati dai vari gruppi pure quando parlano con una persona a tu per tu. Addio conversazione, occhi negli occhi con il dialogante: osservate sale d’aspetto dei medici, trattorie, panchine di giardinetti… Tutti incollati allo smartphone. È una vera e propria desolazione…

Ma Bauman sottolinea una cosa che la dice lunga sulle previsioni che facevano i rivenditori di walkman: “Non sarete mai più soli”. Come si fa a leggere se non si è soli? Infatti, questi marchingegni catturano totalmente la personalità dell’individuo, il quale fugge dalla meditazione, dal raccoglimento, e anche dalle problematiche che un libro serio può innescare nella crescita culturale e vitale.

Ma questo ha in parte una spiegazione: la lettura non è una cosa naturale per l’uomo, in quanto isola un solo senso (la vista) su tutti gli altri con cui noi ci esprimiamo (cfr. McLuhan La galassia Gutenberg). Quando non era stato inventato il cinema sonoro, che unisce quattro elementi insieme: parola, musica, paesaggio e persone, come se stessimo nell’agorà o in strada a parlare nella grande tradizione contadina, e non esisteva il telefono, né le altre diavolerie ora nominate, l’organo più usato era l’udito, insieme alla memoria. In Russia la lettura pubblica c’è stata (affollatissima) fino a pochi decenni fa; a Roma, un esperimento di ‘giornale parlato’ negli anni Sessanta, fece fiasco. La gente vuole lo spettacolo, perché si sta tornando all’era audiovisiva e audio-tattile, dove il libro non entrava manco dalla finestra. I grandi Maestri, da Buddha a Socrate a Cristo etc., non hanno scritto.

Se ci rendiamo conto che la scrittura è astrazione adatta a pochi (e diversi autori massacrano la voglia di leggere a causa dei loro criptismi e le lungaggini pur di fare un romanzo), ci rassegneremo alla realtà: si torna al manoscritto, alla piccola tiratura, al cerchio elitario ristretto, lasciando alla televisione (che segue non l’indice di qualità ma di gradimento) la massa che vuole lo spettacolo, il comico, il mezzo busto che non impegnino il cervello ma lo distraggano. I tempi non sono quelli dell’Ottocento, in cui l’unica compagnia nelle lunghe stagioni fredde erano i tomi dello spessore dei Miserabili, di Guerra e pace, I Fratelli Karamazov, Oblomov di Concarov (e ce ne fossero ancora, al posto dei pacchi imbottiti di letteratura americana di duemila pagine!). Oggi abbiamo troppe cose a distrarci; il tempo si è ristretto. Ci si immerge nello smartphone, creando dialoghi virtuali, dove però non si è solo spettatori o lettori ‘oggetto’, ma protagonisti, o co-protagonisti. E quel povero individuo antiquato che si porta un libro da leggere in treno o in metropolitana, o nelle sale di attesa e ovunque vi siano altre persone, non può farlo perché ‘costretto’ ad ascoltare – per forza – le conversazioni ad alta voce ai telefonini, massicciamente usati. Se poi, tornando a casa, apre il televisore e vede che reclamizzano con parole mirabolanti un libro, esclama: “Ma la partita non c’era stasera?”, e cambia canale alla ricerca di un film. Infatti, i veri romanzi di oggi sono i film e gli autori i registi. Provate a leggere un libro e poi a vederlo trasposto per il grande o piccolo schermo. Prendiamo ad esempio Venuto al mondo della Mazzantini. Lo scritto è talvolta lungo, indecifrabile nei continui flash-back, con capitoli inutili etc., e poi godiamocelo nell’altro linguaggio, quello filmico, dove il regista Castellitto, bravissimo, rende la storia più chiara e più credibile. Di questi esempi potrei portarne tanti. Ma perché coi capolavori letterari versati in celluloide è il contrario, spesso? Diciamo I promessi sposi, Cristo si è fermato a Eboli etc. Perché quelle sono opere di alta poesia, intraducibili in altri linguaggi. Ma allora come mai Il nome della rosa, che pure è un romanzo bellissimo, attrae di più nella trasposizione filmica del grande regista Jean-Jacques Annaud, anche se la conclusione è a lieto fine mentre nel libro non lo è? Perché l’unico capolavoro di Umberto Eco ha una trama possente da giallo, personaggi precisi, si svolge in luoghi affascinanti e la poesia, il dialogo, il pensiero e il gioco sottile della filosofia possono essere messi da parte comodamente per il fruitore non troppo impegnato.

Kaputt per il libro? Non lo so, ma il futuro non è con esso: la fine della storicizzazione è la morte stessa della letteratura, quale che sia la tiratura e il successo di un’opera. E, ad ogni modo, quando – fra pochi decenni – gli uomini saranno costretti a lottare per un bicchiere d’acqua in un pianeta arroventato, chi avrà più la possibilità, la voglia, la forza di acquistare e leggere un libro? Questa previsione nera non è mia, bensì di tantissimi scienziati!

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