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L’ universo di Calder per la prima volta a Roma

Dicembre 07
15:22 2009

Per la prima volta Roma ospita l’artista americano Calder al Palazzo delle Esposizioni dal 23 ottobre al 14 febbraio: autore dei Mobile, icone tra le più celebri della modernità, così chiamate da Marcel Duchamp. In queste sculture “ogni elemento può muoversi, spostarsi, oscillare avanti e indietro in un rapporto mutevole con ciascuno degli altri elementi”. Sono, inoltre, presenti gruppi di opere raramente visibili al grande pubblico: dalle sculture in filo di ferro degli anni venti trascorsi a Parigi, alla serie, poco nota, di piccoli bronzi del decennio successivo. Segue la sezione di opere eseguite sulla scia dell’astrattismo al quale Calder aderisce dopo la visita allo studio parigino di Mondrian. Centro della mostra sono i Mobile che l’artista realizza durante l’intera attività. Vicino a questi è esposta un’altrettanto significativa selezione di Stabile: sculture da terra così nominate da Hans Arp. “L’azione nel disegno non è necessariamente paragonabile all’azione fisica. Se un gatto è addormentato allora fatelo completamente e superbamente addormentato”: questo è quanto sostiene l’artista a proposito del segno grafico al quale si dedica, dopo aver visitato gli zoo del Bronx e Central Park, componendo venticinque disegni a pennello, che confluiscono nel manuale Animal Sketching (1925). L’arte di Calder può essere considerata “rivoluzionaria”? Può, addirittura, essere considerata arte? Questo è quanto si chiesero in molti in occasione dell’esposizione della scultura Romolo e Remo rispettivamente nel 1928 a New York e nel 1929 a Parigi. Ad un critico parve persino, che degli elettricisti avessero dimenticato dei fili, ma, passando vicino all’opera, la testa si mosse e allora… Di contro si alzano anche altre voci: “chissà che quella di Calder non sia la scultura del futuro. In ogni caso non suscita malinconia”. Questa è la scultura in filo metallico più grande che egli crea: sia la dimensione che la narrazione sono epiche e tradizionali ma il materiale impiegato va contro al concetto di scultura intesa come massa solida. Il filo di ferro in Calder ora veicola la forza del movimento ora l’energia caotica della lotta, il tutto sempre più verso una stilizzazione assoluta in cui il filo stesso diviene il gesto e in cui la linea espressiva è superiore al mezzo utilizzato. “Perché non realizzare forme plastiche in movimento… comporre movimenti…”. Negli anni trenta Calder conosce Mondrian: la sua “era una stanza molto stimolante… sulle pareti, tra le finestre rettangoli colorati di cartone… perché non far oscillare quei rettangoli”. Dopo questa esperienza l’artista inizia a dedicarsi ad una serie di dipinti ad olio in cui l’espressività della linea cede il passo al gesto astratto. In ogni sua opera compaiono eleganza e, insieme, energia pura perché costante è l’idea di variabilità provocata da forze esterne: “il senso della forma implicito nella mia opera è il sistema dell’universo… mi sembra essere la sorgente ideale della forma”. Questo è quanto egli pone alla base dei Mobile: “come si possono comporre colore e forma così si possono comporre movimenti”. “Faccio quello che vedo: l’unico problema è vedere l’universo. Non puoi vederlo devi immaginarlo e una volta immaginato puoi essere realistico nel riprodurlo”. A conclusione della mostra un’antologia di immagini di uno dei principali fotografi dell’arte del secondo dopoguerra, Ugo Mulas, che incontra Calder a Milano nel 1956 per la prima volta e con il quale inizia un rapporto d’amicizia a Spoleto, sei anni dopo in occasione di una manifestazione: come per magia, anche in questa esposizione, i due artisti si rincontrano dopo anni.

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