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La maglia di Cassano

Agosto 05
23:00 2007

La maglia di Antonio Cassano era arrivata accuratamente imballata. Il pacco era avvolto da un foglio di carta marrone, senza scritte, chiuso con lo scotch da imballo. All’interno c’era una scatola di cartone, rivestita di plastica, quella plastica con le bolle d’aria che i bambini conservano e si divertono a schiacciare con le dita. Il postino aveva lasciato all’ingresso del gigantesco condominio un cartoncino con scritto sopra l’indirizzo di Alush e l’avviso di giacenza. Dimal lo aveva accompagnato al vecchio magazzino postale nella zona a sud di Durazzo. “Sarà un libro”, aveva esclamato Alush, piuttosto deluso, quando vide il pacchetto postale. Sua sorella Belina, lo aveva imballato con estrema cura. Doveva essere qualcosa di prezioso.

 

Prezioso, aveva pensato Alush, agli occhi della sorella. Niente di interessante, quindi, aveva spiegato a Dimal mentre scartava il pacco. Aveva detto subito che non si attendeva tanto da quel pacco, lo aveva precisato perché gli sembrava brutto che lui ricevesse un pacco e Dimal lo stesse a guardare mentre lo scartava. Per questo si era affrettato a dire che il pacco non doveva contenere niente di buono. Belina aveva studiato con molto sacrificio, suo e della famiglia. Ai tempi dei comunisti potevi studiare pure se non avevi soldi, però, mentre un figlio studiava, la famiglia era privata di un’entrata ed il sacrificio era tanto anche se lo Stato pagava gli studi ed i libri. Una volta laureato facevi un bel lavoro ma guadagnavi quanto un operaio che aveva iniziato a guadagnare dieci anni prima di te. Per questo pochi studiavano. Belina era stata professoressa a Tirana, il lavoro non era tanto bello e lei si era imbarcata su una delle navi stracolme di albanesi giunte a Bari nell’agosto del 1991. Furono ammassati come bestie dentro lo stadio di Bari. Lo stadio che poi sarebbe diventato lo stadio di Antonio Cassano. Ora, si diceva, era cittadina italiana, forse abitava a Roma, forse lavorava a Pescara, ma nessuno aveva capito quale mestiere facesse. Era certo che si trattava di un bel mestiere, perché la famiglia di Alush era diventata ricca, grazie, dicevano tutti, alle rimesse di Belina. Ricca, si intende, per come può essere ricco uno che vive in un sobborgo di Durazzo. Alush si era comprato un bel pallone, ma nemmeno si sognava di possedere una maglia originale di Antonio Cassano. Il piccolo Alush scartò il pacco quasi con noncuranza e quando si cominciarono ad intravedere i colori rossi e gialli della casacca della Roma, la frenesia prese il sopravvento. Dimal notò che quella che sembrava una macchia era l’autografo di Antonio Cassano. Lo volle toccare. Andarono subito nel solito posto, il loro piccolo stadio sul mare. Il mare era burrascoso ed era difficile giocare vicino alla riva. Dove un tempo c’era una brutta copia di uno stabilimento balneare ora avevano assemblato anche due porte quasi regolamentari con tanto di rete. Quel pezzo di spiaggia era diventata la loro e si trasformava nello Stadio Olimpico, nel Meazza o S.Siro, più raramente nello stadio delle Alpi, che nessuno sapeva con esattezza dove fosse. Le Alpi sono lunghe, aveva spiegato una volta Irina, che però di calcio non ne capiva nulla, chissà dove hanno costruito lo stadio. Quando si trattava di paesi stranieri tutti davano retta ad Irina, perché il padre era un marinaio russo e lei aveva viaggiato molto insieme a lui. Forse non erano mai stati in Italia, ma in Grecia, in Francia ed in Marocco sicuramente c’erano stati. Il padre, da solo, con la sua barca, aveva girato molto di più ed era stato anche in Sicilia. Ma la Sicilia è molto lontana dalle Alpi. Per Dimal l’unico modo di viaggiare era sul mare. Non avrebbe mai viaggiato in aereo. Aveva paura. Si fidava di più dell’acqua. Sulla spiaggia c’era tanto vento ed anche il pallone regolare di Alush ne soffriva. Non era vento buono. Il vento buono viene e porta l’odore del mare. Era vento cattivo, che soffiava da dentro la terra e teneva fuori le barche dei pescatori. Dimal colpì forte la palla e questa volò oltre la rete di recinzione del campetto. Dimal seguì con gli occhi la palla che volava oltre la rete, che planava lontano, che toccava la riva, che rimbalzava in acqua. Quell’acqua, pensò Dimal, che divideva Durazzo da Bari, un ragazzo albanese dai quartieri in cui Cassano giocava da bambino. Rincorse il pallone, si immerse nell’ acqua ghiacciata fino alle ginocchia, si bagnò tutto degli spruzzi del mare. Quel mare aspro che sicuramente aveva toccato anche Antonio Cassano. Alush reclamò il pallone, ma Dimal era triste. Sentiva sua quella maglia rossa col numero 18. Era il più bravo e tutti lo chiamavano Antonio. Più che altro la somiglianza era nei brufoli che tempestavano la giovane faccia di Dimal. Neanche come calciatore Dimal somigliava a Cassano. Il ragazzo albanese era potente, forte, alto e longilineo, ma aveva la stessa fantasia, la stessa classe del campione barese. A Dimal piaceva che tutti lo chiamassero Antonio e faceva del tutto per somigliargli, però la natura gli aveva dato altre caratteristiche. Si era anche fatto tatuare un delfino sul braccio, aveva scoperto poi che non c’entrava nulla con il tatuaggio che aveva Cassano, ma lui era l’unico del gruppo ad avere un grosso tatuaggio sul braccio, proprio come Cassano. Questo bastava. Non riusciva a staccare gli occhi dal mare. Si scoprì triste. Riuscì a capire perché. Il mare aveva portato la maglia del suo eroe al suo amico. Non era invidia. Si sentiva tradito, spogliato di un’eredità che sentiva sua. Non era questione della maglia, si ripeteva. Se non ci fosse stato il mare, quel mare, lui sarebbe a giocare con Antonio. Sicuramente avrebbe imparato tante cose, ed insieme, lui ed il vero Antonio, avrebbero giocato nella Roma, insieme a Totti. Ora odiava quella lingua di mare, odiava l’odore violento della salsedine, odiava il vento che veniva dal mare e disturbava i suoi lanci lunghi, i suoi tiri potenti, le sue punizioni a girare sopra la barriera. Si potesse aggirare con tanta facilità anche il mare…. In fondo anche Antonio aveva abbandonato quella riva, si era trasferito a Roma, sull’altro mare, quello dei ricchi. Senza pensarci diede un calcio violento al pallone, verso le onde agitate, verso il mare, verso la sorella di Alush, verso i quartieri dove era cresciuto Cassano. Gli altri protestarono. Non disse una parola. Tornò a casa, una vecchia casetta proprio sul lungomare. Prima di entrare doveva urlare dalla strada. Sua sorella magari stava lavorando in casa ed allora gli avrebbe detto di tornare più tardi. La sorella di Dimal lavorava con gente potente e quasi mai lavorava a casa. Però a volte si, perché a qualcuno piaceva farlo guardando il mare o semplicemente perché non aveva possibilità di farlo in altri posti. Dimal attese a lungo, seduto sulle scale di casa. Pensava alla maglia di Cassano, goffa e pesante sulle spalle di Alush. Il mare era sempre più arrabbiato, quasi incattivito. Cominciava ad essere umido. Alla fine, dalla porta di casa uscì Maurizio e lui fece per rientrare. Desiderava il suo letto, il suo cuscino nel quale sprofondare la faccia e piangere. Maurizio si fermò, prese Dimal per un braccio. Si frugò le tasche, trovò cinque euro e li regalò al ragazzino. “Quando vuoi, per te c’è un posto gratis!” . Ripeteva sempre quella frase in italiano a Dimal. Maurizio puzzava di motoscafo e di fumo, per questo non piaceva al ragazzino. Anche la sorella di Dimal aveva preso a puzzare di motoscafo e di fumo. Dimal non aveva mai trovato la forza di rispondere all’italiano. Maurizio sapeva che con Dimal, prima o poi, avrebbe portato anche la sorella. Per questo regalava sempre qualcosa a Dimal, per comprare la sorella.
Quella volta Dimal voleva. Voleva giocare con Cassano. C’era il mare in mezzo, ma c’era anche Maurizio che lo avrebbe portato dall’altra parte del mare. La sorella di Dimal era in bagno, si lavava sempre dopo aver lavorato e questo non piaceva a Dimal. Il bagno, dopo, era impregnato di odori falsi e di femmina, non sembrava di vivere in riva al mare. Non ebbe il coraggio di entrare nella stanza. Il letto era ancora da rifare e puzzava di motoscafo e di fumo. Si affacciò alla finestra della cucina e osservò il mare. La cucina odorava di mamma e di cena, quasi sempre rimediata. La cucina era sempre profumata, quella sera sapeva di riso, burro e limone. Vide l’italiano che usciva dal cancelletto sulla strada e montava sulla Kawasaki. Forse andava al porto. Forse era per questa sera. Il mare era sempre più mosso, ma il motoscafo era nuovo e potente. Quando il mare è mosso ci sono meno controlli. Dimal vide uscire la sorella dal bagno, si teneva un asciugamano tra le gambe. Pensò che non pronunciava mai il nome della sorella, era sua sorella e basta. Un legame di sangue con un’estranea che faceva un mestiere dentro casa, un mestiere che le aveva tolto l’odore del mare e le aveva dato quello di motoscafo e di fumo. La mamma faceva finta di niente, ma poi, quando uscivano quelli che puzzavano di motoscafo e di fumo, andava dalla figlia e chiedeva dei soldi per mandare avanti la baracca. Il rito, anche quella sera, si consumò in silenzio, tanto che dalle finestre aperte entrava indisturbato il rumore del mare incattivito. Il riso sapeva tanto di riso, poco di burro e quasi niente di limone. Mangiarono in silenzio. A Durazzo con cinque euro si potevano comprare tante cose, forse anche una maglia di Cassano. Ma non contava. Anche Alush ormai aveva una maglia di Cassano e aveva pure l’autografo. Lui una maglia con l’autografo di Cassano non l’avrebbe mai indossata. Per paura che l’autografo scomparisse, ma anche per rispetto al vero Cassano. Alush aveva bestemmiato a mettere la maglia di Cassano. Forse la sorella di Alush conosceva Cassano. La sua frequentava Maurizio, quella di Alush Cassano, così va il mondo. In silenzio mise i cinque euro in mano alla mamma. La sorella di Alush aveva regalato al fratello la maglia di Cassano, sua sorella gli avrebbe regalato un passaggio oltre il mare. La mamma, no, era escluso. Lei era nata per Durazzo, non si sarebbe mai mossa. Però avrebbero potuto farla ricca, come aveva fatto la sorella di Alush. Ma la sorella di Dimal aveva già detto che no, lei non si sarebbe fatta ingannare. Non c’era nessun lavoro per lei oltre il mare. Aveva le gambe storte e le spalle troppo strette, non avrebbe mai potuto fare la modella e non sapeva fare niente che non avesse a che fare con il proprio corpo, non aveva studiato come la sorella di Alush. Forse avrebbe potuto fare la parrucchiera, ma non conosceva i tagli alla moda e le riviste che arrivavano non bastavano a farle capire come si facesse in Italia. Poi erano due anni che non lavorava più come parrucchiera. Sarebbe andato da solo. Pensò di evitare complicazioni con la mamma. Disse solo alla sorella: “Io vado”. Non attese risposte. Non avrebbe accettato però di puzzare di motoscafo. Trovò Maurizio che armeggiava con i motori. Era per quella sera. “Vengo” – gli disse – “ma sto seduto vicino a te, davanti. Voglio sentire l’odore del mare”. “Tua sorella?” Chiese senza espressione Maurizio. “Viene dopo. Io raggiungo Belina e poi lei raggiunge me”.
Don Vincenzo arrivò un attimo prima della polizia. Il corpicino di Dimal era mezzo sepolto dalla sabbia, puzzava di salsedine e putrefazione, ma respirava ancora un alito salmastro. Lo prese in braccio e lo portò all’oratorio. La polizia lo guardò da lontano e lasciò fare: una grana in meno ed un debito in più per il prete. Lo misero in una stanzetta senza mobili, sopra un lettino, ben coperto. A turno Don Vincenzo, una parrocchiana che faceva l’infermiera e qualche ragazzo facevano visita a Dimal. Lui sentiva con piacere le mani dell’infermiera che si occupavano di lui. Non odoravano di femmina, non avevano odore, erano calde e morbide. Dopo due o tre giorni aprì gli occhi. Era solo. Alzò il collo quel tanto che bastava per guardare fuori dalla finestrella. Vide l’oratorio. Qualche gioco, una chiesetta ed un campo di calcio, proprio sul mare. Si accorse che il paesaggio era strano perchè il sole nasceva dal mare. Verso le quattro una banda di ragazzini prese a giocare a pallone. Dimal li studiava: il più bravino aveva la maglia di Kakà, c’era un altro con la maglia di Del Piero. Uno con la maglia di Totti segnò un gran bel gol. Però, no, non c’era una maglia di Cassano.

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