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La notte poco prima della foresta. Scenari di teatro omosessuale

La notte poco prima della foresta. Scenari di teatro omosessuale
Giugno 06
14:00 2014

pippo del bonoSul palco del Teatro Argentina di Roma lo scorso 4 giugno è stato rappresentato lo spettacolo dal titolo: “La notte poco prima della foresta”, di Bernard Marie Koltès. Protagonista: Pippo del Bono. Il testo è stato inserito nella rassegna intitolata “Altri Amori/Anteprima Garofano Verde”, curata da Rodolfo Giammarco.

Una sola frase di quaranta pagine, emessa quasi d’un solo fiato, senza quei punti fermi che minacciano d’interrompere il bisogno lucido e poetico di un getto di parole. Nella sua partitura senza soste, La nuit juste avant les forêts affermava un teatro riconducibile a una musica ininterrotta. Jean-Luc Boutté racconta lo choc emotivo che provò dando un’occhiata al copione. Decise lì per lì di metterlo in scena, affidandolo a Richard Fontana. Era il 1977, e Avignone riservò a Koltès un ingresso clamoroso nel mondo della scena francese. Da quel momento all’aprile dell’89, data della prematura scomparsa dell’autore a soli quarant’anni, questo testo affermerà, documenterà una voce lancinante e vertiginosa nella scrittura drammatica contemporanea, uno stato di grazia emarginato, tutt’uno con una cultura da Linea dell’Ombra. «Il mio reale milieu è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e l’hotel a ore. Le mie radici non esistono. A un dato momento, uno si sente bene nella propria pelle» confidò Koltès. E disse anche «Amo il crepuscolo, dove figura e immagini si distinguono di meno».

Crudele e generoso, lucido e ricco di utopia, con addosso la maschera appena matura di un adolescente di taglia forte pasoliniana, Koltès coltivò avidamente un gusto forsennato per il lirismo, fu nomade come Conrad, Melville e London, perseguì la costante dell’identità straniera, e questa Nuit… è un monologo che fila nervoso, complice, digressivo, ipotattico, visionario come una ballata. Vi si cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i poliziotti, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, i litri di birra, la voglia di una stanza”, mentre incessantemente e stupidamente piove su una casbah metropolitana, sulle ronde degli uomini soli a piedi. Ed ecco distinguersi “le zone di lavoro, le zone per rimorchiare, le zone per le donne e quelle degli uomini, le zone per i froci, le zone della tristezza, le zone delle chiacchiere e quelle del venerdì sera”, e in questi apartheid aleggia la parabola del Nicaragua e di un vecchio generale i cui soldati prendono di mira “tutto quello che vola al di sopra del fogliame, che compare ai margini della foresta”. E con questa preghiera profana, con questo diario di un abbordatore di sbandati e inermi, con questo manifesto della solidarietà e del cameratismo, con questo inno alla latitanza e all’amore per ombre materne, e per compagni sotto la pioggia, con questo appello alle umane genti che si sanno, si fanno sapere e sentire, la passione errante di un Pippo Delbono ci sta tutta. A costo di metabolizzare, di delbonizzare il canto, il testo, l’inno, il flusso della Nuit… E per la prima volta Delbono affronta la voce di Koltès, accreditato dalla fiducia totale che gli tributa da anni François Koltès, il fratello anch’egli scrittore di Bernard-Marie, che ha scoperto l’arte libera di Pippo assistendo ai suoi spettacoli al Théâtre du Rond-Point di Parigi, dandogli assoluta carta bianca d’intervenire sulle opere del fratello scomparso, perché Delbono si avvicina alla verità che Bernard-Marie cercava. Una verità che sfugge sempre, che non è dicibile, che sta nascosta in un mare di parole di chi non è disposto a integrarsi e a emulare.

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