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L’in-differenza dello schermo, gli occhi senza luce

Febbraio 04
02:00 2008

Riflessioni sul mondo contemporaneo
È quando i sogni si addormentano che la ragione partorisce i suoi incubi peggiori. Il “politeismo etico” e il “pensiero debole” – che, radicalizzati, finiscono per imporre e riproporre in termini di fondazione autocratica, sotto forma di relativismo “deificato”, quell’Assoluto che d’altra parte si accaniscono a demolire – hanno ulteriormente allargato la già vasta scissura dell’essere che accompagnava, fin dall’epoca barocca, il manifestarsi della modernità. La crisi delle coscienze è devastante: è crisi, è vuoto, è sfondamento. Dove sono le scintille di una luce? Se pure i sogni – loro, gli ultimi riflessi – si addormentano di noia, per consunzione interna, per l’attesa senza fine di un Godot che non arriva, che non vale più la pena di aspettare. Però, dài, everything goes… Tutto e il contrario di tutto: quindi niente. Ma non è possibile il salto in alto senza appuntare l’asta ad un supporto. Ché, senza margini, non esiste via. E senza regole, ugualmente, viene meno il gioco, ogni gioco: la libertà e la voglia stessa di giocare. L’infinito percorribile è paralizzante, come il foglio bianco prima di scrivere: sfuma da se stesso e si confonde. Sono le nuvole che fanno visibile il cielo.
La crisi induce la paura, e la paura si traduce in barriere difensive e paratie. Siamo confusi e diffidenti. Irta di blocchi e recinti, la corrente vitale che ci attraversa e che, in teoria, dovrebbe accomunarci. Mentre è sempre più impalpabile e fredda, incisa dentro al vuoto di un silenzio che non crea, la trama affettiva che vorrebbe intessere la nostra educazione, sostanziandola di cultura – di sapere e di sapore: di sostanza umana. Stiamo evaporando proprio in quanto uomini, nella nostra più essenziale quiddità. Deprivati, rapinati, devitalizzati. I genitori, più confusi dei loro figli, non sanno davvero che pesci prendere. Se educarli a un mondo che, varcata la soglia di casa, non esiste più; o se cedere, sconfitti, alla marea che monta e che prevale. Quasi sempre cedono, pur di non creare dei disadattati pieni di complessi e inibizioni, dileggiati mostri di “antiquariato umano”. Che si alzi bandiera bianca, infine: senza neppure sventolare più di tanto. In un mondo che si dichiara e si conclama jungla, occorre svezzare l’occhio prima che si può. Che si spenga la scintilla originale. Che si dissolva il “credo”. Minimalismo disumanizzato, ecco. Non credere in niente è più semplice e immediatamente utile, perché credere stanca: implica esposizione e offerta di sé. Credere è impegno sincero: si è più fragili di chi resta dietro lo steccato, a sorvegliare il limite, il confine.
È (e fa più) comodo aspettare, appoggiati al muro che divide. Tanto il contatto con il “fuori” passa comunque – anestetizzato, confezionato e precotto – attraverso l’occhio della televisione. È in questa forma anonima e anodina, edulcorata e in fondo innocua, che finiamo per fare esperienza del mondo. La realtà vista da lontano, come dal buco di una serratura, e appiattita su uno schermo che la rende quasi irreale e incapace di nuocere. La guerra in TV, ad esempio, fa poco male: esplosione senza scoppio, morte senza cadavere, realtà senza presenza. È il simulacro evanescente della cosa. Lo schermo risponde a una diffusa ossessione voyeuristica. Consente di vedere senza esser visti: di vivere il fatto senza esserci, o esserne coinvolti, o potervi intervenire. Lì: al sicuro dietro gli steccati. E allora ci si può permettere la catastrofe, che non ci tange seppure ci riguarda. Finiamo anzi per augurarcelo: che qualcosa di grosso e di grave accada in diretta; pur che un’emozione ci scuota dalla noia, dal torpore apatico di un tempo sempre uguale, e si veda fin dove può arrivare la realtà, oltre il prossimo limite segnato. È un piacere canagliesco, un piacere da codardi. La realtà assimilata a un videogame. Una realtà virtuale e violenta, dove basta spingere un tasto per segnare il proprio impegno, per decidere di esserci e in che modo. Se poi la realtà non piace, “tac”, un tocco digitale e non c’è più. Facile, no? I bambini si assuefanno all’esperienza mediata dallo schermo, secondo procedure di consumo passivo, se non ipnotico, e di banalizzante fluidità. Tutto è intercambiabile e reversibile, tutto equivale a tutto: proprio perché lo schermo appiattisce, smussando margini e contorni, riducendo cose anche diverse (come sempre sono fra di loro) sullo stesso piano. Uccidere un pupazzo al videogame è come veder morire un uomo al telegiornale: semplice e innocuo. Il breve guizzo di un’immagine che passa senza tracce, fagocitata presto dalle altre. Finisce quindi per assottigliarsi la differenza tra realtà e finzione: tra il dolore di una tragedia e uno spot televisivo: tra picchiare a sangue qualcuno e mandare un messaggino al cellulare. Il mondo reale viene vissuto alla luce del videogame, sull’onda dei suoi tempi e dei suoi modi. La conseguenza? Un compulsivo zapping esistenziale.
I bambini davanti allo schermo ci passano ore: come riempitivo, come succedaneo. Particelle di luce in polvere. Calore di vita liofilizzato. Focolare freddo che non aggrega. Adorazione ipnotica del totem elettrico che tutto ci racconta e tutto crea. È il Grande Fratello: esiste solo quello che lui dice. E si “cresce” nell’in-differenza. In un mondo plastificato di simulacri estetici che soprattutto i bambini – privi come sono di adeguati strumenti interpretativi – fagocita all’interno delle sue dinamiche, delle sue logiche spietate, plasmandone lo sguardo, la coscienza, l’educazione in fieri. È questo il traviamento originario. Genitori assenti o incapaci di dare misura, senso del limite e sapore delle cose, sostituiti dall’indifferenza generalista dello schermo, dal modo ipnotico e passivo della sua fruizione. È per questo tramite che passano valori di cartapesta, con esterno patinato o in confezione spray, come aggressività, apparenza, potere del denaro e della moda, ben rappresentati dai campioni mediatici dominanti – modelli depilati, modelle anoressiche, scalpitanti starlettes, veline, statuine, letterine, e pagliacci da reality show, e grassoni del wrestling, e sportivi dopati e miliardari…
Ne risulta disturbato, quando non compromesso, lo sviluppo cognitivo che viceversa, a quell’età, occorrerebbe di ben altre certezze e chiarezze distintive, indispensabili a sostenere la fluidità complessa e in ultimo aporetica della conoscenza superiore. Occorrono le basi. Si comincia forse con il tetto un edificio? Si parte dai fondamenti semplici, dalle strutture interne elementari. I ragazzi vivono le cose al grado zero della distanza critica, attraverso simulacri plastificati, immersi nel caos annichilente di un mondo che li bombarda di informazioni. Apatici per eccesso di stimoli. Lasciano basiti per il cinismo che li domina. Schiavi – fin dalla tenera età – di un tempo che non ha tempo, che stritola e consuma tutto in fretta, che si apre per nonnulla e per nessuno. Un mondo che ne spegne e incallisce presto lo sguardo, e lo fa scettico, scaltro, indurito: disposto e avvezzo ad ogni cosa. Un mondo da cui apprendono una visione perdente e nichilista della vita come “sventura casuale” da cui uscire quanto prima, e con il minimo danno possibile; e dell’Altro come pedina utilizzabile, senza remora alcuna, per il proprio interesse – alla stregua di un personaggio da videogame, che se cade poco importa, tanto ce ne è un altro di riserva. E così via, continuando a farci del male…

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