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Mitsouko e le parole

Agosto 05
23:00 2007

Mitsouko era una bimba di tre anni, nella casa di campagna, il sole accecante del pomeriggio le permetteva l’uso della libreria dello zio, morto giovane e poliomielitico.
Leggeva molto lo zio, così senza poter camminare, ascoltando il passar delle stagioni tra il profumo delle acacie e la nebbia che confondeva le chiome nei boschi.
Nessuno faceva caso a lei, il grembiulino sempre sporco di terra, cani, gatti, pulcini, coniglietti al seguito.
In quelle ore le imposte delle finestre erano chiuse e le poche mosche rimaste dentro ronzavano nelle orecchie un suono basso e continuo.  Mitsouko, allora, prendeva la seggiola e saliva verso gli scaffali, era abituata ad arrampicarsi, in città quando la madre usciva di casa e la lasciava sola, arrivava fino alla parte più alta dell’armadio e gettava a terra l’orologio d’oro.
Non le importava di essere sgridata, voleva fermare il tempo, non accorciarlo, la solitudine vissuta come pena necessaria.
I libri sapevano di muffa, ma erano belli con le copertine scure o rosa, incisioni dorate, illustrazioni a colori.
Uno in particolare iniziò a leggere: Giulio Verne, L’isola misteriosa. Aveva imparato ad associare le sillabe, per strada con la nonna, nei negozi, poi quando il padre insegnava alla sorella con lettere di cartone ritagliate e lei era esclusa da un gioco che aveva appreso subito.
La madre era in ospedale a quel tempo, due o tre operazioni.
Dopo la sua nascita era stata sempre male, fino a una isterectomia che come lei diceva aveva posto fine al suo essere donna.
E lei se ne era assunta una colpa, così magra d’anoressia, pettinata sempre come un ragazzino, un pomeriggio sul treno un bimbo aveva chiesto alla sorella:
“Ma lui come si chiama?”
“Vilma”
“No, ma lui”…
e l’equivoco era andato avanti un poco.
A trent’anni, un parrucchiere l’aveva pettinata come James Dean, i capelli con qualche ricciolo cadevano sulla fronte dal cranio rasato.
La lettura era il suo passatempo solitario e segreto.
Finché un giorno il padre la sentì leggere ad alta voce il giornale e scoprì tutto.
A dieci anni lesse gli ermetici, a undici la prima poesia, a quattordici Il capitale e le bambole, e il mago di Oz e i Pattini d’argento gettati via, perché la madre si vergognava che sua figlia avesse le bambole a dodici anni.
E lei sognava ancora un vestitino di organza bianca ereditato da un’amica con i pulcini piccoli e gialli ricamati a mano.
Venduto il vestitino perché lei valeva troppo poco per indossarlo.
Non l’aveva dimenticato mai e voleva, adesso, una nipotina femmina per poterlo riavere.

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