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Padre Terenzio

Novembre 07
17:47 2011

Quando l’innocenza di un bambino resta immutata nel profondo di un uomo, ci si trova in presenza di un puro di cuore. Non si tratta di enfasi: tale era padre Terenzio, un sacerdote cattolico inglese, spiritualmente cresciuto nel Venerabile Collegio Inglese e legato per sempre alla bellezza e agli umani affetti incontrati nell’Abbazia di Palazzola. Giovane studente, era moro, alto, atletico: così lo descrivono i figli del guardiano. Era un vero uomo di Dio che però alternava alla preghiera un profondo attaccamento alla vita. C’è chi lo ricorda, giovane novizio, muscoloso e forte, partecipare a gare di nuoto e di resistenza con indosso la lunga tonaca nera, nella piscina del convento; lanciare poderosi tiri a cricket sul grande prato che i sacerdoti chiamano “la Sforza” (fu acquistato dai Principi Sforza-Cesarini), instancabile e resistente camminatore. Metteva tutta la sua incontenibile vitalità a servizio di Dio e dei fratelli: appena ventenne, nel 1968 era tra i volontari che scavavano tra macerie e dolore nelle tragiche zone del terremoto del Belice, portando soccorso e fede tra i superstiti. Una fede prorompente come lui che spesso guardava alla sostanza tralasciando, se necessario, la forma. Il profondo legame con Palazzola e con coloro che là lavoravano e crescevano faceva sì che spesso trovasse la maniera di tornarvi; e là il contatto con l’Onnipotente si faceva ogni volta più carico di consapevole religiosità. Non era uomo da vita ecclesiastica comoda; per lunghi anni predicatore in Ecuador, abbandonava il suo inglese per parlare una lingua simile allo spagnolo e quando tornava in Italia si esprimeva in un caldo, colorito italiano spagnoleggiante quasi sempre corretto e comunque coinvolgente come la sua voce forte e chiara, e il suo modo di fare che lasciava trasparire tutta la sua impetuosa, profonda umanità. Aveva una risata forte, trascinante e la sua stretta di mano era possente e carica di altruismo. Nel lungo servizio pastorale come missionario accettò, con la sua solita disponibilità, momenti di dura fatica, lunghe giornate vissute nella foresta, a contatto stretto con la natura, quella che niente regala, che pretende sforzo, individuando con gli indigeni momenti di sacralità profonda anche nella semplicità del quotidiano. A lui interessava la concreta sostanza e trascinava i fedeli nella preghiera con la sua forte personalità; si poteva vivere il contatto con Dio anche solo standogli vicino, traghettava nella fede le anime con la forza della sua profonda, personale devozione che lo spingeva a mettersi al servizio degli altri in modo incondizionato. Per qualche anno Direttore a Palazzola visse forse il periodo più vicino al Paradiso e lì, sempre più profondo si fece il legame con chi nel convento c’era nato, quasi ottanta anni prima. Quando il vecchio guardiano venne a mancare, non trascorse anniversario senza che Padre Terenzio non tornasse dalla sua Inghilterra, dove nel frattempo era stato trasferito, per continuare la sua missione pastorale: celebrava in gennaio, con i parenti del custode, una messa in suffragio. Con i figli e le loro famiglie viveva in comunione ogni Vigilia di Natale, ripagando quell’uomo saggio e buono che lo aveva accolto novizio, nel suo nucleo familiare, come un figlio maggiore o un fratello minore … Celebrava la Messa di mezzanotte ritirandosi un po’ prima e lasciando nell’austero refettorio francescano, addobbato con festoni e candele, l’allegra brigata con la quale aveva condiviso la cena della Vigilia. Durante la funzione calamitava la partecipazione di tutti, anche superando formalismi e scavalcando con la sua particolare umana religiosità, qualsiasi resistenza potesse incontrare in chi viveva con poca dimestichezza il rapporto con il Divino. Non sempre, forse, è stato compreso e probabilmente solo così era possibile frenarne la travolgente esuberanza: lui, fedele alla Promessa a Dio, alla fine chinava la testa al voto di obbedienza. Coerente fino in fondo, non aveva freni nel contestare chi si abbandonava a scelte di comodo, rasentando l’ipocrisia. Impulsivo e appassionato come un moderno Don Camillo, levava la sua voce con veemenza, frenando a stento la sua collera, contro chi tralasciava i doveri religiosi e le regole monastiche di povertà e castità. Quasi alla fine dell’estate ci ha lasciati: se n’è andato dopo un lungo e doloroso calvario, affrontato con la solita battuta spiritosa e minimizzando ogni volta con un grande sorriso la gravità del male che lo stava consumando e che lo ha spento, senza mai travolgerlo, piegarlo, abbatterlo. Aveva Padre Terenzio un’arma formidabile, quella che gli ha permesso per tutta la vita di essere se stesso e santo: la sua incrollabile Fede.

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