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Peppe ” er Pecetta”

Aprile 05
18:07 2011

Era un ragazzo mingherlino e gracile, di 16 anni, piuttosto alto, dai lineamenti non brutti, i capelli folti e castani, ma goffo e dinoccolato. Si chiamava Giuseppe, detto Peppe, cui gli amici avevano aggiunto come soprannome, “er Pecetta”, per via che il padre, Vittorio, faceva il calzolaio. Poiché tale mestiere comportava abbondante uso di pece piuttosto che di suola o bullette nella riparazione delle scarpe, al buon uomo era stato affibbiato l’epiteto di “pecione”, donde quello di “pecetta” al figlio adolescente.
Nel gergo romanesco però il sostantivo “pecetta” s’applica soprattutto a indicare o un rattoppo improvvisato, o un cerotto, e in senso figurato un individuo noioso o malaticcio. Il giovane Peppe se lo portava a malincuore , quel soprannome, che alludeva proprio alla sua salute e al suo carattere. Erano tempi duri. Vittorio, imbolsito ormai dalla sedentarietà, semicalvo e scurito in faccia da polvere e agenti corrosivi vari, lavorava in un buco di cantina buio e malsano, in cui trovava posto a malapena, ingombro com’ era di attrezzi e materiali maleodoranti. Aveva 38 anni, e all’epoca un uomo di quell’età veniva già considerato attempato. Era di idee liberali e progressiste, rispettava formalmente il papa ma quasi per niente i preti, e aveva concepito grande ammirazione per Garibaldi, di cui tanto già si parlava. Per questo aveva voluto chiamare il figlio come quell’uomo, di cui esaltava il meraviglioso coraggio dicendo che presto sarebbe venuto anche a Roma a portare “libertà e giustizia” per tutti. Parte di questo modo di pensare gli veniva da suo padre, il nonno di Peppe, Luigi, detto Giggi, che negli anni 30, sotto papa Gregorio XVI per poco non era stato messo in carcere per le sue idee, alle quali peraltro rimase sempre fedele. Aveva infatti chiamato quel suo figlio primogenito Vittorio perché convinto della vittoria finale dei liberali. La madre di Peppe si chiamava Iolanda, doveva avere 32-33 anni, ma nessuno poteva dirlo con certezza, neanche il marito. Di viso, non era né bella né brutta, però aveva una splendida testa di capelli mori ed era piuttosto alta e slanciata, e finché poteva si vestiva con una certa eleganza. Qualcuno la chiamava “la bella mora” del Gianicolo. Si vantava di discendere da qualche famiglia dell’aristocrazia romana ( ne era sicura ), ma quale fosse, o chi fosse suo padre, non volle o non seppe mai dirlo. Affettava modi ricercati, e anche nel parlare si sforzava di evitare la parlata romanesca più cruda, ma spesso usava a sproposito parole che secondo lei erano segno di superiore grado sociale. Fatto sta, questo il marito lo sapeva bene, che era stata abbandonata in un cesto alla porta dell’antica basilica di San Pancrazio, dove c’erano i carmelitani scalzi. Su un biglietto era scritto a stampatello il nome della neonata, più la data di nascita. I frati si disfecero quasi subito di quell’incomoda ospite affidandola a un convento di suore, dalle quali, se non altro, ricevette una discreta educazione, non certo molto amore. Però, alle monache non era dispiaciuto tutto sommato tenere presso di sé quella bambina. La superiora diceva che era un segno del Signore. Il convento non era un orfanotrofio, e non era di clausura; c’era fra le suore una sorella senza voti, sulla cinquantina, che andava fuori abbastanza spesso per piccole spese e varie necessità. E quando Iolanda fu un’ adolescente di 15-16 anni, cominciò a farla uscire, portandola con sé. Notò come la ragazzina prese subito ad adocchiare tutte le cose del mondo che possano affascinare una creatura ingenua di quell’età, compresi i maschi. Per farla breve suor Giovanna ecco che un pomeriggio andò con la giovane Iolanda in quella casa lungo la riva destra del Tevere, casa che allora a un visitatore faceva un discreto effetto. Non per nulla era ancora curata da Giggi, di cui abbiamo detto, e da sua moglie Nunziata. La piccola stanza al pian terreno, comunicante con una cucina e una camera poco più grande, era già occupata da Vittorio, giovane sui vent’anni, che aveva cominciato a fare il calzolaio seguendo (è il caso di dirlo) le orme del padre. Allora si presentava come un ragazzo carino, né alto né basso, ma piacevole nei modi e nel parlare. E già da qualche mese aveva avviato un buon rapporto col convento cui apparteneva Giovanna. Quando la vide giungere a portargli del lavoro accompagnata da quella giovane, perse subito la testa per lei. Ed anche a lei, che non aveva mai visto un uomo così da vicino, quel giovanotto non era dispiaciuto. Lui cominciò ad andarla a trovare al convento, e suor Giovanna trovò nuovi pretesti per andare più spesso all’officina di Vittorio, con la ragazza. Insomma si fidanzarono, e in breve si sposarono. Le monache, sia pur con qualche dispiacere, erano contente d’essersi tolte il peso della trovatella, a cui per dote fecero un corredino modesto modesto. Erano d’altronde sicure che Vittorio fosse di famiglia abbastanza “benestante”, e non stettero a prendere tanto per il sottile quello che si vociferava sul “sor” Luigi e suo figlio, che fossero dei mangiapreti. Verso di loro erano stati ogni volta, almeno esteriormente, gentili. E poi, a tutto il convento, Vittorio riparava o faceva scarpe a prezzi modici. Nacque presto Peppe. Ma la situazione a Roma a poco a poco cambiò. Il distacco fra popolo e Curia pontificia si accentuò, furono imposte nuove tasse e divenne particolarmente severo l’atteggiamento repressivo della Chiesa verso qualsiasi modo di pensare o d’agire che fosse motivo di scandalo ideale o morale. Iolanda dapprincipio fu madre affettuosa, poi, quando Giuseppe raggiunse i sei-sette anni, ebbero inizio discussioni fra lei e il marito. Ella voleva che il bambino ricevesse un’istruzione elementare, ovviamente a pagamento, da parte d’un prete della basilica di San Pancrazio; sapeva che quel prete lo faceva anche per altri bambini del quartiere. Il padre, storcendo un po’ il muso, per una decina di volte ce l’aveva mandato, il figlio, assoggettandosi alla spesa, che non era esigua. Poi aveva dovuto troncare la cosa perché Peppe, ogni volta, tornava a casa semisconvolto. Gli altri ragazzini, tutti di rango sociale superiore, lo prendevano in giro di brutto. “Il figlio del pecione”, lo chiamavano. Iolanda esortava allora Vittorio ad andare a protestare energicamente presso il prete, ma l’uomo, per motivi suoi, non intendeva farlo, e anche lei, del resto, se ne guardava bene. E così il padre, fra un colpo di lesina e l’altro, un’applicazione di pece e l’altra, trovò anche il tempo d’impartire al ragazzo qualche lezione di lingua italiana (!) e di storia, attingendo al suo patrimonio culturale. La madre, naturalmente, lo criticava e ogni tanto se ne usciva così: “Lo stai alleviando per la forca!” (intendeva dire”allevando” ). E così Vittorio cominciò a parlare al figlio del biondo eroe, Garibaldi, che aveva già combattuto nell’America del sud (mamma mia! E dove stava?) in favore di tutti i poveri e gli oppressi ( “No l’espressi, Peppe, l’oppressi” correggeva il padre ), e che presto sarebbe venuto anche a Roma sul suo cavallo bianco a portare libertà e giustizia. Peppe ascoltava affascinato, e s’immaginava quell’uomo a cavallo che veniva su per la salita del Gianicolo; lui gli andava incontro, il grande Peppe prendeva in braccio il piccolo Peppe che tutto tronfio si rivolgeva agli altri ragazzini facendo loro uno sberleffo… Quando Peppe fu sui 15-16 anni, dopo aver aspettato tanto ed invano che arrivasse l’eroe, sentiva sempre più acuto in sé il bisogno di fare qualcosa, di mischiarsi agli altri, di avere degli amici. Il padre gli aveva sempre ordinato di stare lontano dai preti, ma un paio di volte, con due amici di cui uno, Richetto, che gli era un po’ più caro dell’altro , Berto, giunsero confondendosi fra la gente, verso mezzogiorno, al colonnato di San Pietro. Lì rimasero incantati anzitutto dall’ampiezza e maestà della piazza, ma poi la loro meraviglia giunse al culmine quando videro i soldati svizzeri nelle loro uniformi a bande colorate. Come sarebbe piaciuto, a tutti e tre, indossarne una! Ma un gendarme li notò, li apostrofò minaccioso, e loro se la dettero a gambe. Altre volte, con Richetto, ma anche da solo, gli piaceva salire per le rampe delle mura gianicolensi, arrivare sulla spianata del colle e lì ammirare il meraviglioso panorama di Roma. “A Pecé” diceva Richetto. “Tu che voi fa, da grande?” “Da grande? E che ne so? Me piacerebbe de vedé tante cose… ma chisà se ciarivo”. Gli veniva un forte affanno, ogni volta che faceva uno sforzo fisico, e si sbiancava in volto. Per di più tossiva, spesso e forte. Richetto, che avrebbe voluto fare qualcosa per lui, da una parte lo compativa, da un’altra però lo sentiva d’impaccio alla sua libertà che, sebbene povero, voleva godersi sino in fondo. Iolanda parlava ogni tanto con una donnetta, una popolana che abitava in una delle casupole confinanti con la sua, quando costei usciva in un cortiletto a stendere panni. La donnetta, nonostante fosse ancora giovane, sui 24-25 anni, aveva già tre figli piccoli, e quindi faceva spesso il bucato. Iolanda, chissà perché, sentiva il desiderio di suscitare invidia in lei, e le faceva vedere il suo ultimo corpetto, o vestito di crinolina, e le raccontava che suo padre non aveva voluto riconoscerla, alla nascita, ma che in realtà i signori delle belle ville più a est, lì sul colle, sapevano tutti chi fosse, e perciò in occasione di qualche festa o ricevimento che organizzavano avevano piacere di invitarla. Certo è che da un po’ di tempo Iolanda, con la scusa di fare servizi vari, di portare scarpe ai clienti, soprattutto nei pomeriggi s’allontanava spesso da casa, e quando vi faceva ritorno, prima di cena, portava con sé qualche pacco o pacchetto, che il marito lì per lì non vedeva, perché lavorava fino a tardi. Una volta lo notò il figlio, ma si stette zitto. La situazione ormai a Roma stava precipitando. Il 15 novembre del 1848 era stato ucciso il primo ministro di Pio IX, Pellegrino Rossi, divenuto odioso al popolo perché attestatosi su posizioni reazionarie. Quando poi l’esercito piemontese nel marzo del ’49 fu sconfitto a Novara, l’insurrezione a Roma divenne totale, e fu proclamata la Repubblica. Ma in seguito a un accorato appello del pontefice, corse a tutelare i suoi diritti un esercito francese spedito da Luigi Napoleone, poi Napoleone III, agli ordini del generale Oudinot. Tutta Roma era in tumulto quando si sparse la notizia che era in arrivo via mare quest’esercito francese, ma l’animo degli insorti fu galvanizzato quando si seppe anche che accorreva a difesa della neonata Repubblica l’eroe di tutte le cause generose, Giuseppe Garibaldi. I più scettici e indecisi tuttavia prevedevano un inutile macello, mentre i conservatori auspicavano una brillante vittoria dei francesi sul popolino, e un rapido ritorno del papa a Roma. E come suole accadere, nell’imminenza di una situazione estrema, di alcuni individui si impadroniva lo spirito della dissolutezza sfrenata, di altri la disposizione d’animo al supremo sacrificio. Vittorio e il figlio Peppe naturalmente non stavano nella pelle, e s’aspettavano di veder arrivare da un momento all’altro Garibaldi a cavallo, alla guida del suo “battaglione della morte”. Il 24 aprile 1849, quando sbarcò col suo esercito a Civitavecchia, il generale Oudinot, inviato da Luigi Napoleone presidente della Repubblica francese per rimettere il papa sul trono, si guadagnò subito le antipatie degli italiani, lui e quei soldati vestiti di scuro che nei confronti dei nostri avevano parole arroganti e sprezzanti. Ma per suo scorno fu sconfitto da Garibaldi, e fu concluso un armistizio che scadeva il quattro giugno. Infedele al trattato, Oudinot, ricevuti rinforzi, riprese le ostilità la notte del 3 giugno, e si diede subito a bombardare la zona del Gianicolo e Porta S. Pancrazio, occupando villa Corsini. Da questo momento in poi le migliaia di volontari accorsi da tutta Italia a difendere la Città Eterna scriveranno nel libro della storia pagine di fulgido eroismo. Commovente fra i tantissimi episodi di valore che cominciavano a susseguirsi fu il caso di un giovane soldato che insieme ad altri scavava un fossato vicino Porta S. Pancrazio per tamponare una breccia apertasi nella porta in seguito alle cannonate francesi. Un’altra cannonata lo sfiorò riducendolo in fin di vita. Accorre disperato un tenente, che risulterà poi chiamarsi Luigi Porzi. Egli, non dandosi pace, rivelerà che il nome di quel soldato era Colomba Antonietti, sua moglie, travestita da militare, spirata balbettando: “Viva l’Italia”. A Villa Corsini intanto, che era in mano ai francesi, si era radunato il meglio della gioventù romana, e i più audaci del popolo. Anche Vittorio e il figlio si trovavano in zona. Ebbero un’ emozione straordinaria quando videro apparire per pochi istanti Garibaldi a cavallo che veniva a rincuorare gli assedianti. I garibaldini combattenti invitavano il popolo a collaborare in qualsiasi modo, anche raccogliendo i feriti. Vittorio e Peppe, senza pensarci su, aderirono generosamente all’invito. Benché avessero tutt’e due il fiato corto, Vittorio perché intossicato dall’aria pestilenziale del suo buco-laboratorio, Peppe perché minato dalla tisi, si misero subito all’opera. Raccattavano da terra i feriti sanguinanti e spasimanti dal dolore, li adagiavano su barelle e li portavano nel cortile di una casa privata messa a disposizione, dove alcuni uomini con camici bianchi tutti macchiati di rosso li medicavano come meglio potevano. Per alcuni giorni, quasi senza mangiare né bere, padre e figlio fecero questo lavoro dal mattino alla sera, rendendosi utili anche in tanti altri modi. Vittorio non faceva più il calzolaio, e non vedeva più neanche la moglie. Solo una sera la trovò in casa; la signora si degnò di fare una minestra calda per lui e il figlio. “Ci volete rimette la pelle per quei banditi perdigiorno…” disse, alludendo ai garibaldini e alla massa dei volontari. “Matti, incoscienti…” Peppe del resto s’era fatto l’idea che se proprio doveva morire era meglio che succedesse aiutando qualcuno che era più in pericolo di lui. Un pomeriggio Vittorio provò a muoversi, ma non ce la fece. Si buttò sul letto, incapace a risollevarsi. Doveva essere stremato, forse febbricitante. Peppe se ne accorse. “A papà, nun te move dal letto; mo’ te porto quarche cosa…” Dopo un po’ tornò con una bottiglia d’acqua, e un tozzo di pane rimediato chissà dove. S’avvicinò al padre, lo accarezzò sulla fronte sudata. “Papà, statte bono qui, te devi solo riposà un po’, poi te passa. Io vado, ma sta’ tranquillo, cerco de tornà presto…” “Fijo mio, sta’ attento, te prego…” mormorò l’uomo con un fil di voce. Ed ecco di nuovo Peppe nei pressi di villa Corsini; porta da bere a giovani che sono sulle loro postazioni da tanto tempo; ha anche parole affettuose per qualche morente. È stanco, ha l’affanno, ma impone a se stesso di resistere. Garibaldi ordina un ultimo assalto alla baionetta contro i francesi asserragliati nella villa, che però non ha fortuna. I feriti non si contano, e molti dei volontari italiani perdono la vita. E il povero Peppe, insieme ad altri del popolo romano, esponendosi al tiro francese, si prodigava come poteva in soccorso dei feriti. Rabbrividiva, distoglieva lo sguardo, quando vedeva quegli uomini in camice bianco, che con lunghi aghi in mano prendevano i lembi sanguigni e palpitanti delle ferite di quegli sventurati che urlavano, e li ricucivano alla meglio; il gesto gli ricordava quello di suo padre che con la lesina ricongiungeva gli strappi delle scarpe. A un certo punto fu introdotto su una barella un giovane, e si levò un mormorio: “E’ Mameli, Mameli…” Mameli! Ne aveva sentito parlare, Peppe, e curioso gli si avvicinò. Il giovane aveva un taglio al ginocchio sinistro che, si diceva, gli aveva involontariamente procurato un bersagliere durante l’assedio. Con la camicia bianca aperta sul petto, il ferito sorrideva, e ringraziava coloro che lo soccorrevano. Un altro mormorio, dopo alcuni minuti, misto a un’insolita agitazione, si levò fra quegli uomini, trafelati ed ansanti: “Il generale, viene il generale!” Ed ecco infatti presentarsi accanto alla barella del giovane colpito al ginocchio lui in persona, il generale Garibaldi. Era lì, fiero negli occhi e nel volto, col suo abbigliamento consueto, il copricapo, il poncho sulla camicia rossa, il fazzoletto al collo, e i calzoni di tela azzurra. Rivolse parole di conforto al ferito: “Coraggio, Goffredo, non è grave, tra poco ne sarei fuori…” Peppe, stanco e affamato com’era, per l’emozione stava per svenire: Garibaldi era lì, a poco più d’un metro da lui! Voleva forse abbracciarlo, gettarglisi ai piedi, ma si piegò a faccia avanti, e sarebbe caduto malamente a terra su un soldato del seguito del generale non l’avesse trattenuto. Garibaldi stesso disse: “Questo ragazzo deve essere esausto, aiutatelo “. Discesero le ombre della sera e tacquero le armi. L’indomani, all’aurora, giunse nell’improvvisata infermeria una signora distintamente vestita; era Iolanda. Aveva deciso di offrire di sé quell’immagine più che altro per imporsi al rispetto, e ci riuscì. “Mio figlio, dov’è mio figlio Giuseppe?” domandava agli uomini che incontrava, e si preparavano già a riprendere i fucili. Pur suscitando ammirazione intorno a sé con la veste e il corpetto di seta su cui spiccava il nero della fluente capigliatura, non otteneva risposte. Quand’ecco che le si fece incontro il garibaldino che aveva sostenuto Peppe la sera prima, al cospetto del generale. “Ah, lei è la mamma… venga, signora. Sta male, ma è un valoroso, ha dato a tutti un valido aiuto.” Entrò seguito dalla signora in una stanza dove insieme ad alcuni feriti giaceva su una coperta stesa sul pavimento Giuseppe, detto Peppe. Sembrava scosso da brividi, sudava, delirava. Iolanda gli si accostò: “Peppe, figlio mio!” Il ragazzo sembrò aprire gli occhi e sorridere. “Come faccio?”disse Iolanda “Voglio portarlo a casa.” “Quanto è distante da qui?” domandò il garibaldino. “Saranno 600-700 metri” Il giovane soldato stette pensieroso un paio di minuti, poi parlò con un altro giovane e s’allontanò, dicendo a Iolanda: “Signora, aspetti qui; faccio presto.” Iolanda guardava Peppe, e si guardava intorno; si fece forza per mantenersi calma. Dopo pochi minuti tornò il soldato, ma al vederlo non era più tale; adesso vestiva abiti civili. “Andiamo, signora” disse “mi sono vestito così non per me, ma per lui” e indicò Peppe. “Se no i francesi ci sparano addosso e uccidono tutt’e due. Mi faccia strada.” E così dicendo sollevò Peppe con le sue forti braccia e se lo caricò sulle spalle. “Andiamo”. Iolanda uscì, e lui la seguiva. Per la strada, quella scena un po’ incuriosiva un po’ commoveva la gente.”È un ferito, è il figlio di questa signora” diceva qualcuno “fate largo, fate passare”. “E’ mio fratello, sta molto male, lo riporto a casa” diceva il garibaldino. Iolanda cercava di affrettare il passo, benché piuttosto impacciata proprio dal suo abbigliamento. Presero per la Lungara, Peppe ogni tanto mandava qualche gemito, e dopo una serie di vicoli che Iolanda conosceva bene (alcuni cittadini osservavano la scena dalle finestre) arrivarono alla casa di Vittorio e Iolanda. Costei ebbe come un moto di vergogna nel far entrare il soldato, che cominciava a dar segni di stanchezza, e che forse s’aspettava davvero di vedere una casa un po’ più di lusso. Ma erano arrivati, e questo era quello che contava. Iolanda fece in tempo a chiudere la porta dello stanzino dove lavorava il marito, e fece entrare soldato e figlio nella camera attigua, dove Peppe fu deposto su un letto. “Grazie, caro giovane” disse Iolanda al garibaldino “Come ti chiami, da dove vieni? “Antonello, signora, ma mi chiamano Nello. Sono lombardo”. “Grazie ancora, Nello, e che Dio ti protegga”. “Signora, il mio unico Dio è Garibaldi, ma, grazie del suo augurio. Viva l’Italia! “Uscì in fretta, e scomparve. “Che ne sarà, di lui?” pensò Iolanda. Poi, riprendendosi, andò prima dal figlio, che immobile nel letto ogni tanto mandava qualche bisbiglio. Gli toccò la fronte, poi nonostante facesse già quasi caldo, gli mise una coperta addosso. Salì al piano superiore; anche lì il marito era a letto, malandato. Come vide entrare la moglie, si mise a sedere, sforzandosi, sulla sponda: “Iolanda!” La stette a guardare un po’; gli sembrava di rivederla giovinetta, quando entrò per la prima volta in quella casa. Anche lei dovette ripensare a quando quell’ uomo era giovane, e aveva saputo conquistare il suo cuore. “Vittorio, coraggio… sto qua.” “E Peppe?” “Dorme.”

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il 2 luglio, verso mezzogiorno, i francesi erano ormai padroni di Roma; la Repubblica non esisteva più. Il sei dello stesso mese moriva Goffredo Mameli, ma prima di lui tanti altri eroi avevano dato la vita per Roma, per la patria: Morosini, Masina, Medici, Dandolo, Manara… Anche un ignoto eroe era spirato ai primi di quel mese, Giuseppe, detto Peppe, ” er “Pecetta”, felice però d’aver aiutato i garibaldini e d’aver visto in faccia il loro generale. Vittorio e Iolanda da allora impararono a sopportarsi un po’ di più, e restarono sempre insieme.

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