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Ricominciare da qui, di Maria Lanciotti

Ricominciare da qui, di Maria Lanciotti
Settembre 20
22:00 2011

lanciotti-ricominciareLa sfida, in senso oggettivo, è una prova, un cimento. Se lanciata, è una provocazione. Se si incrocia Maria Lanciotti si trova la sfida, ogni volta: quella sua personale, e quella che lancia al lettore, nel distillato delle poesie, nel vibrare dei romanzi, ricercando per la scena. Non sta ferma, sperimenta, incessantemente esigente, curiosa, necessitata. Ma cambiando i generi il risultato è identico, ogni volta una somma: di poesia e prosa, di appagamento e di rincorsa. Dividere i romanzi in capitoli o sezioni è abituale, farlo nelle raccolte di poesia lo è meno. Lanciotti lo fa da sempre. È un segnale. Le poesie sono attaccate alla terra, alla vita, sono parte di un viaggio, di un disegno della mente e del cuore. Il viaggio, appunto. Di esso Maria ha una singolare interpretazione, è sempre giunta alla meta, ed è sempre appena partita. È comunque al massimo, come freccia e come tartaruga. Una progressione continua, a pieni giri, mai adagiamenti, niente rimasticature o cali di spessore. La critica di precedenti opere ha parlato di «canto alla vita», di «continuo bilancio», di «passo dopo passo» di «lirica in cammino». C’è un solo libro, di poesia, qui lo vogliamo dire per inciso, che non ha introduzione o postfazione, ed è Suono e visione, del 2006, perché pensiamo che la stessa poetessa sia rimasta attonita e spaurita dalla potenza e novità dei versi. Torniamo però sulla strada. Nell’ultima poesia della raccolta di mezzo, A Passi Contati, nel 2005, Maria dichiara «E ancora sono». Ora intitola Ricominciare da qui (ed. Controluce), ed una poesia di questa opera Non torno al passato (Gli anni passano / sotto i ponti, / inciampano nei greti / nodosi di radici, / perdono luce / e scorie. / Gli anni rombano / nelle cascate, / acqua mi riga la faccia / ma l’albo di foto non apro.). Niente rimasticature dicevamo, ma neanche un girarsi indietro. Lanciotti non ne ha bisogno: tutte le emozioni trascorse sono incatenate dentro di sé, ma tutte, e si vede da ogni poesia, sono proiettate al futuro, trasferite in quadri e parole di tutti. Un tu forse reale, vissuto, diventa generico, universale: Ti piace il bianco metallo / ti piace il fioretto e il pugnale / fremi a toccare le lame / ma non tagli mai pane. Un simbolismo di guerra e odio, condanna severa, e dolore per quel pane sciaguratamente perso, o per un amore inespresso. Ma conviene fermarsi, e riprendere fiato, per ripartire subito e ancora violare, solo un poco, le regole. Non si dovrebbe mai, si sa, svelare la trama, meno che mai il finale. Ma i movimenti di questa sinfonia sono talmente ‘prendenti’ che alla tentazione di uno sguardo ai capitoli non si può resistere. Proveremo a farlo ‘al grezzo’, una pennellata, uno schizzo, un’impressione, o con un abbozzo risolutivo, come Maria in tante sue poesie ‘rondanini’ che testimoniano maturità profonda, però fresca e leggera. Nella sezione “Lingua della lontananza” si riannodano i fili del trascorso, Macerie racchiude tutta la disperazione e si salda con i migranti e Khalid che ha l’orecchio al cellulare e gli occhi al di là del mare (Il gatto s’aggira spaesato / cercando una ciotola / ormai liquefatta, / una voce familiare, / una carezza abituale. / Si rotola dov’era prima l’aiuola / e manda un lamento sfinito / e con le zampe si artiglia la gola / in una lotta solitaria e accanita.). In “Eva del desiderio” tutte dense, filosofiche; vita, cielo, malie; come si fa a non citare … In “Corrispondenze” finezza di metafore, amore eterno, ieri-oggi, universale. In “Uva di monte” lavoro, ricerca, cantate, lampi di un temporale continuo, Dickinson, cambio di registro, semplicemente meravigliose, dice tutto in uno zac, lo stupore e la sostanza, quattro cinque fotogrammi isolati a sé stanti di un corto compiuto (* lontano dalla vita/ viva/ la vita mi appare * ritrovare il fremito/ d’intesa/ con la spiga * pioggia/ senza forza/ il pianto/ resta/ fra le ciglia * sommuovere/ nidi/ d’energia inusitata). In “La ballata del Monsignore” quella che una volta si chiamava poesia civile e ancora oggi si chiama ed è, ma a contrario. In Portami a ballare (per una morte bianca in fonderia) più piani, una grande efficacia perché indiretta, il dolore emerge dalla presenza e, di colpo, dalla mancanza. In Sangue gitano (per una piccola rom travolta al semaforo) denuncia per contrasto con una esplosione di energia, non è un lamento (A quell’incrocio quel giorno galoppavano i sensi/ e sotto la gonna balzano mille puledri/ recinti spezzati – liberate criniere – …). Ecco tutti i capitoli sono un caleidoscopio, ma non di illusioni, di realtà pulsante, torbida o filtrata, sempre abbracciata di poesia. C’è alla fine una quiete dopo la tempesta. Gli ultimi versi dal ricordo lanciano l’attesa. (…e l’armonia rischiarava la piazza e / liberava la vita, e il mirto fioriva.). L’attesa…

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