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Un’epidemia dall’incerta fisionomia

Un’epidemia dall’incerta fisionomia
Novembre 17
15:31 2014

Rapporto OMS del 24 ottobre 2014Nel corso del passato mese di ottobre la Nigeria e il Senegal sono stati dichiarati ‘liberi dall’Ebola’. Trascorsi, dalla guarigione dell’ultimo paziente noto, i 21 giorni senza segnalazioni che servono per essere sicuri che non si manifesteranno altri casi di febbre emorragica eventualmente in incubazione, l’Organizzazione Mondiale dalla Sanità ha certificato che quei Paesi sono Ebola-free.

Una buona notizia, senza dubbio, ma non tanto da far tirare un sospiro di sollievo, perché in quei due Paesi africani il contagio da parte del virus è stato soltanto occasionale, da importazione, dovuto all’arrivo di persone infette provenienti da altri Stati, e ha riguardato assai poche persone: una sola in Senegal, 20 in Nigeria. Anche in Mali, aggiuntosi di recente alla lista dei territori colpiti, si segnala un solo caso, fortunatamente guarito: niente di importante, insomma.
Il problema vero, cioè quello della perdurante crescita del contagio, rimane invece pressoché intatto nei tre Stati della costa occidentale dell’Africa da cui tutto è partito e che risultano ancora oggi maggiormente flagellati dall’epidemia: la Liberia, la Guinea, la Sierra Leone. Qui l’epidemia si manifesta in maniera particolarmente acuta, non tanto per il numero elevato delle persone infettate – finora, poco più di diecimila – quanto, anzi soprattutto perché l’epidemia è ampiamente distribuita nel territorio: si contano sulle dita di una mano i distretti amministrativi di quelle tre Nazioni che non hanno segnalato neppure un caso giunto all’osservazione dei medici (e lì c’è anche il problema che non tutti i pazienti afferiscono alle strutture sanitarie e vengono riconosciuti: in simili condizioni, di tutte queste persone non si può dir molto, neppure quante sono).
In quei tre Stati il virus continua a trasmettersi da persona a persona, viaggiando assai più velocemente di qualunque sistema di contenimento messo in atto, con il risultato che i nuovi infettati sono sempre di più dei pazienti che vengono isolati e posti nell’impossibilità di ‘trasmettere’ il virus. L’uso delle virgolette attorno al termine trasmettere deriva dal fatto che, al contrario di quel che implica la parola, di norma nessuno passa il virus intenzionalmente o consapevolmente: i nuovi contagi dipendono soprattutto dai contatti fisici ordinari che hanno luogo tra persone prossime che ritengono di essere sane o tra gli operatori sanitari vittime di ‘incidenti’ sul lavoro. Tra i pochissimi casi di infrazione di questa regola si segnala quello del paziente in Nigeria, inizialmente ricoverato in un ospedale a causa della febbre, che non è stato isolato e trattato come si doveva, anzi è stato dimesso dopo due giorni, perché affermava di soffrire ‘semplicemente’ di malaria.
Nella realtà africana occorre intensificare gli sforzi per combattere Ebola, e su un doppio fronte: da un lato, assistendo le persone già colpite dalla malattia fornendo loro le migliori cure, nonostante le avverse condizioni economiche e sociali dei luoghi (che ripropongono ancora una volta la necessità di una politica internazionale che sia davvero utile a queste popolazioni); dall’altro, attuando una strategia di prevenzione capace di debellare l’ulteriore propagazione del virus.

Un altro mondo
In Occidente – intendendo con quest’unica espressione sia i nostri Paesi europei che quelli dell’America settentrionale – di fatto l’epidemia di Ebola non c’è. Non ci sono nemmeno quantità significative di casi che possano far parlare propriamente di un’emergenza. Siamo, e dobbiamo giustamente essere, in stato di allerta. Persone in fase contagiosa possono giungere tra noi in ogni momento e costituire un focolaio di nuove infezioni: e questo vale specialmente per le città maggiori e portuali, che hanno un alto passaggio di viaggiatori e visitatori. Sappiamo poi che la malattia è sempre piuttosto grave (con un tasso medio di mortalità vicino al 50%) e dunque non possiamo permetterci di venir colti impreparati. Però non dobbiamo neppure perdere di vista le dimensioni reali del fenomeno, sia nei suoi aspetti sociali che per la sua natura biologica.
In totale, nell’intera Europa sono stati segnalati meno di cinque casi di malattia, quasi tutti finiti con la guarigione; e altrettanti ce ne sono stati negli Usa. Nessuno di questi casi (ad eccezione di un’infermiera contagiata dal paziente che stava assistendo) ha avuto origine in Occidente, ma si è trattato quasi sempre di occidentali appena tornati dalle zone colpite dell’Africa. Oltre a ciò, non va sottovalutato il fatto che il virus non resiste a lungo nell’ambiente e tra i materiali inerti, e che è assente nei vegetali e negli altri animali; che può trasmettersi solo attraverso il passaggio di fluidi corporei (poco con il sudore; di più con saliva, sangue, sperma); e che di solito nessuno di noi ha contatti indiscriminati con estranei o conoscenti che possono accompagnarsi a una trasmissione ‘involontaria’ o ‘inconsapevole’ di quei fluidi. Tutto questo si traduce in una scarsa probabilità di venire infettati: talmente bassa da rasentare, per la maggior parte della popolazione occidentale e dunque anche italiana, un rischio zero.
Conseguenze di un simile quadro? Mantenere un livello di attenzione verso il rischio potenziale di contagio, ma non lasciarsi prendere dall’ansia immotivata o da fobie irrazionali verso cose e persone, che sono virus patogeni ben più gravi di quello dell’ebola.

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