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Washington “nuova Roma”: analogie per un possibile confronto

Washington “nuova Roma”: analogie per un possibile confronto
Dicembre 01
02:00 2007

È davvero possibile e lecito stabilire un confronto tra l’antica Roma imperiale e l’America di oggi?
Quella di Washington come “nuova Roma” è una metafora di moda negli Stati Uniti, e che agli americani piace tanto – anche se magari non conoscono un’acca della storia dell’Urbe – poiché conferma loro quello che già sanno e pensano di sé: di essere un grande e invincibile (benché ormai non invulnerabile) Impero planetario, ovvero la Nazione leader, anzi: l’immagine stessa del mondo contemporaneo. Questo, infatti, sono oggi gli USA: una sorta di mondo nel mondo, un “luogo che potrebbe appartenere a tutti perché tutti vi sono rappresentati”1.
Il confronto è a mio dire sostenibile sulla base di alcuni fondamentali parallelismi, o punti di contatto.
Anzitutto, il mondo antico greco-romano e quello attuale condividono la caratteristica dell’unipolarità: dell’esser cioè conformati da una sola grande potenza egemone. L’Impero che, concepito sin dall’indomani della seconda guerra punica, Roma riuscì a realizzare solo alla fine dell’età repubblicana, apportò – almeno inizialmente – innegabili benefici a tutti i popoli sottoposti, assicurandovi condizioni di pace, promuovendo regolarità e giustizia nell’amministrazione, agevolando la fioritura della vita cittadina, inquadrando in “compagine unitaria” i Paesi del Mediterraneo, ma soprattutto consentendo alle attività economiche di espandersi in un “unico organismo di straordinaria ampiezza”2.
Così come è univoca la matrice economica del mondo globalizzato alla Mc Donald’s, che vede Washington “capitale del pianeta” e gli Stati Uniti leader mondiale in ogni settore produttivo; ma protetti da relativo benessere anche gli Stati del Primo mondo, agganciati alla forza trainante della locomotiva-America.
Scrivono, nel loro celebre Manuale di Storia, Augusto Camera e Renato Fabietti:
“Come oggi parliamo di area del dollaro, così allora si sarebbe potuto parlare dell’area del sesterzio: la moneta bronzea romana che serviva come base per tutti gli scambi, le valutazioni, i bilanci. (…) Le merci, nei limiti in cui ciò era richiesto dall’economia del tempo, potevano circolare con la massima libertà, non intralciate da esose dogane né da preoccupazioni protezionistiche”3.
Fra l’altro, sia detto per inciso, il simbolo del dollaro ($) si rifà esplicitamente al sesterzio, indicato con “HS” (le due barrette dell’acca sono state trasposte verticalmente sulla “S”). In quell’universo di stirpi e culture diverse, tutte ugualmente “romanizzate”, si parlavano molteplici lingue, frammentate in dialetti locali: ma quelle davvero universali erano il latino e il greco – così come due sono le lingue “ufficiali” dell’America, oggi: l’inglese-americano e lo spagnolo.
Altro evidente punto di contatto è l’imperialismo, nell’esercizio del quale l’America ha fondato il suo attuale potere planetario. Ma vale, lo stesso discorso, per l’antica Roma?
Ciò che oggi intendiamo per “imperialismo” è contraddistinto, fra l’altro, da politica di potenza, conquiste militari, annessioni territoriali e sfruttamento economico di altri Stati. È per questo che imperialismo e capitalismo sono, in genere, “strettamente interdipendenti: in un certo stadio del suo sviluppo, uno Stato che basa il suo sistema economico sulla proprietà privata e sul profitto è costretto a occupare militarmente nuovi territori che gli servono da serbatoio di materie prime e di mano d’opera a basso costo, da mercati sicuri per lo smercio dei prodotti, da sbocco per l’investimento dei capitali”4.
Ora, il fatto è che “il mondo antico non ha mai conosciuto una vera e propria economia capitalistica”5. Esso contemplava una economia a base schiavistica (oggi inaccettabile, almeno in termini così espliciti). Gli schiavi sostituivano le macchine: anche per questo il progresso tecnico, pur tenendo conto dei limiti scientifici dell’epoca, risultava lento e inadeguato. C’erano poi grandi masse urbane di “disoccupati” da impiegare in “lavori pubblici”: eventuali progetti tecnologici erano perciò destinati a restare nella mente e negli scritti dei loro pur meritevoli ideatori. Racconta Svetonio che ad un meccanico, offertosi di portare sul Campidoglio grandi colonne con modica spesa, l’Imperatore Vespasiano riconobbe un cospicuo premio per l’invenzione; ma si vide costretto a rifiutarla, giacché non gli avrebbe permesso di continuare a dar di che vivere alla “minuta plebe”.
Malgrado ciò, gli storici parlano normalmente di imperialismo ateniese o romano, poiché anche le politiche espansionistiche degli Stati antichi ubbidivano, spesso, a meccanismi di carattere economico, come ad esempio “il controllo di rotte commerciali, di terre ricche di materie prime, o l’annientamento di concorrenti nei mercati internazionali”6.
Analogie interessanti si colgono, ancora, a livello di filosofia, di pensiero, di mentalità diffusa. Americani e antichi romani si tengono per mano all’insegna del comune pragmatismo. Ha scritto il Pohlenz: “Per loro natura i Romani erano alieni dal filosofare ed esclusivamente interessati agli scopi pratici della vita reale. Legge suprema non era il sapere ma la volontà. Non che non s’appropriassero anche spiritualmente di dati empirici, ma lo facevano al solo scopo di trarne un utile, non di comprenderli nella loro ultima essenza”7.
Vi sono elementi anche per stabilire un parallelismo indiretto fra la letteratura latina e quella americana: entrambe nascono da una letteratura maggiore che le precede, dal punto di vista storico e culturale (rispettivamente la greca e l’europea, anglosassone in particolare), per cui la letteratura latina starebbe a quella greca un po’ come la letteratura americana a quella europea. Un rapporto certamente non facile di filiazione, in entrambi i casi, vissuto non senza spinte contrastanti e tentazioni autonomistiche8.
Altro punto di contatto è l’importanza politica dell’”intrattenimento” (entertainment), utilizzato dal potere ufficiale come strumento di narcosi collettiva, funzionale al mantenimento del consenso e, di conseguenza, dello status quo.
È universalmente nota la valenza propagandistica del cinema hollywoodiano: la “fabbrica dei sogni” capace di esportare sub limine il modello americano e di “colonizzare” – come ha detto il regista Wim Wenders – l’inconscio di ogni uomo, informando di sé il nostro immaginario. Ma si pensi anche al potere di coesione e riconferma sociale che può avere lo sport: sia nella sua forma ordinaria (le partite-fiume di baseball, cui le pacifiche e obese famiglie americane assistono in massa, con tanto di cibi e spalmabile al burro di arachidi), sia in quella unica e scintillante dell’”evento dell’anno”, come la finale del “Superbowl”, con tanto di intermezzi musicali, national anthem, majorettes e ragazze pompon.
In questo gli americani hanno messo a frutto una lezione che proprio i Romani furono per primi in grado di impartire.
A Roma “gli spettacoli rappresentavano un ostacolo alla rivoluzione.
Nell’Urbe, dove le masse contavano 150.000 oziosi esonerati dal lavoro a spese dell’assistenza pubblica, (…) gli spettacoli occupavano il tempo, allentavano le passioni, distraevano gli istinti, sfogavano l’attività. Un popolo che sbadiglia è maturo per la rivolta. I Cesari non hanno lasciato sbadigliare la plebe romana, né di fame (panem) né di noia (circenses): gli spettacoli furono la grande diversione alla disoccupazione dei loro sudditi e, per conseguenza, il sicuro strumento dell’assolutismo; dedicando agli spettacoli ogni cura, dilapidandovi somme favolose, essi provvidero scientemente alla sicurezza del loro potere”9.
Una passione genuina e traboccante (da tifo calcistico ante litteram) animava gli spalti degli “anfiteatri”, che furono costruiti – non a caso in ogni città romanizzata, a mo’ di effigie del potere imperiale – per ospitare i giochi dei gladiatori e altri spettacoli cruenti. Il primo requisito di una giornata all’anfiteatro era la varietà (canone estetico molto apprezzato anche dagli americani): gli spettacoli duravano dall’alba al tramonto, talvolta fino a notte avanzata, e quindi non dovevano annoiare.
Altro punto di contatto è la preferenza che entrambi, Romani e Americani, accordano alla commedia rispetto alla tragedia (indubbiamente greca per gli uni, così come europea per gli altri): si pensi alla straordinaria e originaria vis comica di un Plauto, o all’immancabile happy end che marchia a fuoco, a garanzia di successo, ogni tipico prodotto hollywoodiano.
Ulteriore punto di contatto è il mecenatismo, che nasce a Roma e viene poi riproposto dai vari Rockefeller, Carnegie e Guggenheim, fino a rivelarsi una “tra le principali caratteristiche della vita intellettuale americana”10. Insomma: come Roma a quel tempo, è oggi l’America il centro nevralgico e propulsivo della vita economica, politica, sociale, culturale, etc., nel mondo cosiddetto civilizzato.
L’”impero americano”, peraltro, non sembra immune da una “sindrome implosiva” che già sui Romani ebbe effetti perniciosi, e poi letali, quando il loro Impero mediterraneo andò man mano uniformandosi (oggi parliamo di globalizzazione), quando la cittadinanza romana venne progressivamente estesa, quando le città assunsero un’importanza sempre maggiore: quando infine – dinanzi alle minacce esterne – l’autorità del Princeps fu costretta ad accentuarsi, così come l’invadenza del militarismo.
Analizzare il crollo dell’Impero romano potrebbe forse servire ad azzardare previsioni sul futuro dell’America?
Chi sono, terrorismi a parte, i nuovi “barbari” che premono alle porte? Chi potrebbe sancire il declino del predominio a stelle e strisce, strappando agli USA l’attuale testimone della Storia, la fiaccola ardente della “civiltà”?
Le vestigia romane, eloquenti e ammonitrici, pongono in silenzio le domande.
E la risposta, come canta l’americano Bob Dylan, è “scritta nel vento”…
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1 A. Valladão, Il XXI secolo sarà americano, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 42.
2 Ibidem.
3 A. Camera, R. Fabietti, op. cit., p. 40.
4 V. Calvani, A. Giardina, Storia antica – Roma, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 73.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 536.
8 si pensi, ad esempio, all’antiellenismo di un Marco Porcio Catone o, parallelamente, alla polemica contro il vecchio continente che anima le pagine di molti autori americani, benché indubbiamente debitori nei confronti della cultura europea.
9 cit. da Jérôme Carcopino, in Calvani, Giardina, op. cit., p. 166.
10 A. Valladão, op. cit., p. 82.

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