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Archeologia

Dal libro di Mirco Buffi – “Momenti Monticiani” edito dall’Associazione Culturale Photo Club Controluce

Il vulcano laziale è ricordato dagli autori classici con innumerevoli laghetti formatisi sulle bocche dei crateri eccentrici. Tra questi è menzionato il laghetto di Labico Quintanense, il cui sito viene indicato o presso l’attuale frazione di Laghetto o sotto Monte Falcone (L. Quilici). Osservando la carta idrogeologica (IGM) si notano due zone colorate in azzurro, in cui la legenda le indica come: “zone alluvionali recenti o attuali”. Una è situata nella località Valle della Monaca e l’altra a Valle Sogli. Ciò ci spinge ad affermare che il laghetto labicano potrebbe essere proprio quest’ultimo di Valle Sogli.

Il toponimo che affrettatamente si fa derivare da “sole”, potrebbe invece derivare, da come si legge sul vocabolario Campanini-Carbone: solium e cioè soglio, trono e anche tinozza, vasca da bagno, oppure ancora sarcofago, sepolcro di pietra. Lasciamo al lettore la libera interpretazione sul significato della parola.

Nella zona descritta, delle antiche sorgenti sono ancora presenti la fontana del Piscaro, fontana Laura, fontana di Cannetacce, delle Faete e dei Prataranni, tutte oggi fornite dall’acquedotto della Doganella, mentre i vecchi del paese ne ricordano le sorgenti naturali site nei pressi.

Osservando attentamente le carte IGM, ci accorgiamo che anche in altre zone, a valle di Colonna ad esempio, si raccoglievano le acque in conformazioni lacustri. Al di sotto dell’altipiano che indicheremo come Quintanense e cioè tra i paesi di Colonna, Monte Compatri e San Cesareo, nella località oggi conosciuta come Pantano (che si trova praticamente al livello del mare), una grande estensione di acque formava il mitico lago Regillo, teatro di quella famosa battaglia in cui furono segnati i destini di tutte le popolazioni che anticamente abitavano il Lazio. Secondo Tito Livio, il lago Regillo arrivava sino ad un miglio e mezzo dalla città di Fidenae (l’attuale Castel Giubileo). Lungo l’argine settentrionale di questo lago, un cono craterico s’alza a circa 100 metri d’altitudine: è il cratere di Gabii, con l’omonimo lago nella sua caldera (è conosciuto anche come Burrano e poi Castiglione). Gabii, città latina, fu occupata da Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, che lì morì. Ma questa è un’altra storia.

Ad est dell’altopiano, a Valle della Monica, alle falde del Monte dell’Orso, un’altra zona alluvionale, di forma molto allungata, sembra nascere sotto il monte Ceraso (Ceres?). È un “lago” racchiuso tra le località chiamate Campo Gillaro (o Giano, come la indicano gli abitanti di Monte Compatri) e dalla zona chiamata Le Faete (in altre parole “Le Faggete”).

Il Faggio di solito vive ad alte quote, ma anche in zone fredde, in cui esiste il ristagno d’acqua. Questa lingua d’acqua si originava, con molta probabilità, da qualche falda profonda che era collegata con il lago interno presente sul grande cratere (Vivaro), forse quello di Albalonga (Albalonga-Lungo alpeggio… “Capri-Bellucci-Dolfi”), che è altresì visibile sulla detta carta, di cui esistono foto risalenti al 1938, epoca in cui è stato definitivamente prosciugato.

 

L’Altipiano Quintanense

Questo altopiano, compreso tra i due laghi e posizionato in dolci declivi attorno alla quota di 300 metri s.l.m., è racchiuso da colline di più elevata misura: a nord Colonna (343 m), Colle di S. Andrea; a sud-est i monti di Colle Romano (531 m), Caporuscio (600 m) e Monte dell’Orso (518 m) e a sud e a ovest la catena di Rocca Priora (768 m), Monte Salomone (773 m) e la Montagnola (750 m), e le più miti, ma inaccessibili, quote di Monte Porzio (451 m), Monte Doddo (461 m) e Monte Compatri (576 m). Morfologicamente è attraversato da colate laviche che ne variano il paesaggio, formando dei microclimi che di conseguenza mutano anche la vegetazione e quindi anche le forme colturali. L’esposizione è orientata verso il nord ed è aperta verso est e verso ovest e questa caratteristica ne ha fatto la fortuna sia in tempi antichi che recenti: fresco d’estate e asciutto d’inverno.

Se poi consideriamo l’abbondanza di acqua e la possibilità di luoghi naturali di difesa, l’insediamento dell’uomo è avvenuto ininterrottamente fin dai tempi primordiali, anche se sporadici sono i ritrovamenti, soprattutto per la continua riutilizzazione del territorio. Ma dei tempi antichi e della mitica città di Lavicòs ci ripromettiamo di parlarne in altra occasione.

Le peculiarità generali di questo altopiano non sono mutate essenzialmente da allora. Come ci racconta Columella, l’imperatore Tiberio mangiava l’uva labicana per purificarsi lo stomaco (tre once e mezza al giorno circa).

La zona sembra mantenere anche l’assetto viario antico, con strade dritte e incrocianti, orientate nel sistema di allora: i cardi e i decumani, seguendo gli assi nord-sud e est-ovest.

Oltre le sorgenti naturali, rilevanti sistemi per la condotta e la raccolta di acque sono visibili presso ogni collina e testimoniano anche l’insediamento rurale, a volte di straordinaria fattura, che si nota sia dalle costruzioni imponenti che dai numerosi “coccetti” di varia tipologia che si rinvengono.

 

Un po’ di storia, dati e date …

Nell’anno 418 a.C., la città di Lavicòs venne distrutta dai tusculani alleati dei romani; sembra che tale distruzione sia da addebitare al fatto che gli Equi, alleati con i Labicani, attaccarono Tusculo e sconfitti, pagarono con la cancellazione definitiva della città. Riteniamo che in effetti due città come Tusculo e Lavicòs, poste a così breve distanza l’una dall’altra, non potevano comunque coesistere, soprattutto perché Tusculo aveva ormai perso le proprie origini albensi e, asservita a Roma, tentava di raggiungere la supremazia territoriale che comunque otterrà a danno delle popolazioni latine limitrofe.

Dopo qualche anno, nei territori conquistati furono inviati 1500 coloni, veterani della guerra che forse loro stessi avevano combattuto e vinto. La colonia diventò importante per molteplici motivi che vedremo in seguito, talmente importante che si costruì una strada che da Roma confluiva con la via Latina presso la statio ad pictas. La strada fu chiamata chiaramente Labicana. La statio in prossimità della colonia assunse il nome di statio ad quintanas e si trovava al XV miglio. I suoi coloni presero il nome di Labicani Quintanensi.

Il nome quintanense, sembra che abbia origine dalla via Quintana che era la via dell’accampamento riservata ai mercati.

È curioso il fatto che il numero 15 si ripete come una cabala e chissà che questa coincidenza non voglia invece ricordare qualcosa d’altro.

L’episodio dell’invio dei coloni fu in un certo senso rivoluzionario, infatti è la prima volta che accade che i territori conquistati vengono concessi ai soldati. È il segno di quello che qualche anno più tardi si concretizzerà in maniera più visibile e che produrrà enormi cambiamenti sociali nel Diritto Romano.

Secondo alcuni storici questo fatto, raccontato da Tito Livio, è anacronistico, e va posto in epoca più tarda rispetto agli eventi da lui descritti. Indubbiamente però, distrutta la città antica e decimati i suoi abitanti, era un peccato sprecare la terra coltivabile, tanto più che alcuni veterani organizzati stavano promuovendo manifestazioni di protesta. Demagogicamente, anziché protestare, si poteva invece consegnare loro quella terra e farli divenire proprietari terrieri e quindi tenerli impegnati in un’attività che certamente non era, né è facile.

Furono consegnati 2 jugeri (4.800 mq) a testa; ora ipotizziamo che quei neocontadini abbiano coltivato a vite quei territori e proviamo a calcolare come e quanto potevano ottenere in guadagno: quella quantità di terra oggi potrebbe produrre circa 5 botti di uva pari a circa 60 quintali. L’uva era coltivata con il sistema a “conocchia”, che produceva meno rispetto ai sistemi odierni. Fissiamo la quantità in circa 40 quintali cioè in 3.000 litri di vino. Oggi, ad un costo in cantina che oscilla tra le 2.000 lire (circa 1 euro) a portar via e le 4.000 bevuto in sito, da un reddito compreso tra i sei e i dodici milioni di lire annui (circa 3100-6200 euro).

Ma vediamo a quei tempi che tipo di conti escono fuori, facendo presente che le traduzioni in lire ed euro sono ovviamente approssimative: nel I secolo a.C. il vino comune costava un asse a misura, il vino doc (Falerno) si pagava 4 assi (1 sesterzio). Ovvero il vino comune ad un asse per litro moltiplicato i 3.000 litri da un totale di 3.000 assi cioè poco più di 700 sesterzi annui. Secondo Robert Etienne nel suo “La vie a Pompei”, oggi un asse avrebbe un valore di circa 300 lire (circa 15 centesimi di euro), tale da produrre un reddito rivalutato in nove milioni di lire (circa 4650 euro).

Qualcuno potrebbe dire che la vita prima costava molto meno e ciò è vero, quindi vediamo di capire quanto realmente vale quel reddito. Ecco alcuni prezzi dello stesso periodo in esame:

1 pagnotta (500 gr) 1 asse 300 £. 0,15 euro
1 lt d’olio 12 assi 3.600 £ 1,86 euro
1 pollo 2 assi 600 £ 0,31 euro
1 uovo 1 asse 300 £. 0,15 euro
1 moggio di grano 30 assi 9.000 £ 4,65 euro

Facendo un po’ di calcoli, con 1.000-1.500 lire (circa 50-75 centesimi di euro) al giorno, di quei tempi, si poteva campare la famiglia media del veterano, composta da 3-4 persone. Per cibarsi, quindi, si spendevano l’equivalente di circa 2 milioni di lire di oggi (circa 1033 euro). Se il reddito era quello che abbiamo indicato prima, possiamo arguire che, con i dovuti sacrifici, la vita non era affatto malvagia.

 

L’Accampamento

Quei primi coloni sicuramente seguirono il rito che era usuale nella costruzione o nella divisione delle terre. Il rito prevedeva nel tracciare e delimitare una porzione di cielo (Templum) e trarne così gli auspici. Se tutto era in sintonia con il buon esito, si passava ad individuare il centro della città e delle principali direttrici del suo sviluppo viario, a mezzo di fosse e di cippi, che servivano come punti di riferimento. Per tracciare il perimetro dell’insediamento, veniva scavato un solco che diventava linea inviolabile, il quale era interrotto solo dalle porte.

All’interno ed all’esterno correva una fascia di terreno che doveva rimanere vergine: né coltivata, né edificata e che veniva consacrata alla divinità (Pomerium). Ultimo atto era il sacrificio per accaparrarsi la benevolenza degli dei.

La cinta muraria della città, delimitava in realtà un’ampia zona, e spesso, più opere difensive ad anello avvolgevano il territorio.

Il nucleo abitativo era quindi dislocato sulle colline o su zoccoli tufacei, luoghi più difendibili e più salubri. Questo sistema costruttivo, è, in realtà, il più semplice immaginabile. Scelta la zona favorevole, di solito vicino all’acqua per i bisogni igienici, si rizzava, al centro, la tenda del capo e a partire da quel punto, si tracciavano due strade, orientate lungo l’asse nord-sud ed est-ovest, che si tagliavano ortogonalmente e lungo le quali si ponevano le tende del primo insediamento, compresi i servizi.

Le tende erano di cuoio di pelle di capra, di forma come le moderne canadesi; quadrate alla base, di 10 piedi (circa tre metri) per lato, con due ingressi sul fronte e sul retro e un tetto a doppio spiovente, teso con picchetti. Erano tende militari, che viaggiavano arrotolate sul dorso di muli, venivano chiamate papiliones (farfalle). Negli accampamenti militari, in ogni tenda vi dormivano otto soldati, per cui per una centuria di 80 uomini venivano montate solo 8 tende, dato che 16 soldati si alternavano a fare la sentinella. Il fossato che si scavava aveva di solito dimensioni variabili: da un metro e mezzo fino a tre metri di larghezza e da un metro ai due e mezzo di profondità. In alcuni punti, da noi ipotizzati come confine, questi solchi sembrano ancora conservati. I fossati erano protetti da palizzate che si rizzavano sul terrapieno della terra di risulta dello scavo. Non mancava mai, a fianco dell’edificio principale, un piccolo santuario in cui erano custodite gelosamente le insegne, si scavava nel suo centro una caverna dove di solito venivano riposte insieme alla cassa; l’alfiere quindi ricopriva anche l’incarico di cassiere. Ai due lati della strada principalis (quella dove era posto il sacello con la tenda del capo-principalis orientata est-ovest), vi erano le carceri da una parte e dall’altra la Schola, luogo dove si riunivano nelle ore libere.

L’estensione dell’altipiano quintanense può essere dedotta da un rapido calcolo matematico: se 1500 erano i coloni ai quali toccarono 2 jugeri a testa, pari a circa 5000 metri quadri, l’estensione totale risulta di circa 750 ettari, ovvero un quadrato avente i lati di 2,8 chilometri. Questo spazio è inscritto perfettamente nell’altipiano in questione.

Da Tito Livio apprendiamo che quando venivano fondate delle colonie, una schiera di commercianti e di altre figure professionali, seguivano i fondatori. Ben presto questi lavoratori, costruendo il loro futuro, diedero impulsi insediativi a tutta la zona, ed ecco che da un giorno all’altro, si iniziò una grande opera di bonifica e di costruzione di acquedotti, strade, ecc. Tutta la zona divenne importante sia dal punto di vista della produzione agricola, che come cittadina, tanto da meritare ancora il ricordo a Roma della via Labicana. Fino all’anno 1111 la curia labicana quintanense aveva un suo vescovo; l’ultimo fu un tal Bovone o Bonone (il primo di nome Zotico è attestato dall’editto di Milano nel 313).

In questa grande opera di costruzione, molte delle tracce precedenti sono state cancellate, l’inaridirsi delle sorgenti, il prosciugamento dei due laghi per acquisire nuova terra alle coltivazioni, ed altri fenomeni naturali hanno cambiato profondamente l’aspetto geo-morfografico.

Una industria fiorente doveva esistere nella colonia che divenne repubblica: avevano buona nomea, infatti, le Figline quinziane, terrecotte rinvenute anche ad Ostia antica e sparse in tutta la zona con molteplici timbri: CVILLYCRESSY, DONATI LICINII, SAL…

Vari toponimi ricordano proprio questa attività lavorativa: Cacciaterra, la Fornace, Le Terre rosse, Formali ecc.

 

L’agricoltura

Oltre la vite e la produzione legnatica (Faggi), la zona, avendo vari microclimi, si prestava a svariate coltivazioni: a Pantano, per esempio, era diffusa, fino ai tempi recenti, la coltivazione di piante fibrose, quali la canapa, il lino, la juta ecc., prodotti questi che necessitano di abbondante acqua. Infatti, quella zona era il sito dell’antico lago Regillo, che fu ridotto a poco più di un pantano, poiché le sue acque, con canalizzazioni e acquedotti (acquedotto Alessandrino) furono deviate in altri luoghi.

Nelle zone d’altura e sulle colline umide, i boschi erano l’elemento dominante e quindi, di conseguenza, la selvaggina garantiva lo svago della caccia né più né meno come adesso, anche se in maniera assai inferiore: a quei tempi, probabilmente, non esistevano i costruttori abusivi che devastano con le loro opere spazi vitali.

Ben presto tutta la zona divenne un importante polo agricolo e turistico. Tutte le colline del bordo craterico ospitarono agglomerati urbani e ville rustiche, da Tusculo al Monte Ceraso e giù fino all’Aniene. Le ville rustiche assunsero veri e propri connotati di fattorie produttive, la ricchezza di acque e la terra fertile vulcanica fecero si che molteplici prodotti potessero essere coltivati.

Le vie Labicana e Latina

La via Labicana, costruita in basolato, forse nel IV secolo a.C., divenne subito un’arteria fondamentale che sgravò la via Latina, molto più scomoda e diede, quindi, un impulso straordinario a tutta la zona. Le due vie si congiungevano nella statio ad Pictas. Il curator della via Labicana era lo stesso di quella Latina.

Queste strade subirono, nel corso del tempo, molte modifiche del tracciato e furono rifatte almeno tre volte scendendo sempre più a valle verso la pianura, fino ad identificarsi con l’attuale Casilinum, per la Labicana, mentre la Latina occupò l’alveolo del lago centrale. Dalla tabula di Peuntinger la via Labicana è così rappresentata: la statio ad Quintanas, posta al XV miglio, precede la statio ad Statua e la statio ad Pictas.

Un Fora (Colle de’ Fora) forse doveva esistere in prossimità dell’ incrocio, tra i più importanti della zona, poiché congiungeva la via dell’Olmata di Palestrina al vulcano castellano. Congiunzione questa che da tempi remotissimi permetteva il valico verso l’entroterra appenninico.

La statio ad Statua, al di sopra dell’attuale San Cesareo, in prossimità di Monte dell’Orso, trae il proprio nome probabilmente da una o più statue che dovevano esistere in tale località, secondo alcuni, quelle di Giulio Cesare, poiché tradizione vuole che, proprio da quelle parti, il grande Cesare vi abbia costruito la propria villa rustica, e come egli stesso asserisce, vi scrisse il “De bello Gallico”.

La statio ad Pictas era posta alla confluenza della Labicana, della Latina e della via che univa queste a Palestrina. Pictas significa “dipinta”, era dunque variopinta e multicolore; il Nibby la ricorda come di cultura etrusca, viste anche le tombe principesche ritrovate nei pressi e ora conservate al museo di Palestrina. La via Latina continuava, da Pictas, il suo percorso verso il Latium Novum. Questa strada, all’interno del recinto craterico, in prossimità del Passo dell’Aglio, prima di scendere verso la confluenza con la Labicana, seguendo la cinta craterica, volgeva verso le montagne dell’Ariano, fiancheggiando le sorgenti della Doganella, i due laghetti e il Passo del Broscione. Questo tratto di strada che non sembra affatto un diverticolo, è in basolato ed è conservata in ottimo stato.

L’Algido e Diana Algidense

In più occasioni Strabone narra, quando descrive geograficamente il nord del Vulcano Laziale, della catena dell’Algido, che delimita a settentrione la caldera dell’antico vulcano (fase del Tuscolano-Artemisio) e che quindi comprende i coni di scorie dal Tusculo alla Doganella. Inoltre, narra Tito Livio, l’Algidus Mons fu il teatro di battaglia della guerra tra Equi e Romani, che nel 418 a.C. vide la fine di Labico e la nascita di Labico Quintanense attraverso la celebre spartizione ai 1500 coloni dedotti dall’Urbe. Dice Tito Livio che gli Equi erano soliti accamparsi sull’Algido per attaccare la città di Tuscolo, e l’unico monte dalla favorevole posizione intorno a Tusculo è la Montagnola, che quindi ha buone probabilità di essere proprio l’Algido.

Ma analizziamo il tutto da un altro punto di vista: quello geografico-letterale.

Possiamo risalire alle caratteristiche dell’Algido esaminandone il toponimo: la parola algido fa pensare immediatamente al freddo, e infatti in latino vuol dire proprio freddo, gelido, anche ghiacciato; ma riflettendoci bene, si scopre che la parola è legata anche al suffisso algia (derivante dal greco), cioè dolore (gastralgia, nevralgia …). Inoltre la radice della parola rende anche una sensazione di umidità (l’alga).

In sintesi, l’archetipo della parola ci dice qualcosa in relazione al freddo, all’umido e al dolore derivante. L’Algido era quindi un monte freddo, ricco di sorgenti e di vegetazione.

Ricorda Orazio nei suoi Carmi:

“…Voi la dea che s’allieta

dei fiumi e delle cime

di quanti alberi sorgono

dall’Algido nevoso…“

La Montagnola, sui 750 m. s.l.m., è un monte ricco di sorgenti, che si dirigono a valle, a nord di Monte Compatri.

Il Monte Algido, così strategicamente importante e dalla collocazione misteriosa, riveste anche un’interessante funzionalità religiosa: vi si trovava, dice Orazio, il tempio di Diana, perciò soprannominata Algidense.

“E Diana, che abita l’Algido e l’Aventino…”

Per capire dove poteva erigersi il tempio di Diana e provare a definirne il sito è necessario prima conoscere e comprendere la dea.

L’etimologia del nome Diana è ancora molto in discussione, potrebbe derivare dalla forma femminile del dio sumerico An (o Anu, presso gli assiro-babilonesi), il cielo, il firmamento, e cioè Annae (o Inanna), la sua compagna. Così, mentre il dio Anu nella cultura latina dava origine a Jano (Giano), Annae avrebbe potuto dare origine alla dea Diana, una divinità misteriosa, il cui culto veniva celebrato da tempi remotissimi.

Ma con il tempo i culti cambiano, si modificano, si adattano: così, l’ancestrale Giano, da dio del cielo, diventa il dio della creazione, l’inizio, la porta (ianua-ae in latino) presso i latini, e non rappresenta più l’opposto di Diana dea della luna, della caccia, della notte. Giano viene così in questo modo soppiantato da Apollo, ovvero il giorno, la luce, il sole.

Diana è l’esemplificazione della femminilità della natura, è la personificazione della natura stessa, la si può descrivere come una sorta di trasposizione dello Jing-Jang del taoismo in occidente: lo Jang rappresenta il Cielo, la parte attiva dell’universo, il principio maschile, il giorno, il Sole, ed è costituito dallo splendente Apollo, mentre lo Jing rappresenta la Terra, la parte passiva dell’universo, il principio femminile, la notte, la Luna, ed è appunto Diana.

Diana è la natura che agisce nell’inconscio, come la notte, e splende della luce riflessa del solare fratello Apollo, infatti la Luna, simbolo della dea, riluce solo perché illuminata dal Sole. La Luna è il simbolo di Diana, infatti essa reca con sé una falce e, in relazione con le fasi lunari, viene detta Triforme, o Trivia, per il suo triplice aspetto che la rende imprevedibile, come lo è d’altronde la natura: Diana è infatti la dea della caccia (l’arco a forma di luna è la sua arma) a monito della crudeltà della natura, che per quanto bella e affascinante, sa anche distruggere: è la vergine, la purezza della natura che si può manifestare solo tale (altrimenti che natura è?), ed è la luce della notte, la Luna appunto, che si manifesta in modo diverso dal Sole, in una realtà più misteriosa, e volubile. La dea Diana era inoltre la protettrice delle strade e dei crocicchi

I latini celebravano le feste in onore di Diana nelle Idi di Agosto (Festum Dianae) per tre giorni dal 13 al 15, ed è per questo motivo che il 15 noi festeggiamo la Vergine Assunta in Cielo. Durante le feste in suo onore le donne incinte si recavano nel suo santuario a pregare la dea, protettrice dei parti e delle pratiche magiche.

Diana, una delle principali divinità della Lega Latina, era una divinità silvestre, il suo più celebre santuario era posto alle pendici del Monte Albano (Monte Cavo) in mezzo ad un bosco sacro (detto nemus, da cui deriva Nemi) sulle sponde settentrionali del Lago di Nemi, il cosiddetto Specchio di Diana. Tuttora esiste il tempio dedicato a Diana Nemorensis, che vanta origini antichissime, precedenti al V sec. a.C. Quando poi Roma estese la propria egemonia su tutto il Latium Vetus, sotto il regno di Servio Tullio, decise di far proprio il culto di Diana e costruì un tempio dedicato appunto a Diana Cornificia (in relazione alla falce lunare, che nell’iconoclastia della dea appare sul capo di Diana, come delle corna) sul colle Aventino. Ma il luogo di culto di questa dea che più c’interessa, è senz’altro quello del tempio di Diana Algidense, che ancora attende un’ubicazione precisa.

È importante conoscere le caratteristiche di un dio o una dea prima di provare a posizionarne il tempio: come il santuario di Diana Nemorensis si trovava in un bosco sacro, simboleggiandone la personificazione della natura, anche il tempio di Diana Algidense si doveva trovare in una posizione particolare, che riprendesse le caratteristiche del nume. È quindi una contraddizione collocare il tempio di Diana sulla sommità dell’Algido: Diana è la femminilità, la notte, che si nasconde nel suo regno (la natura) e così, inconsciamente, come gli effetti delle sue azioni, il suo santuario deve essere celato, nascosto agli occhi di tutti, ma ugualmente visibile.

Il colle di San Silvestro, sul versante che da nord-est scende fino alla sella tra la Montagnola e Monte Compatri, offre una sistemazione ideale per posizionare il tempio di Diana.

Inoltre, poco distante dal convento omonimo, si trova la chiesetta della conosciutissima Madonna del Castagno. Il nome rievoca un culto silvestre (del Castagno, cioè degli alberi, della natura) le cui origini si perdono nei secoli; e quindi è lecito pensare che proprio il culto della Madonna del Castagno sia una riapparizione del culto di Diana, secoli dopo il suo declino, ma così radicato in queste terre da tornare come culto cristiano.

Non è quindi da escludere l’ipotesi che proprio ivi vi fosse il luogo di culto che alcuni amano porre in una località e altri in un’altra, ma che testimonia il culto radicato di una dea che ha rappresentato la cultura e la tradizione di un popolo che sapeva vivere in armonia con la natura, sfruttando le possibilità che aveva a disposizione e adeguandosi quando la natura era avversa: non a caso il culto silvestre di Diana è uno dei più antichi che si conoscano da queste parti.

 

Toponimi su cui riflettere… (dal vocabolario Campanini-Carbone)

Le citazioni che seguiranno sono chiaramente arbitrarie e, forse, non pertinenti; ma abbiamo voluto comunque proporre questa riflessione su alcuni nomi, perché sfogliando il vocabolario, stranamente, certe parole si legano quasi perfettamente con le peculiarità geografiche o storiche delle zone in esame. Parole che presentano un’assonanza, diremmo quasi misteriosa, con i nomi moderni. Ricordiamo, comunque, che il Catasto con i relativi toponimi, edito nel 1938, fu compilato da eminenti letterati che tentarono di tradurre i nomi popolari, con nomi in italiano corretto. Operazione questa, che, in alcuni casi, ha fatto perdere il vero nome e, se lo conservava, anche il significato.

La Cucca: oggi il significato di questa parola è legato al senso stretto di coricarsi, l’equivalente latino è cubans, che dà origine a varie parole di significati più o meno diversi, ma riconducibili all’archetipo di declive, che è in pendio; è interessante invece riflettere sul significato che assume cuccus e cioè il sonno eterno.

Pian Quintini: fin troppo facile è l’identificazione di Quintini con Quintani, non ci sembra il caso di aggiungere altro.

Mattia-Mazzini: questi due toponimi ci sembrano legati dallo stesso radicale, mat-maz= max; le due zone sono confinanti e la seconda parte del nome ia-ini esprime il concetto di inizio legato o al senso di salita o di entrata in una data zona (ineo-inis-inii)

Mazzi (colle): ha lo stesso significato dei precedenti e si trova sul lato sud-est dell’altipiano, sulle rive del lago di campo Gillaro.

Mont’Est: dial. Mondeste; montesque, inizio dei monti.

Valle della Monaca: luogo ove era posizionato il lago ad est di Quintanas; il termine Monaca assomiglia a mon(s)aquae, cumulo d’acqua.

Vallone del Portone: chissà se alla fine della strada che dalla Cucca porta al Vallone vi esisteva una porta d’ingresso alla città antica.

Colle Tufini: è un colle con innumerevoli blocchi di tufo squadrati, posti per lo più a contenimento di terra e quindi messi uno sopra l’altro.

Formali: questo vallone come quello dei Formalicchi ha, presso i bordi, numerosi blocchi di tufo, come abbiamo già detto per Colle Tufino.

Valle Dodici: dial. Dudici; diducere, diduco; ha molteplici significati, ma tutti legati alla divisione o all’allargamento. Interessante è un’espressione di Cicerone: “civitas diducta”, la città divisa. Poteva essere il luogo scelto dall’aruspice per il rito, il centro geografico dell’altipiano.

Valle Sogli: abbiamo già parlato di questo nome nell’introduzione.

Colle di Fuori: dial. Colle de’Fora; Fora- Foro, luogo in cui si tenevano i mercati. Nel primo caso quelli suburbani, di solito in prossimità degli incroci importanti.

Carchitti: carectu-i, macchie di càrici, specie di canne palustri.

 

L’approvvigionamento idrico

L’approvvigionamento dell’acqua ha spesso determinato la scelta del luogo degli insediamenti. La prima fonte di rifornimento sono stati in generale, quindi, i corsi d’acqua e le fonti naturali. Queste ultime erano considerate talmente importanti da divenire sacre, mediante una funzione rituale associata alle ninfe, divinità dell’acqua (da cui il nome di ninfei dato alle fontane ornamentali).

Un altro sistema di approvvigionamento erano i pozzi, più numerosi però nelle regioni settentrionali, mentre nelle aree mediterranee il sistema più diffuso di raccolta erano le cisterne. Infine gli acquedotti provvedevano alle esigenze di quantità d’acqua considerevoli, richieste dallo sviluppo dei centri urbani e dalle necessità dell’agricoltura. Attorno all’altipiano e sull’altipiano medesimo, contiamo circa 36 cisterne di enormi dimensioni, a doppia navata con 4 o 5 arcate.

La presenza delle cisterne all’interno delle abitazioni è documentata a Pompei a partire dal VI sec. a.C. Nel III secolo nell’atrium delle case compariva un apertura nel tetto, il compluvium, attraverso il quale l’acqua veniva raccolta al suolo in un bacino, impluvium. Qui si decantava, ossia rilasciava sul fondo le impurità raccolte sui tetti e per mezzo di un’apertura situata poco al di sotto del fondo, passava nella cisterna scavata sotto l’atrium.

L’acqua si attingeva dalla cisterna attraverso una sorta di pozzo di presa aperto nell’atrium, più raramente nella cucina, che veniva detto puteal ed era un cilindro di marmo o di terracotta decorato (da ricordare che a Monte Compatri, il vicolo ora chiamato Chiarelli, era conosciuto come la “puzziera” e probabilmente questo nome deriva proprio dal luogo in cui si attingeva l’acqua, esistendovi nelle immediate vicinanze sia la cisterna, forse di epoca romana, che alcuni pozzi).

Se la stagione era particolarmente piovosa, l’acqua in eccesso si immetteva in un condotto di troppo pieno appositamente predisposto e da qui defluiva o nelle fognature o sulla strada passando sotto il marciapiede (all’inizio di via Annibaldeschi la strada conserva il nome di “Vadu”, ovvero guado).

La raccolta dell’acqua secondo il principio del compluvium, avveniva non solo negli atrii delle case, ma anche nei peristili, nei giardini, nelle palestre, insomma in qualsiasi luogo pubblico o privato, dove fosse necessaria una riserva d’acqua. In questi casi, attraverso le grondaie e i tubi di scarico, l’acqua si raccoglieva, anziché in un impluvium, dentro dei canaletti di pietra o di muratura.

Nei centri riforniti dagli acquedotti le cisterne erano alimentate da questi ultimi, mantenendo la loro funzione di serbatoi.

Un altro sistema di raccolta delle acque era quello detto ad “emungimentum”: l’acqua giungeva alla cisterna dopo essere stata filtrata per mezzo di cunicoli scavati nel terreno.

Da questa breve descrizione del loro funzionamento, emerge la possibilità che la maggior parte delle cisterne fossero interrate. Questo dato, insieme al fatto di dover contenere l’acqua, le rendeva edifici altamente specializzati, la cui costruzione richiedeva una cura e dei calcoli particolari.

Come erano costruite?

C’è da dire innanzitutto, che i fattori da tenere presenti prima di costruire un edificio erano gli stessi di oggi, tre in particolare quelli da segnalare:

– la sua grandezza e il suo sviluppo in orizzontale (estensione su grandi aree, come nel caso delle ville) o in verticale (costruzioni a più piani, ad esempio le insule);

– la sua posizione, ossia il tipo di esposizione agli agenti atmosferici (sole, vento, pioggia ecc.) e il tipo di ubicazione (in un centro abitato o isolato);

– la sua funzione (abitativa o altro).

In base a queste osservazioni preliminari, i mensores (con questo termine si indicavano gli architetti, gli ingegneri o gli agrimensori), sceglievano le tecniche di costruzione. Il Ciuffa, nel suo libro Montecompatri e i Castelli Limitrofi, pone negli attuali locali del “salone” (i locali sottostanti il teatro parrocchiale), la cisterna che doveva servire la comunità più antica di Monte Compatri, di cui non sappiamo nulla o quasi.

Che cosa sono le tecniche di costruzione?

I vari modi di mettere insieme, di comporre i materiali (calce, sabbia, acqua, mattoni, pietre, ecc.), in relazione alle loro caratteristiche, quali possono essere ad esempio: la resistenza, l’elasticità, il peso, l’impermeabilità, ecc.

Tornando alle cisterne e considerando che:

– erano interrate, e quindi dovevano sopportare la spinta esterna del terreno;

– contenevano acqua, e quindi dovevano sopportare la spinta interna;

possiamo affermare che dovevano avere una muratura particolarmente resistente ed essere rese impermeabili al loro interno.

Abbiamo osservato che le cisterne presenti nel territorio sono state costruite con la tecnica dell’opus caementicium, tecnica in genere usata nelle fondazioni, cioè quella parte di un edificio che raccoglie il peso dell’intera struttura. Per realizzare un muro in detto opus, venivano scelte delle pietre (i Caementa, da cui la tecnica fa derivare il nome), tra quelle disponibili sul posto, le quali potevano essere scaglie di selce o pietra calcarea.

Si cercavano più o meno tutte della stessa grandezza, e a questo scopo potevano anche essere appositamente frantumate. Poi si preparava la malta, ossia un impasto di calce, arena o sabbia e pozzolana e si versava molto liquida sulle pietre che man mano venivano disposte (messe in opera) in piani orizzontali. I caementa potevano anche essere mescolati direttamente alla malta e versati in una forma a trincea scavata nella terra, oppure in una cassaforma di legno: in questo caso però si ritrovavano disposti in maniera irregolare. Infine, le cisterne venivano rese impermeabili rivestendo le loro pareti interne con un intonaco speciale, il cocciopesto: ovvero un impasto di calce e sabbia reso impermeabile dall’aggiunta di frantumi di laterizio (mattone di terracotta) o pozzolana.

La pozzolana è un prodotto dell’eruzione vulcanica sotto forma di lapillo molto piccolo: quello della campagna romana, una delle migliori, è di colore nero, grigiastro o rosso violaceo.

Un altro tipo di impasto impermeabilizzante è l’opus signinum composto da calce, arena e piccole scaglie di pietrame duro che una volta gettato veniva battuto fino a renderlo talmente compatto da non permettere l’infiltrazione dell’acqua.

Questi rivestimenti venivano stesi sulle pareti in modo che gli angoli, formati dall’incontro dei muri o dei muri con il pavimento, divenissero delle superfici convesse, in modo che non si formassero depositi e soprattutto fosse più agevole la pulitura della cisterna.

Tutti i contadini di Monte Compatri sanno che sulla sommità di Mont’Est passava una strada in basolato romano che attraversava la fonte chiamata Fontana Laura, arrivava alle Pedicate e da lì tirava dritta lasciandosi dietro costruzioni antiche tra cui una cisterna del periodo repubblicano e, poco più avanti, un’altra assimilabile, dalla tipologia costruttiva, al I sec. a.C. Il primo dato deducibile è il fatto che esse erano di servizio ad una o più ville. Una cisterna che sta a ridosso di Valle Dodici è scavata nel tufo e rivestita di opera signina, probabilmente è tra le più antiche e doveva avere qualche scopo particolare.

 

I ritrovamenti

Innumerevoli sono chiaramente i ritrovamenti archeologici riconducibili a questa antica colonia; in un territorio lasciato all’incuria è ovvio che ve ne siano di ufficiali e di non ufficiali. Siamo tentati di scrivere proprio di quei reperti che “non esistono”, ma le difficoltà sono molte; reticenze e paure ne impediscono una chiara lettura. Tenteremo, in futuro, di soddisfare questa curiosità, che riteniamo sacrosanta per la comprensione storica e per dissipare quelle foschie che coprono un sì bel lembo di terra. I “pezzi” che elencheremo di seguito sono conservati o in collezioni private o dalla Sovrintendenza delle Belle Arti; forse sarebbe proprio il caso di riunirli in un antiquario della zona; daremo tutte le notizie che conosciamo, anche se anticipiamo che saranno poche, in virtù del fatto che appunto non sono studiabili approfonditamente.

Vorremmo iniziare questa “catalogazione” con una statuetta di bronzo rinvenuta nel 1978 “attaccata ad un palo di una vigna”: la statuetta di Priapo. Alta circa 30 cm, realizzata in bronzo, sembra che sia esemplare unico, del resto la particolare rappresentazione ha sempre originato remore nel presentarla. Con un po’ di coraggio pubblichiamo un disegno che dovrebbe assomigliarci molto.

Il Chiopiso, in una sua catalogazione edita nel 1850, afferma che nella Tenuta Borghese, nei pressi di Monte Compatri (Valle Sogli), fu rinvenuta una statua, raffigurante una Venere a grandezza naturale con alla base un putto che cavalca un delfino e che fu venduta al Museo del Louvre, ove ora si trova.

Negli anni ‘80 fu rinvenuta, in una zona imprecisata delle Faete, una collana in oro, di epoca repubblicana: un pendaglio di forma lunare, in pasta vitrea, raffigura un occhio umano, mentre due gocce di granato formano il gancio di chiusura.

Cippo funebre o pietra miliare?

Tutti i contadini della zona in questione sanno bene che qua e là, tra le vigne, ci sono sparsi dei ruderi di muri a sacco, in opus caementitium per dirlo alla Romana, prevalentemente appartenenti a dei Castellum acquari (cisterne per la raccolta di acqua) e conoscono bene anche il tracciato dell’antica strada in basolato, di cui parlavamo prima, che proveniente da ovest, passando per Mont’Est, fiancheggiando Fontana Laura (per l’alloro che vi cresceva prosperoso), tirava dritta per le Pedicate e quindi verso Monte dell’Orso.

Noi siamo convinti che questa era la via Labicana. Forse è una pietra miliare o un cippo funebre quel “sasso” bianco che è stato portato al Parco Dandini di Rocca Priora e che è stato rinvenuto proprio ai margini di detta strada sul colle Mazzi, vicino a quell’altra lapide dei Licinii sopradescritta.

Sulla pietra miliare si leggono due lettere C…L.

Troppo poco per saperne di più.

Le epigrafi

La notizia di una lapide rinvenuta sul pendio nord di Monte Doddo (Casale Mazzini), sembra del III sec. d.C., fu pubblicata dal Fabbretti e dal Ficorozzi, ed era così trascritta:

D. M.

PARTENIO ARCARIO

REI PUBBLICAE

LAVICANORUM

QUINTANENSIUM

Un’altra lapide rinvenuta sul versante nord-est dello stesso monte (Pedicate) ricorda QUINTO FABIO DASUMO, ricordato anche con l’appellativo di QUINTIANO.

La base marmorea di una colonna, sempre rinvenuta nella suddetta zona, che sorreggeva una statua, dedicata all’imperatore Massimiano dal Senato dei Labicani Quintanensi, e che oggi sembra si trovi in una villa della zona.

Una lapide testamentaria di Lucio Lallio Licinii, rinvenuta dall’Archeoclub di Monte Compatri, nella zona denominata i Colli, è ora conservata in Piazza M. Mastrofini, presso il Monumento ai Caduti. L.L.Licinii era un console vissuto attorno al 180 d. C.. Con il nome Licinii, si sono ritrovati innumerevoli bolli laterizi, probabilmente essi erano proprietari di una fornace.


Le tombe

In tutto il territorio preso in esame, qua e là, durante i lavori di sterro, sono state scoperte alcune sepolture diversificate in tre tipologie:

-la tomba a cappuccina, con il corpo del defunto disteso in posizione supina e coperto da tre tegoloni di terracotta a mò di tenda canadese. I corredi funebri sono scarni e consistono di solito in qualche anforetta votiva e qualche oggetto personale;

-la tomba a cassettone, in cui un’abbondante opera cementizia conserva il corpo che può essere o rannicchiato o disteso, contornato da oggetti personali per arredare la tumulazione;

-i mausolei della Cucca e del Trullo, che sono un esempio di tombe “importanti”, in cui il corpo doveva essere conservato in un sarcofago che però non è stato ritrovato.

Di alcuni sarcofagi ne abbiamo testimonianza da frammenti e da racconti dei contadini: uno di questi è osservabile presso il convento di S. Silvestro ed un altro, in pietra sperone, è nelle campagne attorno a Monte dell’Orso.

Crediamo che anche altri tipi di sepolture erano in uso, ma purtroppo null’altro è giunto fino a noi.

 

La Cucca

Alcuni anni fa venne ritrovata nella zona della Cucca una costruzione in opus coementicium, che ad una più attenta osservazione risultò essere un’antica tomba romana: questo in un certo senso rivalutava la posizione della Cucca.

Presso i latini e i romani infatti, era usanza costruire le tombe in cui seppellire i resti dei propri cari defunti, vicino alle più importanti vie di comunicazione (vedi il mausoleo di Cecilia Metella presso la via Appia), quindi, per logica siamo indotti a pensare che la Cucca era attraversata da un’antica strada pedemontana di una certa importanza, che probabilmente conduceva a Labico Quintanense.

Ma torniamo alla tomba. Il sepolcro è a cupola, con sei nicchie laterali, mentre sulla sommità si doveva trovare un masso di sperone, successivamente asportato. Quando fu scoperta la tomba, venne trovata, su di un lato, una lapide marmorea del III sec. d.C. con una iscrizione greca recante l’epitaffio del sepolcro.

Ora la lapide si trova al Museo di Albano. È alta 21,5 cm., larga 32 cm. e spessa 3,5 cm. Le lettere non sono alte più di 2,5 cm.

Il testo dell’epitaffio, tradotto dal greco, dice:

“(Ad) Aphrodisia

Erois

Il marito Trophimos

Per memoria (pose)”

Si tratta di un’iscrizione funeraria, in cui il marito Trophimos ricorda in modo semplice e sincero la sua Aphrodisia e affida a una lapide, posta su un lato del sepolcro, a ricordo della moglie, la testimonianza della sua sofferenza, velata dalla semplicità del testo.

Queste persone che abitavano le nostre terre duemila anni fa, erano semplici contadini che lavoravano i campi non tanto diversamente da noi. Schiavi o liberti, patrizi o plebei, erano i discendenti di quei 1500 coloni che si spartirono l’agro labicano. Insediatisi nel 418 a.C., essi hanno fatto la storia della nostra zona fino al 1111 (prima data di non menzione del vescovo labicano) il quindicesimo della storia dei vescovi, e per ironia della sorte ritorna quel numero che sembra aver dato tutto a quella favolosa gente.

 

Il Trullo

Sul versante ovest del monte della Colonna, una enorme colata coementitia di forma circolare ricorda un’altra tomba di ben diversa memoria: quella di Cecilia Metella. Avvalendoci delle solite ipotesi, possiamo pensare che quel monumento funebre doveva essere il sepolcro dei Quintili, grande famiglia di epoca imperiale, nostri validi progenitori.

 

La tomba del guerriero

Nel 1996 ai Pian Quintini furono rinvenute delle tombe e un tratto di strada romana. Le tombe, costruite con opera a secco, erano quattro, una in particolare racchiudeva un guerriero con cimiero e lancia; il corredo funebre non ci è stato possibile visionarlo.

In seguito all’intervento della sovrintendenza, infatti, è stato portato via tutto e così, probabilmente, non avremo mai modo di saperne di più. Il muro a secco è riconducibile al tardo periodo repubblicano; l’elmo era di tipo a pileum e la punta della lancia era in bronzo, i pettorali (probabilmente di cuoio) sono andati distrutti con il corpo. Era in posizione distesa, come se dovesse continuare a sorvegliare anche nell’aldilà. Questo tipo di soldato doveva appartenere alla schiera della IV classe (Censo di Servio Tullio), e quindi avere un reddito di 25000 assi.

Per essere sepolto così, probabilmente doveva essere stato ucciso in combattimento e se era un colono, stava difendendo la sua terra. Tito Livio ci fa sapere che solo una volta gli Equi attaccarono la colonia: nel 399 circa. Certo conosciamo troppo poco di tale scoperta ed è ardito ipotizzare tali cose, ma è possibile pensare che quel vecchio soldato, costretto a riprendere le armi a causa di un’invasione, abbandonò i campi per difenderli e trovò la morte.

 

La Villetta

Fornaci per la cottura dell’argilla, con cui si fabbricavano vasi, anfore ecc., erano presenti nell’attuale zona di Piazza Garibaldi, verso San Silvestro, all’altezza di via P. Micca e via F. Ferrucci, mentre più in alto si doveva trovare un’antica villa di età imperiale, da cui prese successivamente nome La Villetta, oggi Parco Comunale rinominato recentemente: Parco Calahorra.

Nella parte bassa della Villetta sono ancora visibili reperti molto interessanti:

– il busto di una statua in marmo, alto circa 55 cm., con delle pieghe sul vestito che potrebbero indurre a pensare che la statua rappresenti un soldato, se non fosse però che si tratta di un busto femminile.

La statua poteva dunque rappresentare la padrona, la domina della villa, o anche la dea Diana nei panni di cacciatrice. In tal caso non dovremmo poi meravigliarci molto, poiché proprio a San Silvestro abbiamo detto che poteva trovarsi il santuario di Diana Algidense;

– tre colonne in sperone, alte tra gli 86 e gli 89 cm., e dal diametro di 33-34 cm. (il che fa pensare che le tre colonne facevano parte della stessa serie); un basamento in marmo bianco di una colonna in stile tuscanico, dal diametro di 50 cm. e alto 20-25 cm. Sulla sommità della base si trovano due fori alla distanza di 28 cm. tra loro;

– un blocco di marmo bianco, che potrebbe essere una pietra miliare, dalla forma vagamente pentagonale, lunga 40 cm;

– si ricordano inoltre, nella parte più a monte del Parco Comunale, altri piccoli reperti, costituiti da frammenti di ceramica, nonché mattoni e tegole della villa stessa;

– infine segnaliamo la presenza di una cavità, che ha tutta l’aria di essere un acquedotto ad emungimento, e che forse portava l’acqua ad una cisterna, ma di essa, se è valida la nostra ipotesi, non è restata traccia.

 

Monte Compatri racconta…

Altri reperti interessanti, appartenenti al territorio di Labico Quintanense, si possono trovare all’interno del centro urbano di Monte Compatri, in particolare sui muri sotto forma di normale materiale da costruzione. Si tratta perlopiù di lastre incise, di marmo bianco o travertino, ma anche di statuette, epigrafi, colonnine, iscrizioni su pietra sperone o marmo, simboli, o ancora basoli di antiche strade.

Certamente essi si trovavano, in seguito all’abbandono e alla rovina di Labico Quintanense, sparsi nelle campagne circostanti, ma furono successivamente portati a Monte Compatri per essere utilizzati come “mattoni” da costruzione per le abitazioni insieme a blocchi di tufo, sperone, basalto, facilmente reperibili nel circondario, senza tener conto del loro valore archeologico.

Tra i più interessanti e conosciuti ricordiamo:

– una lastra in marmo bianco in via Chiarelli, probabilmente raffigurante in rilievo, una battuta di caccia (é riconoscibile un cane), con sullo sfondo il mare. Quasi certamente, il rilievo faceva parte di un ciclo scultoreo più grande;

– un rilievo marmoreo alla fine di via Carlo Felici dall’interpretazione dubbia e oscura, ma che forse faceva parte dello stesso ciclo della lastra di via Chiarelli;

– un blocco regolare in sperone in via Leandro Ciuffa, con l’iscrizione: DEVERTICLVM PRIVATVM (cioè “strada privata”);

– lungo “lu stradò” (via Placido Martini), una lapide ricorda un “philoargivo”, cioè un amante o studioso del mitico popolo degli Argivi, meglio conosciuti come Argonauti;

– una colonnina a torciglione di marmo bianco o travertino, con vicino una statuetta sempre in marmo in viale Europa;

– un piccolo rilievo marmoreo raffigurante una sorta di pennacchio sopra una porta in via Campo Gillaro;

– altro rilievo del tutto simile al precedente, raffigurante un pennacchio di piccole dimensioni, si trova in via Borgo Missori, sopra una porta;

– una lastra in marmo bianco o travertino in via Marco Mastrofini, raffigurante un motivo serpentiforme in rilievo simile ad un caduceo, come due serpenti che s’intrecciano.

Infine, dell’età classica, si possono trovare vari basoli di antiche strade e innumerevoli cocci di varia tipologia, usati come materiali da costruzione per le case e i muretti.

Ricordi in un vecchio video

MONOLITE e “Frammenti di visioni”

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