Babygirl

Il film pur piegandosi ad alcuni degli immancabili temi della woke culture (coppie interrazziali, ascesa lavorativa delle afroamericane, destigmatizzazione del lesbismo ecc.) ha il pregio, servendosi di un linguaggio crudo e di scene esplicite, di lumeggiare alcune zone d’ombra che vanno a crearsi quando interagiscono aggrovigliandosi il potere, la sessualità e il denaro.
La pellicola, e non è un particolare secondario, è stata prodotta, scritta e diretta dalla regista olandese Halina Reijn che, ancor prima di Babygirl, ha approfondito, con la pièce Shopping and Fucking e il film Instinct, la deriva consumistica della vita sessuale che finisce per trasformare l’istintualità in dipendenza.
Forse soltanto una regista donna, con il supporto di stelle hollywoodiane, poteva permettersi di trattare, con tanta realistica veemenza, alcune questioni pruriginose nella declinazione rosa.
La protagonista Romy interpretata dall’intramontabile Kidman vive una crisi di mezz’età: botox, crioterapia estetica, psicoterapia ecc. I rapporti coniugali, malgrado l’impegno affettivo dell’aitante marito inscenato da Banderas, le risultano asfittici nella loro scansione routinaria. Vorrebbe qualcos’altro, ma il coniuge non prende sul serio, almeno inizialmente, le sue richieste. Insistendo nel coltivare, anche attraverso la reciprocità degli sguardi, la dimensione sentimentale degli amplessi.
All’interno di questo scenario, Romy continua a svolgere tutte le sue mansioni. È madre di due ragazze e con assoluta dedizione, come CEO di un’importante azienda newyorkese, lavora alacremente. Proprio nello svolgersi della sua realtà imprenditoriale, incontrerà un giovane stagista.
Evidentemente, come nell’attribuzione della dimensione della cura affettiva alla componente maschile della coppia matrimoniale, continua il ribaltamento di genere dei ruoli consolidati: è la donna matura che perde la testa per un bel giovane. Lasciando intendere che la sedimentazione di alcuni cliché non deriva dalle sole differenze intrinseche (maschio vs femmina), ma dai rapporti di potere. Insomma, i pantaloni li porta, indipendentemente dall’anagrafica, chi esercita egemonia grazie ai soldi che guadagna.
Tornando alla trama, il bel tenebroso interpretato da Dickinson riuscirà, in virtù del suo talento da domatore cinofilo, ad intuire, abbastanza velocemente all’interno di alcuni brevi colloqui di mentoring, i veri bisogni di Romy sempre più attratta dal neoassunto.
Nelle scene successive, quelle dove vanno a consumarsi gli incontri fedifraghi, la donna, dopo alcune velate ritrosie, troverà appagati, nella serie di umiliazioni che gli vengono inferte, i suoi desideri masochistici.
Da qui il film va verso la deriva, dopo un ondivago andirivieni tra accettazione e rovesciamento di luoghi comuni, comincia un’entusiastica promozione di una ben nota parafilia.
Romy è soddisfatta e non importa come o da chi. Il consorte, nelle vesti consolidate del maschio debole da postmodernità liquida, finirà col prenderle anche dal toyboy che uscirà di scena, dopo aver fatto notare al maturo uomo tradito l’obsolescenza delle sue incerte idee freudiane in materia di sesso.
In definitiva, nelle intenzioni della regista, la determinata CEO non ha insegnato nulla allo stagista. Al contrario, quest’ultimo l’ha disvelata a se stessa regalandole tante immagini di un passato da ricordare. Immagini e pratiche capaci di insegnare al partner ufficiale come accontentare la legittima consorte che, finalmente risolta anche nell’intimità, riprenderà, senza perdere un colpo neppure sul posto di lavoro, il ménage matrimoniale con ritrovato ardore.
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