Da un libro all’altro – “Il giocatore”, tratti autobiografici e la fine di un’epoca
Il giocatore (titolo originale: Igrok) di Fëdor Dostoevskij, Feltrinelli ed. 2020 – € 9,50 e-book Garzanti 2012 (e altri) € 5,99 traduzione di Serena Prina Disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR https://sbcr.comperio.it/
Fëdor Dostoevskij è stato un giocatore e scrive Il giocatore (1867) in un mese per non rischiare, come minacciato dal suo editore, di perdere i diritti dei libri già pubblicati; appena consegnato il nuovo titolo scappa con la donna che l’ha aiutato a ‘mettere in bella’ il romanzo, e che diventerà sua moglie, inseguito dai creditori. Roulettenburg, il nome della cittadina tedesca dove si svolge il racconto è un tributo all’ironia, come dare del Des Grieux al giovane personaggio francese della storia (è il compagno di sventure della nota eroina Manon Lescaut nel romanzo dell’Abbé Prevost); ma la storia, le infinite speculazioni sui comportamenti sociali sono molto lontane dal nostro secolo, quel che resta d’universale, di classico, è l’eterna illusione della vincita. Aleksej Ivànovic, il narratore, è un precettore che guarda quasi con estraneità a tutto l’andirivieni di nobili e sedicenti tali attorno ai tavoli da gioco del locale casinò, mentre segretamente si innamora di ‘una di loro’, Polina Aleksàndrovna che, all’inizio della storia, gli chiede di giocare alcune somme di denaro per lei. Le esistenze all’apparenza dorate, e certo più comode di quelle di un gruppo di minatori, qui appaiono in tutta la loro miseria; il legame col flusso di soldi per poter restare all’altezza, il fingere sempre allegria, o il recarsi di continuo a feste e intrattenimenti, sembrano più tratteggiare l’illusione che tutta la nobiltà, ma più quella russa, va cercando in giro per l’Europa: di poter restare uguale a se stessa pur negli sconvolgimenti che il mondo moderno sta portando all’economia e agli assetti sociali (l’abolizione della servitù della gleba comincia storicamente nel 1861, la seconda rivoluzione industriale data 1870), Lo scannatoio di E. Zola è del 1877 e qui si narrano già le vicende di una lavandaia. Sembrano un po’ gli ultimi fuochi prima che la marea della storia si porti via tutte queste esistenze che sembrano divenire quasi ‘inutili’ agli occhi di Aleksej, che fra i tanti ‘salva’ solo la giovane assennata Polina e la baboulinka, la nonna, molto ricca, la quale verrà assalita per un po’ dal demone del gioco perdendo una fortuna ma che, fermandosi in tempo, si offre di aiutare come può quelli che in questa vicenda si definiscono gli innocenti, i bambini, e chi davvero vorrà andare oltre il pericoloso vizio così da poter vivere un’esistenza più degna. Anche se, alla fine delle intricate vicende, proprio chi si credeva immune alle sirene della roulette, ne viene affascinato e, forse, in maniera definitiva. Dostoevskij gioca a comparare le diverse nobiltà europee attorno ai tavoli del casinò, i loro vizi e le loro virtù accomunate soltanto dal vezzo di mescolare il francese alle lingue d’origine così che i dialoghi del libro, in alcuni passaggi, divengono una babele inestricabile: i nobili si fregiano dell’uso del francese, allora in voga, quasi per apparire apolidi e aperti a tutto ma vivendo, in realtà, prigioniera dei ‘flussi di cassa’, circostanza che apparirebbe volgare da citare, ma che il romanziere puntualmente riporta per quella che è. L’autore lungi dal trovare ‘inutile’ tanta umanità e il suo speculare sulle difficoltà esistenziali, tratteggia qui i temi morali poi centrali in tutta la sua produzione letteraria. «Una volta, di sera, a Baden, gli comunicai che intendevo licenziarmi; quella stessa sera mi recai alla roulette. Oh, come mi batteva il cuore! No, non era dei soldi che mi importava! Allora volevo solamente che il giorno dopo tutti questi Hinze, tutti questi capocamerieri, tutte queste magnifiche signore di Baden, tutti loro parlassero di me, raccontassero la mia storia, si stupissero di me, mi lodassero e si inchinassero dinanzi alla mia nuova vincita». (Serena Grizi)
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