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Fantasticando. Racconti per tutte le età ‒ 1

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Marzo 11
21:11 2025

Rimafacile e la Locanda dell’Arcangelo

(favola ispirata a Rocca Massima ‒ LT)

 Si chiamava Natale, detto affettuosamente Lino.

Non avendo più i genitori, era il figlio di tutti. Nel paesino appollaiato sui monti erano rimasti in pochi e tutti anziani.

Il paesino si chiamava Rimafacile e fin dal tempo dei tempi vi si parlava in rima; chiunque vi sostasse sia pure per un solo giorno, parlava in rima senza nemmeno farci caso: veniva naturale.

Per le viuzze di Rimafacile girava qualche gallina, un bue e un somarello, due cani e tre gatti. Una volta a settimana un piccolo gregge veniva a pascolare tra gli ulivi, sorvegliato da un pastorello.

Lino lavorava alla Locanda dell’Arcangelo, al servizio di Severino e della moglie Zena.

Alla locanda faceva sosta la gente diretta al Montano dell’Orco per la spremitura delle olive, i pellegrini che andavano in visita all’Eremo dei Monaci Cioccolatieri, i mercanti di bestiame che si recavano alla fiera di San Peppello.

Un giorno piovoso, sul tardi, arrivò alla locanda un giovane prestante e ben vestito chiedendo ospitalità per la notte. Portava con sé un baule di cuoio con borchie dorate.

Severino e Zena lo accolsero con tutti i riguardi, lusingati dalla bella presenza. 

“Lino, che nulla manchi al signore, trattalo con ogni onore” raccomandarono al loro garzone prima di ritirarsi per la notte.

Lino dormì su un pagliericcio, steso dinanzi alla stanza occupata dal forestiero. Dormì con un occhio solo, pronto a intervenire al minimo cenno di chiamata.

La notte passò tranquilla, al mattino splendeva il sole. L’ospite si alzò fresco e riposato, fece un’abbondante colazione e chiese a Lino:

“Come passare un giorno lieto in un paesino così quieto?”.

“Ti porto, mio signore, al Ruscello del Cantore”.

Andarono. Ascoltarono la voce delle acque canterelle e dei pioppi fruscianti, ma il giovane presto sbuffò:

“Il rio scorre beato, ma io mi son tediato”.

“Ti porto, signor mio, alla Tana del Coniglio”.

Andarono. Ma il coniglio aveva tanta paura che non si fece vedere né sentire, e dopo un po’ il giovane disse:

“Il coniglio è rintanato, lo saluto e me ne vado”.

“Ti porto, signor bello, alla Grotta del Coltello”.

Andarono. Dalla volta della grotta pendevano stalattiti come lame affilate. Disse il giovane indietreggiando: “Questa grotta non mi piace, qui mi sento minacciato”.

“Ti porto, buon signore, alla Sponda del Dolore”.

Andarono. Presero un viottolo che costeggiava un torrente, ma il giovane, allarmato, si rifiutò di proseguire:

“La sponda non protegge, il torrente è fuorilegge”.

“Ti porto immantinente al Covo del Serpente”.

Andarono. Discesero lungo un fossato tra i canneti e il giovane lottando con insetti e roditori disse:

“Il serpente non s’è visto, e io son tutto pesto”.  

“Ti porto, sacripante, alla Valle dell’Infante”.

Andarono. Nella valle trovarono un albero cavo, dove dormiva un bambino avvolto in una morbida pelle, con una coroncina in testa a sette punte. Al loro arrivo il bambino si svegliò e subito prese a correre sulle gambette esili, facendo cenno ai due di seguirlo. Giunti dove pascolava un piccolo gregge, il bambino bevve il latte che il pastorello gli porgeva, poi si presentò:

“Mi chiamo Fortunello e son fratello dell’agnello”.

Il pastorello tirò fuori il suo zufolo e si mise a suonare, e Fortunello prese a saltellargli attorno.

Il giovane osservava curioso, e Lino gioiva nel vederlo così interessato.

Il pastorello continuava a suonare e l’Infante a capriolare.

Arrivò l’ora di pranzo e Lino disse al giovane:

“Ti attende alla locanda una zuppa alla pavese, e per chiudere in bellezza quella inglese”.

“Non ho fame giuraddio, ma soltanto un gran desio”.

A queste parole, l’attenzione fu tutta per lui. l’Infante smise di saltellare, il pastorello smise di suonare e il gregge smise di belare. Non si sentiva volare una mosca.

Disse allora Fortunello:

“Son l’Infante portoghese, senza casa né paese”.

E il giovane, sospirando:

“Sono il principe reale, senza sudditi e reame”.

Lino e il pastorello non dissero nulla, intimoriti da tanta grazia.  

Disse ancora Fortunello:

“Senza il pastorello io non sarei vissuto, è lui che mi ha salvato, è lui che mi ha nutrito”.

Disse il principe reale:

“Senza Lino io non sarei qui giunto, è lui che mi ha guidato, è lui che mi ha condotto”.

E dopo questo scambio sincero, il pastorello tirò fuori un pane e uno spicchio di cacio, riempì di latte la ciotola del piccolo e tutti mangiarono in letizia.

Lino pensava alla locanda e ai suoi padroni e disse al giovane:

“Mio principe reale, è ora di rientrare”.

“Sicuro, mio scudiero, vi seguo su al maniero. Ma come abbandonare l’Infante e il suo badante?”.

Disse il pastorello:

“Io resto col mio gregge e non c’è problema, vi affido Fortunello senza alcuna tema”.

Andarono, Lino, il principe reale e l’Infante, e presto arrivarono alla Locanda dell’Arcangelo.

Ad accoglierli trovarono Zena e Severino e gran parte degli abitanti di Rimafacile, che era un paesino unito e compatto, incuriositi dal piccolo corteo a cui si erano aggiunti anche le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti.

Lino dette le sue spiegazioni, ma non tutti volevano credere al suo racconto.

Qualcuno disse:

“O Lino Lino, che mi prendi per citrullo?”.

E qualche altro, incredulo:

“Infante portoghese e principe reale? mai si videro in paese!”.

Replicò Lino:

“Lo vedete pure voi che non son venuto solo: qui al mio fianco li vedete, Fortunello e il nobiluomo”.

La gente guardò, ma al fianco di Lino non vide nessuno.

Il giovane e il bambino sembravano spariti nel nulla.

Lino si guardò attorno, costernato.

Le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti si allontanarono sdegnati.

Zena e Severino apparivano smarriti, quando una voce risuonò:

“Signori, qui è la prova che son regnante, al pari dell’Infante”.

Tutti si volsero a quelle parole.

E rimasero sbigottiti.

Sulla porta della locanda, riccamente vestito con un abito di broccato intessuto di fili d’oro e d’argento, il cappello piumato e la spada con l’elsa tempestata di gemme, stava il principe reale. E sulle sue spalle, coperto da un candido vello, la coroncina a sette punte ritta sulla testa e un piccolo scettro in mano, stava l’Infante.

S’alzò un mormorio:

“Oh, oh, che mai si vede, oh, oh, non ci si crede!”.

A quelle esclamazioni di meraviglia anche le galline, il somarello, i cani e i gatti tornarono a intrufolarsi tra la folla.

Si udì la vocina dell’Infante:

“Io son figlio del monarca dell’impero Schiendidrago; mi han tradito i miei fratelli ambiziosi del potere, io non voglio ritornare in quel regno del terrore”.

Parlò il principe reale:

“Io son principe di sangue dello Stato Agrigentino; la mia corte rinnegata mi ha buttato per la strada, vado esule vagando ma non torno in quel serparo”.

Diceva la gente:

“Oh, oh, che mai si ode, oh, che trista ode!”

S’intromise Severino:

“Beh, a pensarci bene…  Rimafacile è un paese senza glorie né pretese. Ma cortese è la sua gente, ospitale e transigente; a un buon sangue nobiliare si potrebbe anche mischiare…”.

Aggiunse Zena:

“Ha ragione il mio consorte: qui la vita va a rilento, ci vorrebbe un cambiamento”.

Tutti concordarono:

“Vivaddio, qui si parla di futuro! Siam ridotti a pochi e niente, ci si spegne, ci si arrende. Ci vorrebbe immantinente una rotta di corrente!”.

Intervenne Natale, detto Lino:

“Io sono Natalino e prendo la parola: prima di cicalare, si è chiesto a lor signori se vogliono restare?”.

Consenso generale:

“Giusto, giusto, sacro e santo: a chi spetta l’incombenza di dar luogo a un’udienza?”.

Intanto si era fatta l’ora di cena e nessuno aveva voglia di lasciare la pubblica assemblea.

Zena e Severino prontamente chiamarono Lino e partirono le disposizioni.

In men che non si dica, una grande tavolata s’imbandì nel salone della Locanda dell’Arcangelo.

Al posto d’onore, sedeva il principe reale e su un seggiolone impagliato sedeva l’Infante.

Cosicché, tra una portata e l’altra, tra una coppa e l’altra di vin di bosco, il dibattito prese vita e si svolse nella maniera più aperta e piacevole.

Il principe reale e l’Infante si dissero ben lieti di restare a Rimafacile, quali illustri rappresentanti della sia pur ridotta popolazione.

La cittadinanza a sua volta si proclamò onorata di tale insigne appartenenza.

Ma, c’era un ma. A sollevare il quesito fu Zena, sostenuta da Severino:

“In questo paese c’è un giovane solo, non c’è fanciulla da maritare”.

Aggiunse una voce isolata:

“Come pensare a un avvenire senza un bimbo da accudire?”.

La situazione, così esposta, apparve in tutta la sua gravità. La popolazione di Rimafacile si sarebbe estinta in breve, se non si fosse trovato il modo di riprendere il ciclo della vita.

A quel punto qualcuno bussò alla porta della Locanda:

“Toc, toc, si può entrare? Siam venuti a festeggiare”.

Subito invitò Severino:

“Entra pure, chi tu sia, benvenuto a casa mia”.

Si fecero avanti due bei giovani, bruno lui e bionda lei:

“Corre voce nei paraggi che si cercan dame e paggi. Siam venuti qui d’urgenza per portar nostra presenza”.

I convitati stupiti guardarono i nuovi arrivati, chiedendosi come mai avessero appreso così in fretta la novità, e subito fu chiaro: come al solito le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti avevano sparso in giro, chiocciando, muggendo, ragliando, abbaiando e smiagolando i fatti di casa loro.

Altri giovani arrivarono dai paesi vicini, richiamati dal bando dato a voce d’animale, e per ultimi anche il pastorello con la sua pastorella. Tutti volevano trasferirsi nel paese di Rimafacile, dove risiedevano ben due principi reali. 

La gente di passaggio diretta al Montano dell’Orco, all’eremo dei Monaci Cioccolatai e alla Fiera di Peppello si fermava come al solito alla Locanda dell’Arcangelo per fare sosta, ma poi non ripartiva.

Per farla breve, Rimafacile rifiorì e in capo a un anno il numero dei suoi abitanti si era raddoppiato, contando anche i numerosi bambini nati uno dopo l’altro in primavera.

Il principe reale e l’Infante dimoravano in un’ala della locanda, ma si stava costruendo per loro un maniero con quattro torri, che avrebbe accolto anche la loro corte.

Un giorno arrivò a Rimafacile una famiglia di saltimbanchi, madre padre e quattro figli, fra cui una bambina e una fanciulla; erano diretti alla fiera, ma non proseguirono e si sistemarono col loro carrozzone vicino alla locanda.

Il principe reale vide la fanciulla e se ne innamorò.

L’Infante vide la bambina svagarsi con un cerchio e subito corse a giocare con lei.

Zena e Severino, cui nulla sfuggiva, dissero:

“La fanciulla è molto bella, non da meno è sua sorella”.

“Ecco i principi reali, bene e meglio sistemati!”.

In quel momento si vide Lino con un canestrello di fragole boscherecce, e una fanciulla che gli volteggiava attorno, dicendogli:

“Natale Natalino, i tuoi frutti son speciali, mai fragole di bosco io ne mangiai di uguali!”.

Zena e Severino, ammiccando:

“Anche lui avrà trovato la donzella da impalmare?”.

“Moglie mia non ci affanniamo, se son rose fioriranno”.

E tante rose fiorirono infatti nel paese di Rimafacile, il piccolo regno dell’uguaglianza e della fecondità.

                     (Maria Lanciotti)

 

Foto: Locanda dell’Arcangelo

 

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