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Il movente religioso nella storia – 2

Marzo 01
02:00 2008

…Il papa, dal canto suo, poteva veder crescere il numero dei fedeli, guadagnando alla croce cristiana anche i fermenti più inquieti e aggressivi di una società in rapida evoluzione. Ed è nel nome stesso della croce che si compirono le orrende carneficine degli “infedeli”, a Gerusalemme come altrove. Basterebbe ricordare, passando al vol d’uccello su mille anni di storia, la strage dei Catari Albigesi (1213), o il massacro di Vassy (1562) ai danni degli Ugonotti (cioè i calvinisti francesi), così come la tremenda notte di S. Bartolomeo (24 agosto 1572), sempre contro gli Ugonotti, o l’altra terribile “notte dei cristalli” (9 novembre 1938) contro gli ebrei, in Germania. E ancora: come dimenticare le splendide civiltà indigene del Centro e Sud America, massacrate, seviziate e cancellate dai Conquistadores spagnoli, sotto il falso pretesto – fra gli altri – di una missione evangelica? Come altresì dimenticare i 6 milioni di esseri umani sterminati nei campi di concentramento nazisti, solo perché “colpevoli” di essere ebrei (laddove la questione religiosa coincideva, per giunta, con quella razziale)? Come dimenticare i fiumi di sangue versati in Irlanda per lo scontro fra cattolici e protestanti? O la spirale infinita di vendette che ha segnato il conflitto tra israeliani e palestinesi?
La costante in grado di accomunare eventi tanto diversi e lontani nella storia è data dal ruolo strumentale e accessorio che quasi sempre la religione finisce per assumervi. I moventi veri vanno ricercati altrove: in conflitti economici, sociali, etnici e più altamente culturali, piuttosto che specificamente religiosi. È difficile che una guerra scoppi “soltanto” per divergenze di fede: “soltanto” perché due popoli chiamano lo stesso Dio con nomi diversi. La religione è, come detto, un agile e versatile pretesto per mascherare, ed affermare surrettiziamente, interessi di altra e ben più triviale natura. Si pensi, per esempio, alla tragica situazione mediorientale: sarebbe in grado di giustificare un odio così inveterato il solo contrasto teologico fra Islam ed Ebraismo? O non occorre, piuttosto, invocare anzitutto moventi storici (la creazione di Israele nel 1948, le stragi compiute da entrambi i fronti) e politici (le rivendicazioni territoriali), oltre che culturali (entro i quali ultimi può collocarsi, in ultima analisi, quello religioso)? La creazione di Israele avvenne sotto l’egida occidentale, ai danni degli arabi palestinesi, perché anzitutto gli ebrei fossero in qualche modo “risarciti” dell’olocausto, e poi perché il potente mondo arabo (nella misura in cui detentore dell’”oro nero”) si ritrovasse una spina profonda nel fianco, fosse cioè insidiato e controllato da un avamposto e insieme un baluardo dell’ancor più potente e aggressivo mondo occidentale. Che infatti, non a caso, continua a sostenere la causa israeliana (Stati Uniti in testa). Ed ecco già dunque che, considerato alla luce di tali prospettive, il sanguinoso conflitto fra arabi e israeliani acquista una diversa connotazione, infinitamente più complessa di quella riconducibile alle matrici religiose, collocandosi nel quadro del più generale conflitto di interessi tra Nord e Sud del mondo (separati da un divario economico sempre maggiore).
La religione può dividere gli uomini, anziché unirli, proprio perché è in grado di renderli reciprocamente diversi (e non è così automatico o scontato accettare la diversità). La fede religiosa rappresenta uno dei più potenti fattori di appartenenza e identificazione (e quindi differenziazione). Lingua e religione, fanno anzitutto un popolo. In una parola: cultura. Si pensi a come gli ebrei, dispersi in tutto il mondo, siano da sempre visceralmente attaccati alla loro tradizione culturale e, soprattutto, religiosa (al punto che l’Ebraismo ha finito per costituire la loro stessa identità di popolo). E se la religione contribuisce al radicamento nell’identità, è altresì inevitabile un suo apporto pernicioso, laddove manchi la civiltà necessaria per accogliere l’”altro” quale fondamento essenziale del proprio Sé. Solo nel confronto aperto e spregiudicato con il “diverso”, infatti, può radicarsi il territorio dell’identità: solo dall’incontro scaturire l’evoluzione umana. L’arroccamento e la chiusura sono viceversa i migliori avamposti della barbarie. La paura del diverso può esser posta all’origine di tante manifestazioni di intolleranza, anche religiosa. Così si spiegano i pogrom, le stragi, le persecuzioni, le torture, gli eretici al rogo (come Giordano Bruno), gli Indici dei libri proibiti e le “sante” inquisizioni di cui è piena la storia occidentale. Così è potuto accadere che infinite volte Caino uccidesse Abele in nome di Dio stesso, in difesa di sante cause e mormorando preghiere. Che le sacre scritture di ogni tempio e in ogni tempo fossero (e siano ancora) intrise di sangue umano.
La libertà di culto rappresenta non a caso una conquista dei tempi moderni, ottenuta congiuntamente ad altre notevoli conquiste nel campo dei diritti umani: han dovuto prima maturare ed universalmente affermarsi certi principi, scaturiti dal maggior livello di consapevolezza, dall’evoluzione stessa della civiltà. Non a caso si parla oggi di “multiculturalismo”. Viviamo in società multirazziali, aperte al confronto (e dunque al reciproco arricchimento) di idee, usi, costumi, riti e tradizioni. Grande merito dell’età contemporanea è quello di aver abbattuto, anche grazie ai notevolissimi supporti tecnologici, gli ultimi baluardi di un mondo oscuro che per fortuna non c’è più: muri di secolare datazione che crollano al soffio della nuova tolleranza (almeno nelle intenzioni), benché altri, di pari passo, ne vadan senza posa risorgendo.
Il primo grande risultato in tal senso, per ciò che attiene la religione, fu l’editto di Nantes (1598), con cui il re Enrico IV riconosceva la pienezza dei diritti civili a tutti i cittadini francesi, indipendentemente dalla loro professione di fede. Appartenere alla comunità nazionale, cioè, non dipendeva più dall’adesione a un culto qualsivoglia; il che, a ben vedere, poneva le premesse per la definitiva separazione in sfere autonome di Stato (entità laica) e Chiesa (entità spirituale). Cosa che, sebbene auspicata da molti (si pensi alla teoria dei “due soli” di Dante), mai si era concretamente realizzata nel corso del Medioevo (dove anzi il potere temporale dei papi aveva celebrato i suoi massimi splendori), e neppure più tardi, se si pensa al principio del “cuius regio, eius religio” ratificato in occasione della pace di Augusta (1555), o alla cattolicissima Spagna di Filippo II, o all’Inghilterra dello scisma anglicano. Laddove invece era la storia medesima a dimostrare quanto fosse stata sempre perniciosa la confusione tra potere temporale e potere spirituale, nonché l’identificazione dello Stato con una determinata confessione religiosa. Gettate le fondamenta dello Stato moderno, bisognerà attendere i contributi vitali della cultura settecentesca per giungere all’ulteriore conquista dell’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789), che trascina il problema della libertà religiosa (come corollario della libertà d’opinione) sulla scena capitale della Rivoluzione francese, da cui si può dire derivi tutto ciò che siamo in quanto uomini moderni. A certi solenni principi si sono rifatte anche le successive ratifiche di tale libertà, confermata pure all’Art. 8 della nostra Costituzione, laddove si legge che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”.
Si tratta pur sempre di principi ideali: ineccepibili dal punto di vista teoretico ma, come si è visto, non sempre concretamente applicabili, data la congerie sterminata di fattori che entrano in gioco, nella realtà dei fatti, e con cui la sfera religiosa è chiamata a fare i conti, restandone quasi sempre invischiata.

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