CINEMA
Black Cinema: they gotta have it
Spike Lee e la ripresa dell'emancipazione nera
Nel 1986 usciva Shes Gotta Have It (Lola Darling) e il
cinema afro-americano rinasceva dalle sue ceneri. Cerano voluti quindici anni
perché qualcuno raccogliesse la corposa eredità lasciata nel 1971 da Melvin Van Peeble
con il suo storico Sweet Sweetbacks Baadassss Song; ma ne erano serviti più
di sessanta perché qualcuno seguisse le orme del pioniere del cinema nero americano:
Oscar Micheaux. Egli per primo aveva cercato, insieme con il produttore William
Foster, di creare delle all black productions che potessero dar vita a una
rappresentazione verosimile e dignitosa dei neri dAmerica: qualcosa che non avesse a
che fare con gli sterotipati ruoli che, dal griffithiano Birth of a Nation in poi,
erano stati loro affibbiati. Ma il cinema di Micheaux passò invano. O quasi. Mancavano i
mezzi, sia economici che tecnici, per confezionare un prodotto cinematografico che fosse
in grado di concorrere con lallora nascente industria hollywoodiana. Micheaux non
aveva i soldi per rigirare una scena venuta male. Non poteva contare su scenari
appositamente costruiti per il set (un antesignano del Neorealismo?) e doveva sfruttare la
luce naturale. Inoltre distribuiva personalmente le sue pellicole, passando da un cinema
allaltro con la sua bicicletta. I suoi film erano così grossolani a livello tecnico
che spesso infastidivano chi li vedeva, ma la sua gente li adorava. Milioni di
afro-americani potevano vivere, attraverso gli interpreti di quelle pellicole,
unesistenza che non avrebbero mai potuto abbracciare. Una realtà parallela in cui
poter essere ricchi, potenti, di successo: in una parola essere come i bianchi, i
bianchi dAmerica. Poi, la impari e saremmo tentati di dire romantica
lotta di Micheaux che, con spirito tipicamente americano, aveva tentato di colonizzare una
parte del territorio cinematografico cessò: il grande baraccone hollywoodiano ebbe la
meglio e una patina di conformismo e convenzionalismo si posò sugli attori neri del
cinema americano. Era una sconfitta morale prima ancora che materiale e i Tom, i Coon, i
Mulatto, le Mammy e i Buck continuarono ad essere tutto quello che il cinema dei bianchi
offriva sulla rappresentazione degli afro-americani.1
Ma lidea di un cinema nero non morì del tutto. Il Movimento dei Diritti Civili, il
femminismo, la protesta contro la guerra del Vietnam, il movimento pacifista, gli
attivisti dAmerica a supporto della lotta per la liberazione dellAfrica,
dellAsia, dellAmerica Latina, il Black Panter Party e il Bla (Black Liberation
Army) rappresentano il magma incandescente da cui scaturisce una nuova ondata di registi
neri, tutti (o quasi) formatisi allUcla (University of California Los Angeles)
presso il «Theater Arts Departement». Stiamo parlando di Charles Burnett, di Haile
Gerima, di Ben Caldwell, di Alile Sharon Larkin
e di Julie Dash, la prima donna nera regista, se si esclude Eulzan Palcy nata però in
Martinica. Il lavoro di questa nuova corrente si suddivide in due momenti differenti che
vedono abbracciare tematiche esclusivamente socio- politiche
durante gli anni Settanta, per ripiegarsi poi nel microcosmo familiare e individuale a
partire dagli anni Ottanta. Ma i prodotti di questi registi, che mai si sono piegati alle
logiche di mercato, sono sempre rimasti sconosciuti a unaudience media e, ciò che
più conta, allopinione pubblica. Dallaltra parte del Paese, nellEast
Coast, invece, Melvin Van Peeple, individuando con lucidità ed esattezza le problematiche
inerenti alla affermazione di un cinema e prima ancora a unestetica
afro-americana riesce a produrre qualcosa che entusiasma il pubblico. Stiamo
parlando del già citato Sweet Sweetback. In un articolo del 1971, «A Black
Odyssey: Sweet Sweetbacks Baadassss Song» (dove per «Odissea» Van
Peeble intende quella che dovette affrontare per produrre e distribuire il suo film), il
regista ci spiega quale è la formula per un cinema afro-americano di successo. Primo
punto: i neri devono riprendersi la propria dignità sacrificata al totem bianco. Secondo:
il film dovrà essere ben confezionato, cosa estremamente difficile in quanto, come al
solito, una produzione indipendente significa scarsa disponibilità economica e quindi
insufficiente possibilità di mezzi. Terzo: dovrà anche destare linteresse e
lattenzione di un pubblico medio e non essere una pellicola per «addetti ai
lavori»; quindi, oltre che ben fatto, dovrà essere breve ed essenziale, capace di tenere
desta lattenzione dello spettatore. Quarto: pochissimi filmmakers considerano la
parte sonora come una terza dimensione; ciò che Van Peeble vuole fare è ridare spessore
a questo elemento e usarlo come parte integrante del film. Quinto: anche i media saranno
un elemento molto importante nelleconomia del film. Da qui il titolo Sweet
Sweetbacks Baadassss Song, in riferimento alle distorsioni acustiche, provocate
dagli apparecchi radio-televisivi.
Il film racconta la storia di un nero carcerato che uccide due poliziotti bianchi e
razzisti e la fa franca scappando in Messico: piace al pubblico nero, abituato agli
atteggiamenti concilianti di Sidney Poitier, campione di pazienza e tatto del cinema degli
anni Sessanta. In breve Sweet Sweetback diviene campione di incassi e una lezione
per Hollywood. Da quel momento in poi nascerà e si imporrà quel filone di film con eroi
neri che prende il nome di Balxploitation e che porterà, dopo aver sfornato
qualche titolo interessante come Shaft (1971) e Super Fly (1972), alla
ripetizione di schemi triti e ritriti fino allinsterilimento del genere. Segue un
lustro di silenzio su cui dominano incontrastate star della portata di Eddie Marphy e
Richard Prior i quali, però, non solo non aggiungono nulla di nuovo, ma anzi riportano la
rappresentazione dei neri ai preconfezionati stereotipi che gli anni Settanta si erano
sforzati di abbattere: siamo in pieno «edonismo reaganiano».
Toccherà finalmente a Spike Lee riprendere la strada dellemancipazione
cinematografica, seguita con risultati più eclatanti ma caduchi nel caso di Melvin Van
Peeble e più sotterranei ma continui nel caso degli esponenti dellUcla. I suoi
film, a partire dal 1986, rilanciano quella che è stata definita lera del New Jack
Cinema o della «Black Renaissance». E questa volta non si tratta di un caso isolato. A
partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, una serie di registi afro-americani cominciano a
produrre film cosiddetti «indipendenti».2 A
parte i registi dellUcla, che non hanno mai smesso di portare avanti il loro lavoro,
altri nomi come John Singleton, Matty Rich, Robert Townsend e Mario Van Peebles hanno
cominciato ad affermarsi. Dalla fine degli anni Ottanta, cambiano anche le modalità
di rappresentazione dei neri nel cinema bianco convenzionale. Finalmente viene loro
concessa una connotazione di tipo sessuale che, precedentemente, era stata negata e/o
rimossa. Attori come Welsey Snypes, Denzel Washington e Will Smith, accanto ad attrici
come Angela Bassett e Lonette McKee, vengono rappresentati come sessualmente desiderabili;
una scommessa che Spike Lee aveva lanciato per primo nel suo Shes Gotta Have It e
che aveva poi reiterato nei successivi Mo Better Blues (1990) e Jungle
Fever (1991). Ed ecco che i film di Spike Lee diventano, prima ancora che pellicole
sulla cui validità artistica si può discutere, veri e propri atti politici.
Leurocentrismo impartito dallinsegnamento scolastico americano può essere
contrastato nellera delliconoclastia laica attraverso la cultura delle
immagini: anche un afro-americano può essere rappresentato in maniera esteticamente
gradevole e quindi essere bello (black and beautiful). Una battaglia che, partendo
dallimmagine, dalla rappresentazione esteriore, va poi a introiettarsi nelle
coscienze dei neri dAmerica.
«Il più grande ostacolo per la rivoluzione nera in America è la nostra sensibilità
condizionata dal programma delluomo bianco. In breve, il fatto che luomo
bianco ha colonizzato le nostre menti. Noi siamo stati violentati, confusi e insteriliti
da questa forma di colonizzazione; è da questo brutale, calcolato genocidio, che il più
efficace e vischioso razzismo è cresciuto, ed è con questo punto di partenza in mente e
lintenzione di ribaltare tale meccanismo che entrai nel mondo del cinema.»3
Ancora una volta Melvin Van Peeble aveva centrato il problema. Se rappresentare significa
dare forma a qualcosa secondo la nostra idea, il nostro modo di vedere, e di concepire
loggetto da rappresentare, allora il prodotto di tale rappresentazione ci dirà
tutto su chi lha creato. Come dire che un film come Invasion of the Body
Snatchers (Linvasione degli ultracorpi, 1956) non potrà dirci molto
sulle reali conoscenze scientifiche e tecnologiche degli anni Cinquanta ma, come ormai è
risaputo, sarà un prezioso rivelatore del livello di fobia comunista in America durante
quel periodo. Dunque agire sulla rappresentazione convenzionale dei neri nel cinema
significava cambiare anche il modo di considerare i neri nella vita reale. Il New Jack
Cinema ricrea un suo modello di rappresenatività diverso da quello precedente, ed è
anche il tessuto connettivo di tutti quegli elementi culturali che hanno da sempre
connotato lidentità dei neri: il Black Cinema, infatti, è fortemente legato alle
radici etniche africane che si esprimono in maniera immediata in termini di accentuazione
dei colori caldi e pastosi, di predilizione per i ritmi tribali e, in termini più
indiretti, in quello che viene definito il soul, lanima dei neri.4
Contemporaneamente, è presente una forte componente metropolitana, scaturita dalla
realtà dei ghetti e dei projects e dalla musica di cui è
espressione: il rap. La musica, a partire dal jazz, il linguaggio, struttura portante del
rap, e il soul, che tutto contiene, sono gli assi portanti che caratterizzano la
produzione di Spike Lee e di tutti gli altri registi neri: un minimo comun denominatore
che era stato già individuato, a suo tempo, da Charles Burnett e dagli altri
dellUcla. Ma cè un terzo elemento, quello più importante, che ha
caratterizzato il cinema nero, non solo degli ultimi dieci anni, ma anche di quello
passato: il realismo. Sia che si trattasse di cinema documentario (Robert Townsend,
Warrington Hudlin), sia che si trattasse di fiction, i registi afro-americani sono sempre
stati fortemente aggrappati al reale. Era importante che i loro film potessero raccontare
storie vere e denunciare, spesso sottolineando la veridicità dei loro racconti con
laggiunta di stralci documentari, la situazione di emarginazione e razzismo in cui
da sempre vivono. La verità, dunque, nientaltro che la verità, non più gridata
attraverso le note sofferte di un blues o sotto i ritmi incalzanti dei rappers, ma
ora anche attraverso le immagini di un cinema politico prima che estetico. Per creare
unestetica bisogna anzittutto sapere chi si è, cosa si vuole e quali sono le
istanze che ci caratterizzino, che esprimano lessenza della nostra identità o
lessere parte di qualcosa. E gli afro-americani hanno appena ritrovato la loro
identità che adesso dovranno cercare di difendere a spada tratta: finita la rabbia e la
voglia di imporsi allattenzione di un pubblico ormai internazionale, molti registi
sembrano avere in parte esaurito la propria carica innovativa. Il cinema nero indipendente
alle soglie del nuovo millennio rischia di essere inglobato dalla potente macchina
holliwoodiana, che Titanic-amente spadroneggia, forse anche a causa dellambiguità
di fondo con cui registi come Spike Lee si sono mossi nellambito delle loro
produzioni. Una macchina che potrebbe nuovamente ingolfasi e sclerotizzare la
rappresentazione degli afro-americani su nuovi, più moderni, ma pur sempre inesorabili,
sterotipi.
Manuela Michetti
Note al testo:
1 Queste sarebbero le tipologie di neri
americani che, secondo il critico afro-americano Donald Bogle, avrebbero caratterizzato il
cinema hollywoodiano dalla sua nascita fino ai nostri giorni. Cfr., Donald Bogle, Toms,
Coons, Molattoes, Mammies & Bucks: An Interpretative History of Blacks in American
Films, New Expanded Edition, New York 1993.
2 Il termine indipendente, per quanto
riguarda la produzione di film afro-americani, deve essere interpretato in senso ampio.
Molte di queste opere sono finanziate e distribuite dalle major companies, e utilizzano i
mezzi messi a disposizione dagli Studios. A parte il film di debutto Shes Gotta
Have It, i film successivi di Spike Lee sono stati prodotti dagli Studios di
Hollywood. Molti registi neri più recenti devono cercare da sé i finanziamenti (Julie
Dash, Charles Burnett, Wendell Harriss ecc.). A volte sono disponibili finanziamenti da
parte dello Stato, e un discreto numero di piccole case di distribuzione continuano a
scovare registi promettenti che arrivano da diversi background.
3 Da «A Black Odyssey: Sweet
Sweetbacks Baadassss Song», in Black Films and Filmmakers, Dodd Mead,
New York 1975.
4 Viene definito «New Jack Cinema» il
cinema nero degli anni Novanta, dal film campione di incassi del 1991 New Jack City di
Mario Van Peeble: un film che a detta di Steven D. Kendall avrebbe segnato unepoca e
un modo di fare cinema. Per ulteriori approfondimenti, vedi: Steven D. Kendall, New
Jack Cinema, J. L. Denser, Meryland 1994.
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