CINEMA
Eyes Wide Shut
Dopo un anno di attesa, lultimo film di Stanley Kubrick
di NICOLA D'UGO
Era attesissimo da un anno lultimo film di Stanley Kubrick Eyes
Wide Shut, e ciascun addetto ai lavori si aspettava, con la propria aria di esperto,
di trovarsi di fronte lennesimo capolavoro del regista newyorkese. Fra i meno
esperti, vera chi avrebbe gioito nel vedere la trasposizione cinematografica del
romanzo Traumnovelle (Doppio sogno), dello scrittore austriaco Arthur
Schnitzler. Qualche altro, pensando che Kubrick fosse lunico regista che potesse
realizzare unopera pornografica di valore, già pregustava le tinte forti
dellerotismo esplicito su pellicola, dimenticando fra laltro labilità
di altri grandi registi, primo fra tutti Ken Russell.
Invece Eyes Wide Shut ha deluso le aspettative dei più, già a partire dai primi
commenti veneziani. In effetti, questo film non segue i modelli classici della
cinematografia fin qui esperiti. Ha qualche cosa di teatrale, che, pure, si tiene a debita
distanza dalle trasposizioni cinematografiche dei vari drammi di Sofocle, Machiavelli,
Shakespeare, Molière e Goldoni. Un indizio delloperazione condotta da Kubrick in
questo suo lavoro la troviamo nel titolo: Eyes Wide Shut, che, riprendendo
lespressione wide open («ben aperto», formata da «largo» e «aperto»),
la mutua in un ossimoro che, di fatto, asserisce che gli occhi sono chiusissimi quando
sono ben aperti. Inoltre, shut-eye vuol dire «sogno», ristabilendo con una serie
di giochi di parole un punto di contatto con il titolo di Schnitzler. Locchio aperto
e chiuso insieme è proprio leffetto che Kubrick ha voluto dare attraverso
luso della macchina da presa, la quale chiude i personaggi nellinquadratura e
taglia dal campo gli scenari in cui agiscono. Leffetto che se ne ha è quello della
chiusura dello spazio umano dentro una sorta di urna di vetro, che si sposta come un
involucro intorno al protagonista, il dottor Bill Harford (Tom Cruise). I luoghi, inoltre,
perdono la loro entità tradizionale, come qualsiasi oggetto che, estrapolato dal proprio
contesto, viene proposto a se stante: tutta latmosfera che circonda loggetto
non viene accesa nella nostra mente, anzi si ha un senso di tradimento degli oggetti e dei
luoghi comunissimi che entrano nellinquadratura. New York stessa diventa una città
verticale, senza orizzonte a perdersi, tutto il contrario dellatmosfera ampia della
città finanziaria che vediamo nei film di Woody Allen, al telegiornale o di persona.
Gli spazi chiusi dallinquadratura (sia gli interni che gli esterni) diventano allora
una sorta di ready-made, ossia di quegli oggetti come lorinatorio rivoltato o
una ruota di bicicletta che, allinizio del secolo, lartista Marcel Duchamp
propose ad alcune gallerie newyorkesi. Nel film di Kubrick luomo diventa un oggetto,
quasi un automa, certamente un alieno nel luogo in cui abita. Locchio, una volta che
è «ben aperto» sul dettaglio, «chiude» ogni visione dinsieme, giacché ciò che
luomo cerca è un quadro dinsieme in cui collocare il dettaglio. Bill,
muovendosi di dettaglio in dettaglio, non riesce ad avere un quadro dinsieme
giacché non ha un pensiero dinsieme in cui collocare i nuovi indizi. La sua visione
del mondo e della donna è fatta di quelle certezze comuni che prescindono e precludono
qualsiasi quadro conoscitivo, nella misura in cui pretendono di far rientrare nella
propria inesperienza scenari molto più ampi e articolati, ponendosi domande a cui nessun
uomo saprebbe dare una risposta definitiva. Emblematica è la scena dellincontro con
Victor Ziegler (Sydney Pollack) nel finale del film. Questultimo, a differenza di
Bill, non soffre più di tanto per la morte di Mandy (Julienne Davis), una prostituta
tossicodipendente che il medico aveva soccorso nella stanza di Victor, perché, nella sua
ottica, ce ne sono tante così a questo mondo.
Bill è un uomo che si muove fra oggetti alieni e personaggi alieni, secondo una certa
tradizione letteraria che ha avuto i suoi esiti più noti nella fantascienza. Ma Kubrick,
a differenza della fantascienza e dei suoi eroi positivi e negativi, ci rende più
alieno di tutti il protagonista stesso, evitando di costruire un dualismo fra bene e male.
La diversità etnica, così copiosa anche nella più tranquillizzante cinematografia
americana (per esempio i film comici e le commedie), diventa qui inquietante attraverso
meccanismi di trapianto di stilemi teatrali differenziati (Marion Nathanson da una parte e
Milich dallaltra), del cinema orientale (i due pedofili giapponesi), del thriller
americano (il pedinatore) ecc. La sensualità è annullata attraverso un meccanismo
espositivo che fa del corpo nullaltro che un oggetto ammirabile, senza tangibilità
e scambio reciproco (senza spirito), in cui il sesso è ridotto a simbolo, sia come
surrogato allinfedeltà mentale della moglie di Bill, Alice (Nicole Kidman), sia
come rito collettivo dellatto copulatorio senza intimità e piacevolezza, come viene
evidenziato dalla scena in cui un uomo in piedi e una donna supina su un uomo, che la
sostiene come un tavolino, si impegnano in una congiunzione beffarda, dalla ritmica
ginnica: i due sono nudi e mascherati, e il gesto meccanico reiterato non dà
evidentemente alcuna connotazione individuale ai personaggi, rendendo «mascherata»,
addirittura «vestita», la loro nudità e il loro gesto.
Le molte nudità del film perdono il carattere di oggetto piacevole, pur rimanendo oggetto
del desiderio. È perciò significativo che lo spogliarello iniziale di Alice sia
sensuale, poiché esso precede il trauma di Bill, quel suo aprire gli occhi sulla realtà
senza sapersi più orientare. Nella loro forma recitativa i personaggi, a partire da Bill,
non costituiscono che stereotipi dellumanità urbana. Non vè infatti
alcun accavallamento di battute fra i personaggi, ma si impone il modello recitativo del
teatro classico: prima parlo io, quando ho finito parli tu, quando hai finito tu parlo io
ecc. In effetti, Kubrick supera le concezioni recitative del teatro classico e del
realismo cinematografico hollywoodiano, seguendo una terza via recitativa, quella del
cinema hard-core, rendendo una piattezza dilettantesca ai personaggi e giocando con
scenette di cattivo gusto di certo teatro istrionico e di certe produzione hard (anzitutto
la francese). Un esempio della voluta piattezza recitativa del cinema hard la si
osserva in film curatissimi come Stavros di Mario Salieri, in cui allimpegno
scenografico, fotografico, costumistico, del truccatore ecc. non corrisponde
unadeguata interpretazione realistica da parte degli attori. Questo modello,
impiegando gli elementi meno verosimili dei migliori film tradizionali e hard (poca
sensualità e poca caratterizzazione interiore), si avvale di una piattezza compositiva
tenuta a una soglia di disturbo elevata, fino a produrre il senso dalienazione
desiderato. Ciò che doveva perdersi, per Kubrick, era la verosimiglianza del mito
contemporaneo, così copiosamente costruito ovunque attraverso il carattere fittizio della
rappresentazione. Tutto come aperta denuncia dellassuefazione del dolore
delluomo contemporaneo, che, come il protagonista, non sa rimuovere il disturbo di
drammi quali i tradimenti affettivi e sociali, la tossicodipendenza, la prostituzione, la
sieropositività allHiv, la pedofilia, i suicidi, la perdita dei congiunti e la
necrofilia, aggiungendo a questi quello di credersi anestetizzato fino al pianto finale.
La società caricaturata da Kubrick è già la nostra.
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