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Anno IX numero 10 - ottobre 2000

 ARCHEOLOGIA

Fra Cina e Tibet
Tradizioni e misteri delle vie spirituali di realizzazione

di Mario Giannitrapani

Non c’è miglior modo di penetrare direttamente la parte più viva ed operante di una cultura e le nobili origini di un determinato popolo se non introducendosi nella lettura delle sue più qualificate espressioni della vita spirituale che solo in parte i testi scritti sono in grado di rispecchiare. Il Tao-Tè-Ching di Lao-Tze (570-490 a. C.) nella nuova veste editoriale delle Ed. Mediterranee, rappresenta uno dei saggi più significativi attualmente disponibili sul taoismo operativo. Le brevi sentenze e massime che compongono questo straordinario testo, costituiscono degli insegnamenti sapienziali ed esoterici la cui valenza operativa e simbolica è tale da non potersi prestare ad un senso unico bensì ad una specie di "elasticità magica," di cui dev’essere fornito colui che decide di intraprendere la via del risveglio. Più che soffermarci sulle differenze tra Taoismo e Confucianesimo e sui rispettivi fondatori, cercheremo di cogliere direttamente alcune delle più intense e significative (non)affermazioni che questo mirabile compendio di vita ci fornisce. I concetti di vuoto ("è il vuoto interno che fa il vaso"), non-essere, non-agire, senza-forma e senza-nome segnano i requisiti del Grande Uno e del Grande Inizio, superiore ed anteriore all’essere delle teologie teistiche e religiose ; una logica eterna, impersonale ed immutabile del divino che permette quella manifestazione eterna della Perfezione che non ha un carattere creazionistico, che quindi non si lega ad una volontà o ad una intenzione. Talune espressioni, per grave incomprensione di alcuni studiosi europei, furono a volte associate ad una sorta di "debolezza" o "quietismo," creando così un’immagine del tutto errata di una via della realizzazione che, com’è stata definita a suo tempo nella prefazione del curatore Evola, riguarda "norme della vita interiore più profonda, trascendentale," tutt’altro che aspetti di una condotta esteriore o sociale, bensì sostanzialmente di "un’etica iniziatica". L’agire senza agire è il grande mistero della saggezza dell’Uomo Reale, cui l’eliminazione dell’Io e delle sue tensioni lo riconduce alla fonte prima del Principio. La Via è quella del "sapere della propria luce e sembrare oscuro," del "si veli ciò che, nelle cose, attira e l’animo resterà calmo," della ricerca di quel bambino interiore che "possiede a pieno la virtù," del "chi sa non parla" e del "saper vedere il grande nel piccolo". Quest’Uomo Reale che "porta vesti comuni[...], non si mette in luce e risplende," col "non affermarsi s’impone," agisce come la natura ed elimina tutto ciò che è apparenza, tiene difatti "celata dentro di sé la materia preziosa." E’ in sostanza una "fedeltà alla propria natura" quella cui ci si richiama, che si ricollega allo svàdharma indù, ossia del pericolo insito nel seguire il dharma (legge della propria natura) di un altro, anche se dovesse sembrare superiore. Questa pedagogia iniziatica della "profondità indiscernibile" e del non-cercare per trovare, dice infatti : "insegna senza parlare," sii "come chi nulla possiede, ignaro, semplice, senza spirito pratico," difatti solo tramite queste esperienze "sono diverso da tutti, ma, unito all’essenza originaria produttrice, solo io sono un Io," ed allora - esorta il saggio - "si segua la via degli Antichi e si conoscerà l’essenza eterna del principio." Più impegnativo il libro sulle Religioni del Tibet di Giuseppe Tucci (Ed. Mediterranee), un testo importante per discernere le varie scuole e forme di religiosità precedenti e coeve all’arrivo del Buddhismo (VII sec. a. C.) nel paese delle nevi perenni. La lettura di quest’opera permette di comprendere bene il lamaismo con i suoi principali indirizzi didattici nonché il significato della figura del Dalai Lama e della particolare specificità del Bon, religione autoctona arcaica, sopravvissuta finora. Nell’eterogeneo fluire di varie correnti spirituali indiane e cinesi (Siddha e Ch’an) scorgiamo il sentiero, assai raro, che permette di evitare il lunghissimo iter che porta alla condizione di Bodhisattva tramite una meditazione lunga e severa ; esso difatti si basa sulla folgorazione improvvisa, sullo spontaneo ed immediato riconoscimento della nostra luce-purezza essenziale, un’anagnosis del nostro essere profondo, atta a cancellare tutto ciò che non è luminoso. I Siddha ("i perfetti"), sono difatti asceti tibetani che rifiutano tutte le forme ortodosse convenzionali, non hanno l’obbligo del celibato e non sono legati ad alcuna disciplina ; solo l’esercizio dell’hathayoga dà luogo per loro alla identità spirituale con lo spirito-luce del Buddha. Ma le credenze originarie del Tibet non scomparirono, anzi si integrarono accrescendosi con i nuovi sostrati spirituali ; gli spiriti della terra, della montagna, dell’aria erano venerati e temuti come potenze reali. Due sono le principali vie alla liberazione (= onniscienza) che si possono evincere anche nell’edificio rituale e dottrinario del lamaismo, definitosi compiutamente intorno al XV sec. d. C. : via diretta come folgorazione spontanea e via graduale come faticosa conquista. Fondamentale rimane la consapevolezza che un’istruzione basata unicamente sulla parola scritta non solo rimane senza effetto, ma può addirittura deviare dalla retta via ed esser dannosa. Questa palingenesi può però esser determinata, tanto da consentire perfino la salvezza di "un essere che si trovi all’inferno," dall’ascolto della Verità assoluta riassunta in suoni, vere formule magico-sacrali - mantra - provocanti l’excessuss mentis liberatorio. In tutte le manifestazioni religiose tibetane rimane comunquesia centrale il fotismo, ossia l’esperienza fondamentale della luce (greco : phos), sems, come energia spirituale non scomposta. Per chi non è in grado di realizzare una tale catarsi in vita, alla morte segue l’esistenza intermedia (bar do) e sembra che la sorte dell’uomo comune sia proprio quella di affrontare una nuova esistenza con tutti i suoi inevitabili dolori. Nell’indirizzo gcod si persegue proprio la recisione completa del processo intellettivo che causa la dicotomia del mondo apparente, per aiutare così l’intelligenza a capire che in realtà non esiste nulla ; è una meditazione intesa come sacrificio del proprio corpo offerto come cibo e preda alla paura immaginata come demone. Altro decisivo monito che giunge all’occidente, sempre incline a confusioni ed equivoci come per la letteratura tantrica, è il na adevo devam arcayet : "chi non si trasforma in dio non può venerare un dio".
Quest’ultima massima racchiude un po’ il nostro augurio ed invito alla lettura delle opere qui presentate, sicuri che l’accrescimento recato non rimarrà soltanto "culturale," bensì materia viva su cui cimentare la propria esperienza interiore.


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