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Anno IX numero 10 - ottobre 2000

 DIRITTI UMANI

I diritti umani in Arabia Saudita
In atto la campagna di Amnesty International

di Gianluca Polverari

I diritti umani come linguaggio universale, come momento di incontro irrinunciabile tra gli esseri umani, come espressione massima del rispetto che ogni individuo deve vedersi garantito dai suoi simili e dalle autorità statuali; sono questi gli assunti guida che la normativa internazionale, a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ha dettato nei vari documenti e trattati che stabiliscono per gli Stati il rispetto dei diritti di ogni singolo come norme di diritto cogente, cioè del tutto inderogabili per la normativa statuale. Ma a fronte degli impegni internazionalmente statuiti, la concezione dei diritti umani, l’amministrazione spicciola della giustizia e l’interpretazione filosofico-religiosa delle norme regolanti i rapporti tra gli individui, restano estremamente diverse nella varie aree del pianeta e la difesa della dignità dell’uomo particolarmente difficile.
Dallo scorso marzo ha preso il via la campagna di Amnesty International sulla tematica dei diritti umani in Arabia Saudita, che il gruppo locale dei Castelli Romani sta promuovendo tra la cittadinanza attraverso un’attiva opera di informazione e di sensibilizzazione.
L’Arabia Saudita, tra i più ricchi paesi del mondo arabo, è anche tra quelli in cui le contraddizioni tra modernità e tradizione, appaiono più manifeste. Con una popolazione di oltre 18 milioni di abitanti, il Paese è retto dal sovrano assoluto Fahd bin Abd al-Aziz al-Saud, che esercita contemporaneamente le funzioni di capo di Stato e di Governo ed al quale è attribuito il titolo di "custode delle Sante Moschee"; l’ordinamento giuridico nazionale poggia sulla legge coranica, la Sahari’a, mentre l’amministrazione della giustizia è affidata ad appositi tribunali religiosi. A dispetto della sottoscrizione di numerose Convenzioni e Trattati internazionali in materia di diritti umani, in Arabia Saudita, denuncia Amnesty International, le detenzioni arbitrarie, la persecuzione di gruppi di oppositori politici e di minoranze religiose, l’ampio uso di strumenti di tortura e di pratiche crudeli come le amputazioni e le frustate, nonché il ricorso alla pena di morte per una ampia casistica di reati, continuano ad essere una triste e desolante realtà. A ciò si aggiunga che il clima di segretezza imposto a qualsiasi livello dalla struttura statuale, rende pressoché impossibile un monitoraggio attento sulla reale situazione del Paese; le stesse organizzazioni internazionali hanno la possibilità di documentare arbitri e violazioni solo in maniera occasionale, per voce di ex detenuti ed oppositori in esilio o tramite le scarse notizie che filtrino attraverso la rigida cortina di silenzio. A rischio di prevaricazioni arbitrarie sono soprattutto le minoranze, religiose, politiche o nazionali che dimorino nel regno, prive di alcuna tutela sindacale o legale sono spesso soggette all’arbitrio della giustizia saudita, come Donato Lama, cittadino filippino residente a Ryadh per motivi di lavoro, arrestato e condannato a 18 mesi di carcere e a 70 frustate per aver preso parte ad un cerimoniale cattolico; o come Ahmad bin Ahmad, morto in stato di fermo nel 1998, verosimilmente in seguito a torture, dopo esser stato arrestato perché sorpreso a pregare con rito Sciita, contrario alla pratica Sunnita. Le donne poi vivono ordinariamente discriminazioni e limiti al godimento dei più elementari diritti civili, politici, sociali ed economici, costrette a subire severissime restrizioni persino alla propria libertà di movimento, compresa la possibilità di guidare un’automobile o di uscire sola senza il marito o un componente della famiglia.
Amnesty International denuncia poi l’utilizzo di punizioni corporali come le frustate o le amputazioni come pene giudiziarie aggiuntive; in caso di furto grave lo Huddud, ossia la casistica di punizioni fisse prevista dalla Shari’a, prevede l’amputazione incrociata di mano destra e piede sinistro, pratica che, secondo Amnesty, ha trovato applicazione in almeno cinque casi tra le 90 amputazioni giudiziarie eseguite tra il 1981 e il 1999. L’utilizzo della pena di morte, impartita anche per reati non violenti come l’apostasia, il traffico di droga o la sodomia, è in costante aumento; dal 1987 al 1999 il numero medio di persone giustiziate in un anno è stato di 73. Le tutele legali per gli imputati sono praticamente nulle, giacché i processi in genere vengono condotti senza alcuna garanzia per i detenuti. Le esecuzioni, di norma pubbliche e mediante decapitazione, nella maggior parte dei casi non sono neppure preannunciate ai condannati se non nell’imminenza dell’evento. Un panorama dunque di disarmante discrezionalità giudiziaria, senza alcuna forma di tutela legale che assicuri imparzialità e buona condotta ai processi.
Di fronte a questo stato di cose Amnesty International chiede alle autorità saudite l’abolizione delle leggi e delle pratiche discriminatorie, la cessazione degli arresti arbitrari, delle pene corporali, della tortura, delle esecuzioni capitali e la ratifica dei trattati internazionali sui diritti umani, ed alla Comunità Internazionale di farsi parte attiva perché venga fatta piena luce sulla dolente realtà dei diritti delle persone così manifestamente violati in Arabia Saudita.
Per informazioni sulla campagna è possibile consultare il sito www.amnesty.it; sulle iniziative del gruppo locale di Amnesty International è possibile chiamare il numero 06 9396361 (Michele).


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