Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001
I
NOSTRI PAESI -
pag. 18
La
Campagna e i Castelli Romani raccontati da cinque scrittori
dell’Ottocento
di
Stefano Paolucci doppiacroce@tiscalinet.it
In
questa sede, e nelle comode vesti di recensore, desidero segnalare un
interessantissimo volume in cui m’imbattei, nel dicembre del 1999,
durante l’annuale book sale
del Centro di Studi Americani di Roma, di cui all’epoca ero membro
stabile. Il compito di recensire questo libro è reso particolarmente
attraente dal fatto che nessuna biblioteca dei Castelli Romani è ancora
in possesso di una sua copia, e devo quindi dedurne che si tratti di una
“scoperta” passata inosservata persino agli addetti ai lavori, il che
mi offre il duplice piacere di rivelare pubblicamente questo
libro-scoperta e di sollecitarne la pronta acquisizione da parte del
Consorzio Bibliotecario e di tutti gli amanti dei Castelli Romani. Il
libro s’intitola Scrittori
Americani nella Campagna Romana: l’Ottocento (Fratelli Palombi
Editori, Roma, 1999), a cura di Alessandra Pinto Surdi, americanista e
traduttrice. Il volume è stato realizzato grazie al contributo della
Regione Lazio, per iniziativa del Centro di Studi Americani, e presenta
una scelta antologica di brani tratti da libri e diari di viaggio di
cinque scrittori americani in Italia negli anni del Grand Tour, nonché
alcuni saggi critici sull’opera dei medesimi. Il volume è inoltre
impreziosito da una sapiente iconografia, in bianco e nero e a colori, che
accompagna il lettore attraverso le amenità paesaggistiche della Campagna
Romana e dei Castelli Romani (degno di nota è un dipinto a olio di George
Inness, su due pagine, che ritrae Ariccia come appariva nel 1874).Sebbene
il titolo del libro suggerisca una trattazione generalmente ispirata alla
Campagna Romana, al lettore basterà scorrere l’indice dei contenuti per
accorgersi che buona parte dei brani è dedicata ai Castelli Romani. E
questo fatto non dovrebbe nemmeno stupire più di tanto: ieri come oggi,
infatti, era consuetudine fare una visita ai Castelli qualora ci si
trovasse a Roma, approfittando della sua vicinanza per una gita “fuori
porta” (nell’Ottocento, la Porta da cui normalmente si usciva da Roma
per venire ai Castelli era quella di San Giovanni). Tuttavia, a differenza
dei nostri giorni, queste gite non si limitavano ad essere consumate
nell’arco di una giornata, ma di solito questi viaggiatori si
trattenevano per intere settimane o addirittura mesi, risiedendo
stabilmente, a pagamento o in qualità di ospiti, nelle ville castellane
dei possidenti romani. Le località più frequentate - scelte in base alla
prossimità con Roma e alla posizione sopraelevata che garantiva
un’estate fresca e scongiurava il pericolo della famigerata “febbre
romana” - erano Albano, Ariccia (soprattutto per via della famosa
Locanda Martorelli), Marino, Grottaferrata, Genzano, Castel Gandolfo e
Nemi, mentre Frascati e Velletri non erano strettamente considerati parte
della Campagna, così come Colonna, Monte Porzio, Monte Compatri e Rocca
Priora, decisamente fuori mano. Il
fascino irresistibile della Campagna Romana, ed in particolare dei
Castelli, colpì un numero considerevole di viaggiatori, artisti e
scrittori dei secoli passati. Fra i tanti, colpì anche uno scultore
americano, William Wetmore Story, che dimostrò di saper usare la penna
persino meglio dello scalpello. Stabilitosi a Roma nel 1856, vi resterà
fino all’anno della sua morte (1895), onorando la sua vocazione di
scultore e portando a termine l’opera che degnamente svolge il ruolo di
apripista nel volume che si sta recensendo.Intitolato Roba
di Roma - che, come la curatrice del libro giustamente osserva,
andrebbe letto in romanesco, e cioè Robba
de Roma -, il libro di Story, per la prima volta in parziale
traduzione italiana, si articola in capitoli che affrontano i temi più
disparati, non senza tuttavia ricercare sempre un nesso, direi più di
ordine evocativo che logico, tra le situazioni narrate. Ecco allora che a
fianco a trattazioni tecniche sui confini e la morfologia dell’Agro
Romano, si trovano gemme di ispirata prosa sui colori della Campagna, che
suscitano nell’autore appassionate affermazioni: “Questa è la
Campagna di Roma: un luogo che per le sue caratteristiche intrinseche è
per me il più bello e il più toccante che abbia mai conosciuto”. È
quindi sufficiente voltare pagina per tornare a districarsi tra stime di
appezzamenti in acri inglesi e rendite catastali in scudi e baiocchi, per
poi passare all’analisi dei sistemi agricoli e persino degli attrezzi
usati. Di questi ultimi, Story dice davvero peste e corna, affermando che
non ci sia niente di più rozzo e inadeguato, a tal punto che “farebbero
ridere il più ignorante dei braccianti americani”. Le pagine successive
sono invece all’insegna dei principali prodotti della Campagna, e cioè:
canapa, grano, olio, vino, bestiame e seta. L’autore si sofferma quindi
a parlare degli allevamenti bovini, dei bufali, delle pecore, dei cavalli,
delle capre, ma anche del clima, delle Paludi Pontine e, in relazione a
queste, della malaria e delle sue (presunte) cause.Un capitolo a parte è
dedicato alla “Festa di Quaresima a Grottaferrata”, cioè alla Fiera
annuale che si teneva il 25 marzo (oggi si tiene ancora intorno a questa
data, ma la sua durata è stata prolungata ad una settimana). Pur nella
sua brevità, o proprio in virtù di essa, questo capitolo è a mio avviso
uno dei più belli e riusciti, nonché il modo migliore per introdurre le
multiformi realtà dei Castelli Romani. Story ci accompagna tra stuoli di
contadini nei loro costumi di festa; tra lerci mendicanti; tra asini che
ragliano e vacche che muggiscono; tra carrette
che procedono rumorosamente; tra saltimbanchi che fanno smorfie, lanciano
arringhe e invitano tutti al loro spettacolo da un soldo; tra baracche e
tendoni da cui fuoriesce il suono allegro di pifferi e tamburi; tra
bancarelle all’ombra dell’abbazia di San Nilo che espongono i prodotti
dei villaggi. E c’è pure un ciarlatano,
in piedi sopra un tavolaccio davanti a un telone dipinto con “strane
figure cabalistiche”, che decanta con loquacità e a voce alta le virtù
delle sue medicine e dei suoi unguenti: Story ne resta a tal punto
affascinato, da offrirci un assaggio della simpatica filastrocca con cui
il ciarlatano incensa al
pubblico i suoi intrugli miracolosi.Da qui in avanti, sotto il titolo
“Maggio”, il lettore incontrerà riferimenti sempre più numerosi
riguardo alle feste e alle usanze dei nostri paesi, soprattutto allorché
compirà il passaggio che lo condurrà “Fuori Porta”, titoletto che
appare a margine di pagina 56. Ecco allora la Fravolata
o Festa delle Fragole (“Un’usanza a Roma che oggi è purtroppo
scomparsa”, come ci informa un accorato Story), l’Infiorata di Genzano
(“In quest’occasione le persone sfoggiano i loro costumi più
suggestivi [...] Il paese è in festa, le campane suonano, il fumo
dell’incenso trabocca [...] Centinaia di stranieri assistono anche loro
alla festa, e inoltre [...] si susseguono centinaia di belle ragazze, con
in capo le loro bianche tovaglie
dagli angoli ripiegati”), e se si è stanchi della festa genzanese,
“basta allontanarsi di poco dalla folla e ci si ritrova sulle sponde del
Lago di Nemi”. Altri gustosi riferimenti ai paesi dei Castelli li
troviamo nel capitolo successivo, intitolato “La Villeggiatura”, dove
il lettore viene edotto sulle abitudini dei signori romani alle prese con
le loro dimore estive sui Colli Albani, sulla vita di campagna, sui balli,
sul clima, sulla mietitura, sulla spigolatura e trebbiatura, e poi
sull’autunno (“Quando l’estate è finita, nulla è più bello del
paesaggio che si ammira nei dintorni di Roma all’inizio
dell’autunno”), sulla vendemmia e la processione della vendemmia
(usanza, quest’ultima, di cui molti, al pari di me, sicuramente
ignoravano l’esistenza), sui vini (“Il vino più forte è quello
coltivato nelle vigne vicino a Genzano e Velletri”), sui tipici carretti
a vino, e persino sulle imprecazioni della gente. Al
che, dopo “Una riflessione critica” di Andrea Mariani sull’opera di
Story, e giunti ormai ben oltre la metà del libro, troviamo alcuni
stralci da Americani a Roma, di
Henry P. Leland, il quale, ventinovenne, nel 1857 lasciò la natia
Philadelphia e arrivò nella Città Eterna, “per dimenticare gli
insuccessi negli affari e nella scrittura e tentare la carriera nelle arti
figurative”. A differenza dei suoi (più noti) connazionali — Irving,
Cooper, Emerson, Hawthorne, Melville, James, etc. —, Leland decise fin
dal suo arrivo di descrivere, “nella forma e nello spirito”, non già
le vestigia del passato, quanto la vita quotidiana del popolo romano.
Nello specifico, le pagine qui proposte narrano di una gita “fuori
porta” (stavolta quella di San Sebastiano) di tre artisti lungo la Via
Appia, e di una “bella giornata a Grotto
Ferrata” sul finire di marzo. Quest’ultima incomincia alla
Stazione (Termini), dove un trenino a vapore, “attraversando la Campagna
e costeggiando file di acquedotti in rovina”, conduce i protagonisti, in
mezz’ora, alla stazione di Frascati (inaugurata nel 1856). Il trio di
artisti compie a piedi “il tratto di circa tre miglia da Frascati a
Grotto [...] per le colline e per i boschetti di vecchi olmi e platani”,
e giunge nella cittadina dove la Fiera è in pieno svolgimento. Leland ci
tramanderà scene davvero memorabili, e finora inedite, di questa amata
tradizione grottaferratese.Il volume chiude in bellezza con tre testi
raggruppati sotto il titolo “In giro per i Colli Albani” nelle pagine
di Henry W. Longfellow, Francis Parkman e James E. Freeman, già apparsi
sulla rivista Castelli Romani.
Longfellow, famoso poeta che giovanissimo insegnò ad Harvard, giunse a
Roma nel 1828 e trascorse il mese di settembre nel villaggio “squallido
e sporco” di La Riccia. Nelle pagine del suo diario, il poeta narra le
sue occupazioni giornaliere, l’incontro con il cane Spaniel appartenuto
al capo brigante “Gasperone” (del cui ritratto dà una vivida
descrizione), e le sue idilliache passeggiate “lungo i numerosi sentieri
boscosi che partono in tutte le direzioni dalle porte di La Riccia”.
Quasi altrettanto, ma più umoristicamente, fa Freeman in “Un luogo di
ritiro estivo”: così titola le belle pagine dedicate a “Lariccia”,
e ad un esilarante tafferuglio fra ariccini e genzanesi, il pittore giunto
in Italia nel 1836, dove rimarrà per quasi tutta la vita.
Last but not least, lo storico
Francis Parkman consegna all’intimità del suo diario (26 marzo 1844) le
vicissitudini legate al fallito tentativo di farsi ammettere nel convento
dei Passionisti a Rocca di Papa, ubicato sul Monte Cavo, dalla cui vetta
boscosa poté ammirare “il lago di Albano incastonato in mezzo alle
colline e nero come l’inchiostro”.
Inchiostro, quello di questi autori, che non avremmo certo voluto perdere.
monte
compatri
22°
del Photo Club e 10° di Controluce
di
Armando
Sabato
1 dicembre l’associazione Photo Club Controluce ha festeggiato i 22 anni
associativi e i 10 anni continuativi di pubblicazione del giornale. Con
l’occasione, soci e collaboratori del giornale hanno potuto conoscere
personalmente chi, come loro, dedica volontariamente risorse di tempo per
sostenere le attività.
Nel corso della serata, durante la cena, il complesso musicale “Pizza e
Fichi Blues Band” ha allietato la serata con un “contorno” sonoro di
qualità. Apprezzati i pezzi che, alla fine degli anni ‘60, portarono al
successo Jenis Joplin e che, ci auguriamo, possano portare al successo
anche questi ragazzi.
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