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Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001

IL RACCONTO - pag. 23

                            
Salotti letterari d’altri tempi

di Luca Nicotra

Catania - Archi della Marina con barcheEra sempre d’estate che i miei genitori andavano a trovare i nonni, in una Sicilia assolata e letteralmente assetata. Avevo sei anni o pressappoco, ma quelle vacanze siciliane mi sono rimaste impresse nella memoria, con una vivezza e dovizia di particolari di cui io stesso rimango sorpreso.Le scene di quei “film della mia memoria infantile” seguivano quasi sempre lo stesso copione. Il lungo viaggio in treno, da Parma a Catania, con lo scompartimento interamente occupato dalla mia famiglia, che annoverava, oltre i genitori, noi quattro figli. La notte passata nel dormiveglia, un po’ per gli scossoni del treno e un po’ per la novità dell’evento, l’eccitazione di viaggiare tutti assieme attraverso l’Italia, nel cuore di stellate e calde notti d’agosto. Oggi tutto ciò fa sorridere, ma a quel tempo, in cui le automobili erano ancora appannaggio dei più facoltosi, un viaggio era un evento particolare e insolito. Era un’autentica emozione per noi tutti vedere il treno sfrecciare in mezzo alla campagna, entrare nelle montagne, fiancheggiare improvvisamente monti boscosi, avvolti nelle tenebre, e poi d’un tratto vedere il luccichio del mare di Calabria sotto la luna piena e sentire lo sferragliare del treno perdersi nell’immensità del mare. Non si poteva dormire e rinunciare a queste emozioni. Oggi siamo abituati a tutto, e tutto ci sembra dovuto, anche i piaceri. Ma quand’ero bambino io, invece, queste emozioni le provavano anche gli adulti, anche i miei genitori. La mattina, all’alba, il treno giungeva a Villa S.Giovanni, ed ecco un’altra fase affascinante del viaggio: i lunghi preparativi del treno per entrare nel traghetto per Messina. Erano manovre meticolose, che mio padre tentava di spiegare a me piccolino, con quel suo consueto fare cattedratico e un po’ misterioso che metteva sempre nelle sue spiegazioni. Io rimanevo affascinato da quell’andare avanti e indietro del treno, per depositare ad ogni entrata qualche vagone. Sento ancora lo stridere metallico dei freni e mi pare di vedere davanti agli occhi le possenti strutture di ferro smaltato della nave sfiorate a pochi centimetri di distanza dal treno, durante le sue lunghe e lente manovre. Una volta entrato e sistemato tutto il treno dentro la nave, questa salpava e allora i passeggeri potevano abbandonare i loro scompartimenti, per andare sul ponte della nave, dov’era il punto ristoro. Era una calca generale di persone sfinite dalla nottata, passata dormendo male, tutti desiderosi di assaggiare le delizie della gastronomia siciliana. Era un rito, quello degli arancini di riso siciliani consumati sul traghetto. Avevano un aspetto e un sapore particolari, diversi da quelli che si sarebbero poi potuti consumare nei caffè dell’isola, erano gli arancini del “ferry-boat”. Gli arancini siciliani sono molto diversi dai loro cugini romani, i supplì. Sono rotondi oppure a forma di cono e pari, per dimensioni, a due supplì messi insieme. L’esterno ha un buon spessore di impanatura fritta e l’interno contiene, oltre la mozzarella, anche piselli con sugo e tocchetti di carne.  Poi si usciva nella parte scoperta del ponte della nave, a guardare il mare, anzi lo Stretto. Quel piccolo fazzoletto di mare che separa la Calabria e l’Italia continentale dalla Sicilia aveva ai miei occhi un fascino particolare e arcano. Il colore dell’acqua, di un blu intenso e denso, nascondeva abissi inquietanti, mentre i vortici che spesso si vedevano, schivati a rispettosa distanza dal traghetto, manifestavano una vitalità quasi animistica del mare ed evocavano antiche immagini dell’epopea omerica. Di fronte a noi, la sagoma imponente e severa della Sicilia, “l’Isola Bella” cantata da Carducci. Sbarcati a Messina, il viaggio riprendeva in treno. Ma ecco un’altra novità: la linea elettrificata terminava a Villa S. Giovanni, mentre in Sicilia i treni viaggiavano ancora a carbone.Catania - Piazza Europa e la scogliera Ora, era come se il tempo subisse una strana e affascinante regressione improvvisa. Il rumore del treno era diverso, si sentiva lo sbuffare ritmico della locomotiva e, per non essere letteralmente anneriti dai suoi fumi, era necessario tenere chiusi i finestrini. Il treno, nel tratto Messina-Catania, costeggiava quasi sempre il mare, ora avvicinandosi fino quasi a dare l’impressione al passeggero, seduto nel suo scompartimento, di correre sull’acqua, ora allontanandosi a rispettosa distanza, per inebriarsi del profumo della zagara degli aranceti. Arrivati finalmente a Catania, ecco un altro segno del regredire del tempo, un autentico tuffo nel passato, per noi visitatori provenienti dalla nordica ed evoluta Parma. All’uscita della stazione ferroviaria, ad attenderci c’era qualche taxi, ma soprattutto molte carrozze trainate da corpulenti e addobbati cavalli. Erano carrozze scoperte e grandi, tanto da poter ospitare tutta la mia famiglia, con i nostri ingombranti bagagli. La città, vista da quella carrozza, aveva tutto un altro aspetto, più antico, romantico e a misura d’uomo.Spesso, anziché andare subito alla pensione prenotata, ci si fermava, prima, a casa dei miei nonni paterni. Questa si trovava al primo piano di un ottocentesco edificio del centro, adornato, sulla facciata, da qualche balcone fatiscente, con tanto di ringhiera di ferro battuto. All’interno, un cortile inondato di sole e zeppo di piante di vario genere, in vasi ammucchiati con nessun disegno prestabilito. La scala che conduceva all’appartamento dei miei nonni era larga e massiccia, con i gradini in pietra grigia levigati dall’uso e consumati dal tempo. L’alzata dei gradini era decisamente molto bassa e scomoda. Occorreva fare un piccolo sforzo per controllare il movimento dei piedi e, quando si saliva, la struttura della scala vibrava ed emetteva un sordo rumore, come accade spesso nelle vecchie scale in muratura. All’ingresso dell’appartamento si riceveva subito una strana impressione, poi confermata da tutto il resto della casa.  Dall’accecante luce delle giornate d’agosto di una Sicilia infuocata, si piombava improvvisamente nell’oscurità di un angusto spazio dominato già dai libri di mio nonno. La temperatura dell’esterno era drasticamente mortificata dalle possenti mura dell’edificio, che all’interno offriva quasi un senso di frescura. In tutta la casa si sentiva lo stesso odore di vecchio, uno strano e indefinibile odore di cui erano impregnati mobili, tappezzerie, suppellettili e persino gli abitanti della casa. Ad esso si aggiungeva il forte aroma del sigaro toscano, vizio orgoglioso di mio nonno, la cui folta barba era permanentemente impregnata del suo acre odore. Ho ancora viva la curiosa sensazione che provavo quando mi baciava: il pizzicore della sua barba, l’odore del sigaro di cui era pregna e la strana morbidezza della pelle, rosea e liscia, delle piccole zone del viso risparmiate dalla barba. Il corridoio dall’ingresso portava, da una parte, alla sala da pranzo, interamente occupata da massicci mobili in ciliegio, che si affacciava al cortile interno con un lungo ballatoio, dove facevano bella mostra le piante di mio nonno, e dall’altra parte conduceva al “salottino rosso”, che con il suo ottocentesco balconcino si apriva sul fronte dell’edificio. Il suo nome derivava dalla tappezzeria damascata rossa delle pareti, e dalla tappezzeria in velluto rosso del divano e delle poltroncine di noce. Completavano la stanza un pianoforte e un antico mobile sagomato di fine settecento, appartenuto alla casa del mio bisnonno, con piano di marmo e un’imponente specchiera con cornice di ebano. Sul piano di marmo del mobile spiccava, solitario, un antico lume a petrolio blue, anch’esso di famiglia, che completava lo stile decisamente ottocentesco della stanza. Alcuni ritratti di grandi musicisti campeggiavano sopra il pianoforte, conferendo all’ambiente quell’atmosfera di cenacolo artistico-letterario, cui, in effetti, era stato consacrato nel passato. In casa dei miei nonni paterni si respirava fumo di sigaro toscano e aria di cultura. Nei tempi passati, il salottino rosso, nelle lunghe serate prive degli attuali intrattenimenti televisivi, era frequentato assiduamente da artisti e scienziati, che onoravano della loro amicizia mio nonno Giuseppe Innocenzo Nicotra Toscano, poeta e letterato allora molto noto nella Catania provinciale dei primi del Novecento, discepolo di Mario Rapisardi, poeta minore assurto agli onori della fama nazionale, talvolta ricordato in qualche storia della letteratura italiana e ben noto per la sua appassionata disputa letteraria con Carducci. Musicisti, professionisti e dilettanti, cantanti lirici, poeti, letterati, uomini di scienza e attori affollavano il salottino rosso, esibendosi in recite, duetti, o ingaggiando dotte disquisizioni filosofiche, letterarie e scientifiche. Fra le figure di spicco, il filosofo e pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, compagno di scuola del nonno e padre del matematico Lucio Lombardo Radice, l’attore comico siciliano Angelo Musco, il commediografo dialettale siciliano Nino Martoglio, “alter ego” siciliano del napoletano Giovanni Scarpetta, il matematico Giuseppe Marletta, socio dell’Accademia dei Lincei di Roma, uno dei creatori della geometria degli iperspazi, noto per le sue idee progressiste e acceso fautore del divorzio, e infine Mario Rapisardi, maestro e amico del nonno. Tutto questo, naturalmente, era ormai finito all’epoca delle mie vacanze siciliane, ma ne sentivo raccontare con passione e nostalgia dai miei genitori, testimoni oculari, durante la loro infanzia, di quei tempi ormai tanto lontani nello spirito e, perché no, un po’ magici. Eppure, anche quando da bambino mi recavo in visita dai nonni, ancora aleggiava lo spirito delle serate del salotto letterario. Un fratello di mio padre era compositore di musica classica e pianista, la nonna stessa era pianista diplomata e concertista, il nonno aveva al suo attivo numerose pubblicazioni letterarie, una laurea in legge e una laurea in filologia classica, come allora si chiamava la laurea in lettere. Era stato giornalista del Corriere di Sicilia ed era molto apprezzato come dotto ed elegante conferenziere. Era una figura tipicamente ottocentesca, elegante e bonariamente austera, da cui emanava autorevolezza, ma anche molta umanità e bontà. Mio padre e il fratello Francesco, anch’egli professore di matematica nei licei, costituivano la rappresentanza scientifica della famiglia. L’incantesimo dei bei tempi passati sembrava ancora non completamente infranto in casa dei nonni. Serate d’agosto magiche, l’aria calda e ferma, il balcone del salottino rosso aperto, la nonna al pianoforte, le note di un notturno di Chopin che si rincorrono meste per la stanza semibuia, illuminata soltanto dalla luna, quelle poltrone con il velluto rosso un po’ logoro, i disegni della stoffa damascata delle pareti, la presenza del genio musicale che emanava dai ritratti di Bellini, Chopin e Beethoven, tutto era fuori del tempo, tutto era completamente diverso da ciò che vedevo e respiravo nella mia casa di Parma. Il salotto letterario di mio nonno emanava forse gli ultimi respiri, ma era già tanto per lasciare in me un segno indelebile.


Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001