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Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001

VOLONTARIATO - pag. 30

                            
Sarajevo 2001

di Arianna Del Signore

il gruppo dei volontari al completo
Dal 28 luglio al 13 agosto ho avuto modo di vivere una esperienza che non dimenticherò facilmente, perché ha profondamente segnato la mia vita: ho partecipato ad un campo di lavoro a Sarajevo, organizzato dai padri Gesuiti della Cappella dell’Università “La Sapienza”. Eravamo in tutto 24 ragazzi, di cui 5 di Montecompatri. Abbiamo fatto il viaggio da Roma a Sarajevo in pullmino e traghetto, avendo quindi modo di osservare il susseguirsi dei diversi paesaggi nel corso del tragitto. Sin dal primo impatto con l’interno della Bosnia si avverte la differenza rispetto al limpido mare della vicina Croazia: cimiteri sparsi qua e là tra i vari paesini delle colline, tante case semi crollate, e quasi tutte le altre che portano ancora sui muri i buchi causati dalle pallottole. Anche Sarajevo non è da meno: se il centro è stato quasi totalmente ristrutturato, e lungo il corso si affacciano negozi di vario genere ed i caratteristici caffè che ricordano Vienna, basta spostarsi un poco più in periferia che torna il solito paesaggio di case semidistrutte. In diverse strade del centro città sono state fatte, nel cemento o nei mattoni, delle chiazze rosse di una sostanza particolare: ricordano i luoghi in cui sono avvenute alcune delle tante uccisioni della guerra.
Il primo giorno dopo il nostro arrivo andiamo a conoscere don Luka, parroco di Stup, quartiere periferico che si trovava durante la guerra proprio sulla prima linea e che è tra le zone ancora più danneggiate della città. Don Luka ci illustra le attività che svolgeremo durante il nostro soggiorno: dovremo scavare un canale per collegare lo scarico della parrocchia alla rete fognaria cittadina, fare lo scavo e la gittata per le fondamenta di una casa e liberare un’altra casa, fortemente danneggiata dalla guerra, dalle macerie che la occupano. Inoltre alcuni di noi il pomeriggio andranno ad animare i bambini dei quartieri di Zuc e Otes, due tra le zone più povere della città. Nel pomeriggio visitiamo la zona dello stadio: tutti i pendii vuoti intorno sono stati trasformati in cimiteri. È una cosa impressionante: su tutte le tombe la data di morte è compresa tra il 1992 ed il 1995; in quegli anni a Sarajevo sono morte circa 12.000 persone. Si distinguono le tombe dei musulmani, sormontate da piccoli minareti, quelle dei cattolici con scritte in alfabeto latino, e quelle degli ortodossi, con le iscrizioni in cirillico. Non è soltanto il numero dei morti che mi sconvolge, ma anche il pensare a quanto può essere difficile per le persone che vivono qui riconciliarsi e ricominciare dopo tutto questo.Dal secondo giorno cominciamo a lavorare sul serio: quasi nessuno di noi ha mai fatto lavori manuali di questo tipo, ma la nostra voglia di lavorare è tanta e non ci spaventa l’idea di dover prendere in mano per diverse ore badili, vanghe e picconi per scavare un canale, anzi facciamo quasi a gara a chi lavora di più: si vede che è il primo giorno e che siamo nel pieno delle nostre energie. Io lavoro per lo più a questo canale che servirà per lo scarico della parrocchia. Don Luka desidera che sia finito per il 15 agosto, festa dell’Assunta, patrona della Parrocchia, ma i lavori procedono anche più speditamente del previsto, tanto che nel giro di una settimana il canale è pronto, i tubi vengono messi e coperti. Intanto altri di noi lavorano per liberare dalle macerie una casa di tre sorelle, fortemente danneggiata. Togliendo e portando via le macerie, troviamo, oltre ai mattoni, cocci di piatti, bottiglie e vasi, posate, pentole, la macchina da cucire, fogli di giornali bruciacchiati, una bilancia… C’è con noi la maggiore delle tre sorelle: mi chiedo cosa abbia provato nel ritrovare le sue cose di una volta… Negli ultimi giorni, infine, insieme ad un gruppo di ragazzi e pensionati della Caritas della Toscana ci occupiamo di scavare e fare la gittata per le fondamenta di un’altra casa. Servirà per far tornare a Sarajevo i figli di una coppia anziana, che si son dovuti rifugiare in altre città della Bosnia. La cosa che mi ha colpito di più delle persone del luogo è il desiderio che hanno di parlare, di raccontarsi: quando siamo in pausa dal lavoro ci vengono vicino e cominciano a parlare, anche se si rendono conto che non capiamo quasi nulla, perché gli anziani parlano esclusivamente serbo-croato, e tra i meno anziani al massimo qualcuno conosce un po’ di tedesco (che io non conosco affatto); solo i bambini parlano inglese e a volte sono loro a farci da interpreti o ad insegnarci delle parole nella loro lingua.Sarajevo mi ricorda molto Gerusalemme, con le sue molte moschee e le giornate ritmate dal canto del muezzin. I musulmani sono più della metà della popolazione, e detengono i ruoli-chiave della città; la stragrande maggioranza degli aiuti umanitari arriva dunque a loro, mentre i cattolici e soprattutto gli ortodossi ne ricevono molti meno. Anche l’atmosfera “militarizzata” è simile a quella che vidi in Terra Santa quando vi andai nel 1998: basta fare un breve giro della città per incontrare diverse pattuglie della SFOR che svolgono compiti di polizia a Sarajevo.Oltre alle fatiche del lavoro manuale alcuni di noi al pomeriggio si dedicano all’animazione dei bambini in due dei quartieri più poveri della città. Ci colpisce molto il fatto che questi bambini si affezionano subito a noi, ci prendono per mano, vogliono darci baci; ed anche il fatto che si accontentano dei giochi più semplici: giro tondo, canzoncine, uno-due-tre stella; quando diamo loro fogli e colori, disegnano quasi tutti case e ponti. La situazione in cui questi bimbi vivono è a dir poco disagiata, le loro case sono state semi-distrutte e solo poche famiglie hanno avuto la possibilità di risistemarle. Alcuni vivono ancora con le finestre sostituite da fogli di plastica, in palazzi le cui scale sono prive di parapetti e l’intonaco è cadente. Eppure c’è chi ha messo sui davanzali dei vasi di gerani, come a voler dire che la vita continua come prima.L’estrema povertà in cui si trovano molte famiglie di Sarajevo è causata dall’altissima percentuale di disoccupazione, determinata dalla quasi assoluta mancanza di industrie nella zona. Molte famiglie sono prive dei padri, morti combattendo, e le donne solo in pochi casi lavorano. Tanti altri uomini sono rimasti invalidi, e capita di sentire bambini che dicono che preferirebbero che il loro papà fosse morto in guerra, almeno le mamme avrebbero la pensione di vedove, piuttosto che essere vivo ma invalido. Se la ricostruzione degli edifici danneggiati durante la guerra è ben lungi dall’essere completata, la causa principale non è la poca voglia di lavorare di questa gente, ma la mancanza di disponibilità economiche. I lavori che noi abbiamo realizzato sono stati possibili grazie ai fondi da noi raccolti qui in Italia prima della partenza, mediante vendite di beneficenza di piantine ed altro. Tra l’altro vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare i cittadini di Montecompatri che hanno generosamente contribuito alla raccolta di fondi in occasione dell’iniziativa “un fiore per sarajevo” dei giorni 8 e 15 luglio scorsi.Il nostro soggiorno a Sarajevo è anche conoscenza di chi lavora stabilmente lì, come i militari del contingente italiano della SFOR ed i carabinieri, con i quali celebriamo la S.Messa e condividiamo la cena; come Chiara, responsabile di Ai.Bi. per la Bosnia, che ci racconta la sua esperienza nel portare avanti un progetto volto a facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro di alcune donne, molte delle quali giovani e vedove; come Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, che ci dice di ringraziare le nostre famiglie per averci “prestato” per 15 giorni a Sarajevo.C’è poi un altro aspetto di questa esperienza di cui finora non ho parlato, ma che è stato forse il più importante, e cioè la condivisione. Il gruppo con cui ho fatto questo campo di lavoro era composto da persone tra i 19 ed i 33 anni di età: solo 4 le conoscevo già prima del campo. Le due settimane trascorse a Sarajevo sono state quindi anche l’occasione per conoscere ed accogliere persone nuove, per gettare le basi per nuove amicizie, ma anche per imparare ad accettare le diversità degli altr0000000000i. Diversità nelle scelte di vita e nei modi di comportarsi che potrebbero sembrare inconciliabili, ma che quando ne parli con un badile in mano o mentre spingi una carriola insieme, magari col fiatone, sembrano molto più facili da superare. Forse è questo l’insegnamento più grande che questo campo di lavoro e la conoscenza degli effetti della guerra mi hanno lasciato: siamo tutti diversi. Se lasciamo che le diversità ci dividano si può arrivare ad una guerra come quella che c’è stata in Bosnia, ma se impariamo a conoscere, accettare ed amare le diversità degli altri, ci si può aiutare e si può vivere nella pace.Concludo il mio racconto con una preghiera di uno scrittore bosniaco, vincitore tra l’altro del premio Nobel per la letteratura nel 1961, scritta molti anni fa, ma che ancora si adatta perfettamente alla situazione attuale:
Dio dei cieli che regni su di noi e che tutto conosci, per carità,
volgi il tuo sguardo su questa montagnosa terra di Bosnia
e su di noi che ha partorito e che mangiamo il suo pane.
Dacci ciò che giorno e notte, ognuno a suo modo, ti chiediamo:
dona la pace ai nostri cuori e l’armonia alle nostre città.
Basta con il sangue e con i fuochi di guerra.
Del pane della pace abbiamo bisogno!
Ivo Andric (Sarajevo, 1926)


Italiani all’estero: Argentina

 
Associazione dei giovani italo-argentini di Mar del Plata

“Nasce verso la metà dell’anno 1986 l’Associazione dei giovani italo-argentini di Mar del Plata. Obiettivo dell’Associazione: conoscerci, fare amicizia e scambiare idee, ma principalmente, lavorare insieme per la comunità italiana che amiamo e alla quale desideriamo servire”. Con queste parole Gustavo Velis, direttore della Prima Voce, giornale nato dall’esigenze di stabilire un contatto allargato con la comunità italiana ed, in particolare, i giovani di origine italiana, descrive i primi passi dell’associazione. Un cammino lungo 15 anni dal quale, tra difficoltà ed entusiasmi, alcuni giovani hanno dato vita l’8 dicembre 1987 all’AJIM ”Asociación de Juventudes Italianas de Mar del Plata”. Una iniziativa impegnativa: promuovere la diffusione della cultura italiana; patrocinare le manifestazioni sociali, artistiche, educative, culturali, sportive e benefiche..., che ha avuto immediatamente il sostegno della Federazione di Società Italiane di Mar del Plata.
Una delle prime iniziative dell’Associazione è stata: creare uno strumento di comunicazione scritto, proprio e specifico che permettesse diffondere i molteplici aspetti della vita istituzionale della collettività italiana a Mar del Plata e allo stesso tempo facesse conoscere l’immagine dell’Italia insieme alle tradizioni, le abitudini e la sua ricca cultura millennaria. Una vera sfida..Una bellissima responsabilità. La Prima Voce nasce il 15 settembre 1989 e fa conoscere la collettività italiana. Ogni pubblicazione era dedicata a una diversa regione d’Italia e includeva informazioni sul calcio in Italia e in Argentina, partecipando alla vita delle associazioni, del CGIE, del COMITES, informando sulle attività della Dante Alighieri, della Camera di Commercio Italiana a Mar del Plata, intervistando Roberto Baggio, ricordando Modugno... Il giornale diventa uno degli strumenti di comunicazione e di sostegno della Comunità - è in prima linea nel sostegno alla nascita del Consolato a Mar del Plata - e come tale ne segue e ne vive gli aspetti sociali, economico-finanziari e politici. La Prima Voce diviene elemento di contatto con le altre realtà associative italiane in Argentina e nel mese di ottobre 1995 esce come supplemento del giornale a tiratura nazionale La Nación. Poi, tra il 1997 ed il 1998 anche il giornale subisce le difficili vicende economiche argentine ed è costretto a chiudere per alcuni anni. Tra il 1999 ed il 2000 la ripresa delle attività: Ricominciare ma questa volta con una ricca storia, con esperienza e con migliaia di ricordi incancellabili, una storia che non si può dimenticare e che vive in tante biblioteche, non soltanto a Mar del Plata ma in tutto il paese...Oggigiorno più di 2000 famiglie ricevono la rivista La Prima Voce, non soltanto della circoscrizione consolare di Mar del Plata (Villa Gesell, Ayacucho, Balcarce, Miramar, ecc.), anche delle provincie dell’Argentina e con italiani residenti in molti Paesi. Due le versioni attraverso le quali si presenta: a stampa ed tramite internet
Vogliamo riprendere il cammino iniziato da quei giovani e non perdere quello più pregiato che hanno portato i nostri genitori e nonni, una cosa molto speciale che si chiama “essenza” (ndr. identità), afferma il Presidente dell’Associazione Marcelo Carrara.


Sommario anno X numero 12 - dicembre 2001