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Sommario anno XI numero 1 - gennaio 2002

 ENRICO FERMI E LA PILA ATOMICA - pag. 15

4 - Negli USA: 1930 e 1942


Siamo arrivati alla quarta parte di questa rubrica curata da Nicola Pacilio e dedicata ad Enrico Fermi e la Pila Atomica. La rubrica impegnerà l’autore e Controluce, a partire da ottobre 2001, in coincidenza con il centenario della nascita (29 settembre 2001), via via per un intero anno fino al 2 dicembre 2002 quando sarà commemorato il 60mo anniversario del primo esperimento, con la pila atomica, della produzione di energia nucleare.
Nicola Pacilio si occupa di Storia e Filosofia della Scienza ed è libero docente in fisica del reattore nucleare in Italia (Roma) e negli Stati Uniti (Università di California - Berkeley).



Arthur H. ComptonLa festa decennale di una squadra vincente. Ecco, uno per uno, gli intervistati. Herbert L. Anderson aveva 28 anni il giorno del fatidico esperimento, oggi è uno dei fisici particellari più brillanti del paese; Walter Zinn è l’attuale direttore del Argonne National Laboratory; Samuel K. Allison uno degli uomini chiave della chimica dell’esperimento critico. Leo Szilard uno dei tre fisici ungheresi (gli altri due erano Eugene Wigner ed Edward Teller) in grado di focalizzare l’attenzione e l’interesse del presidente Franklyn D. Roosevelt sulle possibilità di sviluppo dell’energia atomica; Leona Marshall, specialista in radioattività, la sola donna di tutto il progetto; Enrico Fermi, vincitore di un Premio Nobel per la fisica nel 1938, ideatore dell’esperimento originale; Arthur H. Compton, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1927.
Una pila atomica. “Mi chiamo Herbert L. Anderson (HA) sono venuto dalla Columbia University della città di New York per costruire questa pila. Ero appunto qui il 2 dicembre 1942 per sovraintendere al funzionamento della macchina”.

America, primo amore. Fermi ha visitato per la prima volta gli USA durante l’estate del 1930. Rasetti era stato a Pasadena, presso il California Institute of Technology (CIT), nel 1929 e, al suo ritorno a Roma, aveva riempito le nostre teste con i racconti delle meraviglie della California. Ricordo ancora le sue descrizioni degli alberi di arance, della sua scalata invernale al Monte Whitney (uno dei più elevati del continente nordamericano con i suoi 4418 m), del magnifico lavoro sperimentale svolto al CIT, delle stupende ragazze di Berkeley, sede della University of California, sulla baia di San Francisco. È possibile che l’entusiasmo di Rasetti abbia influenzato Fermi. In ogni caso, quando l’Università del Michigan, presso Ann Harbor, lo invitò a tenere un corso estivo di fisica teorica, Enrico accettò felicemente la allettante proposta. In quel campus ritrovò due vecchi amici e quasi coetanei di Leida, Uhlenbeck (1900) e Goudsmit (1902), responsabili della scoperta dello spin dell’elettrone. Costoro si erano trasferiti dalla nativa Olanda in corrispondenza dell’invito del Professor Walter Colby, il quale era una sorta di ricercatore di talenti per creare una forte scuola di fisica teorica ad Ann Harbor. Un altro membro di Leida, Ehrenfest, si unì al gruppo quella estate e l’atmosfera salì alle stelle: alcuni filmati delle lezioni e delle feste campestre mostrano ancora oggi la festività della gaia scienza nei campus americani. Fermi offrì una serie di seminari sulla teoria quantistica della radiazione, illustrando assai bene l’argomento molto nuovo e piuttosto difficile.

Interludi oltre oceano. La visita all’Università del Michigan si rivelò un grosso successo scientifico per Fermi, viste le manifestazioni di alto gradimento suscitate tra gli studenti e i freschi laureati, ma soprattutto tra il resto del corpo docente che di Enrico aveva apprezzato non soltanto la professionalità scientifica ma anche la sincera limpidezza del carattere. Fermi comprese che valeva la pena di insistere, anche perché queste parentesi americane rappresentavano per lui un piacevole break al di fuori dei problemi italiani e romani e offrivano potenziali alternative alla sua carriera. In tal modo, Fermi tornò negli USA nel 1933 e nel 1935 apprezzando sempre più le opportunità che gli venivano offerte. Era indubbiamente attratto dai laboratori bene attrezzati, dalla voglia di apprendere e di fare della nuova generazione di fisici americani, dalla accoglienza cordiale che riceveva nei circoli accademici. Negli USA, la grande organizzazione e la conseguente enorme disponibilità di moderna strumentazione controbilanciavano la preoccupante mancanza del fascino storico, della cultura e delle bellezze di Roma e dell’Italia. La vita politica e gli alti ideali di diritti sociali e civili dell’America apparivano poi incommensurabilmente superiori al panorama offerto dal fascismo. Tutto il complesso di queste considerazioni avevano pian piano trasformato Fermi in un imminente emigrante: quando la decisione venne, nel 1938, essa rappresentava la realizzazione di un piano programmatico lungamente preparato più che un gesto repentino di fuga di fronte all’emergenza delle leggi razziali.

Enrico ed Emilio: fisici on the road. Nel 1933 Emilio Segré accompagnò Fermi in USA: ecco qualche stralcio delle sue impressioni. “Durante l’estate di quell’anno, mi ritrovai assai meno resistente all’umidità e al caldo del clima americano. Non ero assolutamente in grado di lavorare con l’intensità espressa da Enrico. Enrico Fermi sulla neveTuttavia, cercai di essere alla sua altezza per lo meno nelle lunghe nuotate in laghi freschissimi. Mangiavamo spesso in campagna, dove imparammo ad apprezzare la cucina rustica.” Segré allude ai robustissimi breakfast (etimologicamente, i “rompidigiuno” dopo la notte) con menu salati oltre che dolci, costituiti da fette imburrate di pane a sezione quadrata abbrustolito in enormi tostapane a tempo, uova al tegame con pancetta e fagioli, frittelle con sciroppo di acero, ciambelle ricoperte di zucchero vanigliato, zupponi di latte con fiocchi di aveva, granoturco, riso soffiato e così via. Con una prima colazione di queste entità volumetriche oltre che caloriche, potevano guidare fino a metà pomeriggio. Guidare? Si, perché avevano comprato, per soli 30 $, una automobile usata a quattro posti, talmente vecchia da consumare quasi più olio che benzina. Fermi l’aveva battezzata “La tartaruga volante” per le sue grandi doti di velocità. E, sulla strada asfaltata, tornarono a New York per imbarcarsi sul piroscafo diretto in Italia, non senza difficoltà meccaniche e di motore. Queste ultime non spaventavano assolutamente Fermi, il quale si fermava alle stazioni di servizio, si faceva imprestare i ferri del mestiere e riparava i guasti davanti agli occhi meravigliati dei benzinai. Il proprietario di una stazione di Philadelfia gli offrì addirittura di assumerlo: Fermi ne fu molto onorato. Altro che incarico universitario, qui si trattava di un vero posto di lavoro, durante i giorni più neri della depressione.

Nasce la meccanica quantistica: l’accoglienza è fredda. L’evento scientifico più importante di quegli anni, costituito dalla formulazione della meccanica quantistica, aveva avuto luogo senza alcun contributo creativo da parte dell’Italia, almeno per quanto riguardava i principi generali, anche se Fermi aveva fornito interessanti applicazioni. Enrico infatti aveva sviluppato la sua statistica indipendentemente dalla meccanica quantistica e prima di prendere confidenza con questa nuova teoria della fisica. Fermi aveva cominciato a familiarizzare con questa ultima gradualmente, attraverso gli articoli di Schroedinger, tra il 1926 e il 1931, ne era rimasto entusiasta, la aveva immediatamente comunicata a colleghi e amici, nonché a Corbino, il quale inizialmente si dimostrò piuttosto scettico. Poi Fermi lesse gli articoli di Dirac pubblicati sui Proceedings of the Royal Society, e li meditò a lungo, interpellando anche tutta i membri della scuola di matematica di Roma, i quali sollevarono ingegnose obiezioni. L’articolo di Fermi intitolato “L’interpretazione della causalità nella meccanica quantistica” nasce da una discussione del 1930 nella quale il Professor Castelnuovo aveva sollevato molte importanti questioni. Fermi era solitamente un po’ impaziente con le persone che non capivano i nuovi sviluppi della meccanica quantistica: eppure trattò con molta attenzione le genuine perplessità sollevate da Castelnuovo perché ne comprendeva la grande portata.

1932: annus mirabilis. Dopo il 1905, con i fondamentali articoli di Einstein, il 1932 è il secondo annus mirabilis della storia della fisica del XX secolo. A gennaio, l’americano Harold Urey (1893) annuncia la scoperta di un isotopo pesante dell’idrogeno denominato “deuterio”. A febbraio, l’inglese James Chadwick (1891) dimostra l’esistenza di una nuova particella nucleare, il “neutrone”. In aprile, gli inglesi John Cockcroft (1897) e Ernest Thomas Walton (1903) riescono ad ottenere la prima disintegrazione nucleare bombardando nuclei leggeri con protoni accelerati artificialmente. In agosto, l’americano Carl Anderson (1905) individua l’esistenza dell’antiparticella dell’elettrone, prevista da Dirac, e la battezza “positrone”. Qualche tempo dopo, l’inglese Patrick Blackett (1897) e l’italiano Giuseppe Occhialini (1907) individuano tracce di creazione della coppia “elettrone-positrone”.

HA. “La pila era stata costruita in questa area alle mie spalle con mattoni di grafite e cilindri di uranio. Per onore di cronaca alcuni dei mattoni, usati per la costruzione dell’assemblea critica, sono ancora qui: credo siate interessati a vederne uno o due. Come notate, alcuni mattoni di grafite sono dotati di fori circolari passanti nei quali erano stati inseriti cilindri di uranio. Gli elementi di combustibile così costituiti erano poi stati affastellati gli uni sopra agli altri fino a raggiungere un’altezza che arrivava a ben poca distanza dal soffitto. Questo è il motivo per cui era stata denominata pila, oltre alla naturale analogia con la denominazione di equivalenti congegni elettrostatici per la produzione di energia, per esempio di natura elettrica. Ecco uno schizzo di come appariva la prima pila atomica: l’immagine è un disegno tracciato a mano: le norme di sicurezza erano infatti così stringenti da non permettere che fosse scattata una fotografia da nessuno, neppure da noi membri stessi del progetto! In questa pila avevano luogo reazioni formate da catene di fissioni all’interno dell’uranio 238 indotte da neutroni opportunamente rallentati dagli urti contro i nuclei di grafite. Queste sono le barre di controllo costituite da cadmio le quali operavano da assorbitori di neutroni, qualora la popolazione di questi ultimi fosse cresciuta oltre la quantità voluta e garantita dalla sicurezza dell’intera operazione.”


Sommario anno XI numero 1 - gennaio 2002