La mano di Dio
(Vincenzo Andraous) - In quella sorta di terra di nessuno
che è il carcere, Don Giuseppe è stato un movimento lento, ma
inarrestabile, soprattutto inalienabile, nonostante le contorsioni
perverse prodotte dai meccanismi spersonalizzanti che si sprigionano da
quel pianeta sconosciuto.
Oggi, Don Giuseppe ha dismesso gli
abiti di Cappellano del carcere, non lo incontri più nelle sezioni, a
colloquio nei corridoi, nelle celle, oppure nei passeggi cementati. Da
qualche tempo è a riposo, in una di quelle stanze confortevoli create per
le persone anziane.
Sono andato a fargli visita…e mi sono
trovato spiazzato. Pensavo di avere innanzi un uomo finalmente libero
dalle pressanti e disperate richieste di una umanità ristretta. Invece,
ho trovato lui stesso "detenuto", in un altro tipo di cella. I
suoi passi sono lenti, il corpo rimane fermo come il cielo impresso nell’acqua
del lago, eppure sotto quella consapevole ritirata, c’è la ribellione
di chi rifiuta di voltare le spalle. Sono entrato in quella stanza, con lo
stesso sentimento di bene, di quando varcavo la soglia del suo ufficetto
in prigione. L’identica gioia mi accompagnava, ma incredibilmente
differente era la condizione.
I ruoli completamente ribaltati, lui
che sempre ha teso la mano all’ultimo, ora è tra queste "quattro
mura". Io che per anni mi sono sottratto agli altri, oltre che a me
stesso, ero libero di entrare ed uscire da quelle sbarre invisibili. Ho
ricordato quell’uomo con le croci degli altri ben cucite addosso, tanto
da farle proprie. Ho rammentato l’uomo e poi il Sacerdote; l’uomo con
lo sguardo in alto, sebbene tra l’incudine e il martello; dei vertici
penitenziari distanti, dei detenuti inchiodati alle loro colpe. Ho
ritrovata intatta la sua capacità di credere e sperare nell’uomo nuovo,
insieme agli antichi insegnamenti: "occorre riesaminare continuamente
il passato per approdare a un mutamento interiore che costruisca civiltà
nell’amore".
Patrimonio, questo, di quella sua
cristianità che non regala facili ammende, o percorsi illusoriamente in
discesa.
In questa sua cella, il paradosso che
si consuma è di carne e sangue, mentre il tempo si ferma. Rimangono le
sue parole che non sono mai di ieri, Parole di Giustizia, anche per gli
ultimi, in un carcere ancora troppo lontano dalla parabola evangelica del
figliol prodigo, ancora troppo a misura (o peggio dismisura) di una
mentalità che considera il pagare una regola che va onorata, ma
disinteressandosi dell’assenza e dello spirito della Costituzione,
quindi dello stesso Vangelo.
Mentre rimango ad ascoltare l’Uomo,
rivivo i giorni in cui il Papa ha messo insieme come una Trinità:
PACE-GIUSTIZIA-PERDONO.
Persino all’interno di una prigione,
di una solitudine imposta, di uno spazio angusto, non c’è solo l’eternità
della penitenza, ma il bisogno di un aiuto, la necessità di un recupero
che riconduca alla propria dignità tra gli uomini.
Con questi pensieri ho salutato Don
Giuseppe, con la gratitudine di chi sta imparando che Giustizia e Perdono
vanno conquistati e meritati, nella fatica e negli impegni assunti in
tutti i giorni.
In quelli che rimangono nel tanto
cammino ancora da fare insieme. |