Sulle tracce di Beatrice
Cenci
(Luca
Ceccarelli) - Dell’antichissima famiglia Cenci sono rimaste
nella memoria collettiva la figura di Beatrice, figlia del perfido
Francesco, e le fosche vicende di sangue che li videro coinvolti che sono
state oggetto di innumerevoli ricostruzioni teatrali, narrative e
cinematografiche: ricordiamo almeno il racconto di Stendhal inserito nelle
Cronache romane e il dramma di Shelley The Cenci. Circa due
anni fa alla figura di Beatrice venne dedicata anche una mostra a Roma
presso la Fondazione Marco Besso.
Oggi i luoghi in cui si manifestava il
potere della famiglia Cenci sono abbandonati, o comunque disertati dagli
eredi della famiglia. Ci riferiamo in primo luogo alla collinetta posta
tra il Tevere e l’antico ghetto ebreo, dove la famiglia dimorava già
dal Medio Evo. Lo stesso palazzo Cenci (oggi non più abitato da membri
della famiglia) è un complesso di costruzioni di epoche diverse, e la
chiesa di San Tommaso era una cappella gentilizia fatta erigere nel XII
secolo da un vescovo della famiglia. Ai primi del XVI secolo il papa
Giulio II Della Rovere ne sancì la proprietà di quello che ancora oggi
si chiama Monte Cenci. La stessa cappella gentilizia venne ricostruita ed
assunse dignità di chiesa, nel 1575, per iniziativa di Francesco Cenci.
Quest’ultimo, a cui il pur bravo Gino Cervi nel film Beatrice Cenci
del 1956 dà un volto fin troppo umano, era un orco che superò tutti i
limiti della violenza e della lussuria, tanto da venire costretto a pagare
una multa di centomila scudi per "vizio nefando" (eufemismo che
sottintendeva la pederastia). Si trattava di un’ammenda salatissima, che
impoverì le finanze della famiglia.
Francesco
lasciò pertanto il palazzo romano con la moglie ed i figli, e si ritirò
a vivere in una rocca che sovrastava il borgo di Petrella Salto vicino a
Rieti, concessagli in affitto dalla famiglia Colonna che ne era
proprietaria. Oggi di questa rocca non esiste che un rudere, sufficiente
tuttavia a dimostrare l’austerità di questa dimora che d’inverno era
spesso spazzata dalla neve. Qui Francesco non mutò i suoi costumi in
meglio. Prese anzi ad infierire sulla seconda moglie Lucrezia e sui figli.
In modo particolare sulla giovane Beatrice, che non solo prendeva a
nerbate ma a cui rivolse addirittura delle illecite attenzioni sessuali.
Fu questo atto a spingere Beatrice, d’accordo con la madre e i fratelli,
a decidere di sopprimere il padre. Facendo di necessità virtù, la
giovane sedusse il castellano di Petrella Olimpio Calvetti, mentre il
fratello andava a Roma a procurarsi il narcotico e il veleno per
addormentare il padre. Quando l’oppio e la radica rossa giunsero nel
castello, spediti da Giacomo, Francesco venne opportunamente drogato. Ma
non fu sufficiente: Francesco dormiva di sonno profondissimo ma non
moriva, e il Calvetti, insieme ad uno scherano di nome Marzio Catalano,
dovettero finirlo con un martello e uno "stenterello" (il
matterello per stendere la pasta), e gettarono il cadavere dalle mura per
simulare un incidente. Ma il tentativo non riuscì: le autorità
inquirenti sospettarono subito che si trattasse di omicidio. A questo
punto il Calvetti si sottrasse alla polizia, ma Giacomo, su consiglio di
un parente, lo fece raggiungere e sopprimere. Nel frattempo la moglie e i
figli di Francesco erano fuggiti dalla rocca di Petrella.
Si trasferirono in un casale di
proprietà della famiglia a Torre Nova, a sud est di Roma. Questo edificio
cinquecentesco, che poco dopo passò alla famiglia Aldobrandini e che oggi
versa in uno stato di totale degrado, era tutto decorato e affrescato, ma
già all’epoca in stato di profonda decadenza, a causa dell’impossibilità
per la famiglia Cenci di provvedere alla manutenzione. È qui che Beatrice
visse nel periodo che intercorse tra l’omicidio del padre e l’arresto
e la traduzione, insieme alla famiglia, a Castel Sant’Angelo.
Non ci soffermeremo sul processo e sull’esecuzione
(sui quali la principale fonte è, comunque, il rendiconto della
Confraternita di San Giovanni Decollato, conservata nell’Archivio di
stato), che Beatrice, a differenza di Giacomo e Lucrezia, sopraffatti dal
terrore, affrontò con sarcasmo e fierezza, guadagnandosi il rispetto e la
simpatia popolare, e confessò l’omicidio solo dopo essere stata
torturata. Meno noto è, forse, che inizialmente il Papa Clemente VII
propendeva per una sentenza clemente. Ma quando venne a sapere, proprio
durante lo svolgimento del processo, che a Subiaco il giovane Paolo dei
principi Santacroce aveva ucciso la madre perché questa gli aveva negato
l’eredità, decise di spingere per una sentenza esemplare. Vale la pena
solo ricordare che l’11 settembre 1599, mentre il fratello e la madre
venivano portati di peso davanti al boia, Beatrice salì sul patibolo a
testa alta, e mise lei stessa la testa sul ceppo per offrirla al
carnefice, cosa che fece salire ancora di più la giovane, che aveva solo
22 anni, nella considerazione del popolo, tanto che dopo l’esecuzione la
sua testa venne coperta di ghirlande di fiori, e il suo corpo venne
portato a San Pietro in Montorio, sul Gianicolo, dove una folla piangente
la vegliò in preghiera fino a mezzanotte. E ancora oggi la Confraternita
dei Vetturini, nell’anniversario dell’esecuzione, fa celebrare una
messa in suffragio nella chiesa di San Tommaso dove, secondo una diceria
popolare, Francesco aveva intenzione di seppellire Beatrice e Giacomo dopo
averli soppressi. |