Il Divo defunto
(Luca
Nicotra) - Giulio Cesare fu non solo il primo imperatore romano,
ma anche il primo ad essere divinizzato già in vita, dopo la sua vittoria
su Pompeo, e così divenne il divo Julius. Da allora, tale pratica fu
adottata o proposta per quasi tutti gli imperatori, alcuni dei quali
furono divinizzati in vita e altri dopo la morte.
Traiano in vita rifiutò per sé la
divinizzazione, ma la volle per la sorella Marciana alla di lei morte,
evidentemente come suo estremo segno d’amore. Traiano fu poi divinizzato
dal suo successore Adriano, il quale anch’egli dapprima rifiutò, ma poi
accettò, la divinizzazione, che, di fatto, già era avvenuta per opera
del popolo in Grecia e in Egitto. E così ad Alessandria, nel Serapeo,
Adriano innalzò una cappella alla propria divinità, e tanto restio fu ad
accettare la sua divinizzazione, quanto sollecito a promuovere quella dell’amato
Antinoo, annegato nel Nilo. Il successore di Adriano, T. Elio Antonino, al
contrario, senza mezzi termini reclamò per sé l’onore degli altari e
così divenne Antonino Augusto Pio. Il grande Marco Aurelio,
interpretandone il desiderio, non esitò anch’egli a divinizzare un suo
caro, il fratello Lucio Vero, subito dopo la morte. E così si potrebbe
andare avanti a lungo, peregrinando nella memoria dei nostri antichi
cesari.
Noi italiani, che vantiamo una
discendenza diretta dai dominatori per eccellenza del Mondo Antico,
abbiamo ereditato in forma cristianizzata molti degli usi e costumi dei
nostri illustri progenitori, più di quanto noi stessi riusciamo a
rendercene conto.
È certamente in tale ottica che deve
essere interpretato quel costume tutto italico di aspettare la morte di
qualcuno, per dirne tutto il bene possibile, anzi addirittura spesso per
esaltarne doti eccezionali e rare, che avrebbero dovuto imporlo all’attenzione
di tutti già in vita. Evidentemente, il costume di
"divinizzare" chi è passato nel mondo dei più, per effetto del
Cristianesimo, si è in qualche modo allargato dall’elitaria schiera dei
principi dell’Impero ai comuni mortali, che tuttavia abbiano
effettivamente svolto ruoli e attività di un certo pregio e d’interesse
pubblico. Così, mentre gli antichi Romani non esitavano a divinizzare
già in vita i loro benemeriti, noi, da bravi cristiani, dobbiamo
attendere la morte del candidato alla divinizzazione, per avere anche noi
il nostro "divo defunto". Ormai, i canoni per tale sorta di
moderna divinizzazione più democratica sono abbastanza noti a tutti e
ciò che si dirà di una persona dopo la sua morte è oggi
sufficientemente prevedibile e scontato. Una volta morto, il "divo
defunto" diventa improvvisamente, agli occhi di tutti, un raro
esemplare di virtù morali, di dedizione al lavoro, alla famiglia, alla
comunità, un caso eccezionale di alta professionalità. Se prima nessuno,
o quasi, sospettava che nella nostra deludente epoca potessero esserci
ancora uomini eccezionali e di genio, ecco qua il "divo defunto"
a smentire imperiosamente ogni nostra ingiustificata mancanza di fede. Se
poi il defunto non è stato colto da morte naturale, bensì è stato
strappato improvvisamente e violentemente dal seno della comunità, la sua
ascesa agli altari assume tinte più forti.
Le cronache di questi ultimi giorni,
con la morte del prof. Marco Biagi, hanno tristemente riproposto,
purtroppo, il calvario della "divinizzazione post mortem" di
virtù e meriti di una persona violentemente e ingiustamente strappata
alla vita, che sarebbe stato più giusto e utile conoscere pubblicamente
prima, togliendo il monopolio della loro conoscenza alla ristretta cerchia
di amici e collaboratori.
Ma, è mai possibile che durante la
vita non si possano riconoscere tutte quelle virtù che invece, subito
dopo la morte, sprizzano fuori generose e numerose? Non è un po’
ridicolo e poco utile scoprire quasi sempre dopo la morte qualità e
meriti di una persona, che, se note e pubblicizzate in vita, avrebbero
sicuramente sortito benefici effetti sulla società e sulla stessa
persona? Pensate che bello sarebbe sapere che adesso, mentre io scrivo,
esistono in Italia tante persone di doti eccezionali, sapere che queste
con le loro virtù possono recare grandi servigi alla comunità umana, e
che in ogni caso possono riscattare l’umanità dalla tristezza della
mediocrità e colmare il vuoto della mancanza di ideali e di valori morali
e culturali! Ma come ci sentiremmo meno derelitti, più stimolati a fare
anche noi "meglio" qualunque cosa! Quanto meno sole si
sentirebbero quelle persone che, credendosi speciali, mortificano tuttavia
la loro eccellenza con la trascuratezza delle proprie capacità dovuta
alla consapevolezza di essere sole e non considerate. Quanto più alto
sarebbe il morale di tutti, sapendo che esistono molte persone eccellenti
e che tale loro eccellenza è pubblicamente riconosciuta e onorata. Quanta
emulazione deriverebbe in molti altri da questo pubblico sentimento.
Quanta più fiducia nella vita deriverebbe a tutti dal riconoscimento
generale delle doti e capacità delle persone eccezionali che esistono fra
noi. Purtroppo, invece, in vita si tende, al contrario, a minimizzare le
qualità di queste persone, un po’ per l’invidia di taluni e un po’
per quella radicata nostra "forma mentis" dell’archeofilismo,
per dirla con Cesare Lombroso, e del culto dei morti, per cui la dignità
e il valore di qualunque cosa sono figli del tempo e soltanto la vetustà
e ancor meglio il trapasso all’altra vita può dare il visto alla
grandezza di un uomo.
Massimo Piattelli Palmarini, nel suo
libro "Scienza come Cultura", annovera Bruno de Finetti
fra i pensatori del Novecento, dicendo di lui: "Viveva fra noi, ma
poco ce ne curavamo". Questa frase dice tutta la nostra disattenzione
per i vivi, anche se sono grandi uomini. Non si allude qui al caso del
genio incompreso in vita e riconosciuto come tale soltanto dopo la morte,
perché le sue idee erano troppo innovative o rivoluzionarie per essere
comprese nel periodo storico in cui visse. Mi riferisco al caso di persone
i cui meriti sono stati riconosciuti già in vita, ma sono enormemente
amplificati e pubblicizzati soltanto dopo la morte. Bruno de Finetti è
stato uno dei maggiori matematici italiani del secolo appena trascorso, ed
era ben noto, stimato e riconosciuto negli ambienti universitari e
culturali, nazionali e internazionali. Già da giovane, poco più che
laureato, è citato da grandi scienziati e colossi del pensiero
scientifico del Novecento, quali Rudolf Carnap, Ernst Nagel, Hans
Reichenbach, Karl Popper, Erst Von Mises. Tuttavia, a parte gli
"addetti ai lavori" e gli uomini di cultura, chi conosceva il
prof. de Finetti? Oggi, negli Stati Uniti d’America, è corrente l’uso
del termine "de Finetti type probability" per indicare la sua
teoria soggettivista sulla probabilità, che sta sempre più trionfando
nel mondo della scienza. A diversi anni dalla sua morte, oggi lo
consideriamo "un grande italiano" e a lui dedichiamo una strada
di un nuovo quartiere romano.
Non sarebbe giovato a tutti, sul piano
psicologico, anche ai non matematici e ai non studiosi, sapere che era
vivente in Italia un "grande italiano"?
È possibile che gli unici idoli della
nostra età debbano essere cantanti (di musica leggera!) e calciatori? E
non vale l’osservazione che il popolo non è sufficientemente
acculturato, per apprezzare persone di alto livello culturale. Il teatro,
melodrammatico e di prosa, un tempo era frequentato dal popolo e non
soltanto da una "elite della finanza", come oggi! Shakespeare
era amato e idolatrato dal popolo. Nell’Ottocento il melodramma era ciò
che oggi è la musica leggera. Oggi, soltanto una persona ritenuta
"raffinata" conosce l’opera lirica, mentre allora il popolo
canticchiava la musica di Verdi o di Rossini. Non sarebbe l’ora di
sfruttare i "mass media" attuali per riportare la cultura al
popolo e il popolo alla cultura? Non ci meravigliamo dei delitti efferati
che sempre più frequentemente turbano le nostre cronache, della droga che
devasta le menti e le membra dei giovani, della violenza e noncuranza di
molti giovani. Sono il frutto dell’aver bandito dai nostri cuori e dalle
nostre menti qualsiasi ideale di bellezza interiore, di grandezza, di
spiritualità. Non ci vergogniamo di pensare che possano esistere anche
oggi "grandi uomini" e non priviamoci della gioia di lodare
virtù e conoscenza. Raccontiamo ai nostri bimbi le favole della vita dei
grandi uomini e sottraiamoli al nefasto influsso dei cartoni animati
giapponesi, colmi di violenza e cattiveria e privi di quella poesia che li
potrà rendere buoni e grandi quando saranno uomini. |