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Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002

 CURIOSITÀ DI OGGI E DI IERI - pag. 22
Il Divo defunto
Adriano (Museo di Parma)(Luca Nicotra) - Giulio Cesare fu non solo il primo imperatore romano, ma anche il primo ad essere divinizzato già in vita, dopo la sua vittoria su Pompeo, e così divenne il divo Julius. Da allora, tale pratica fu adottata o proposta per quasi tutti gli imperatori, alcuni dei quali furono divinizzati in vita e altri dopo la morte.

Traiano in vita rifiutò per sé la divinizzazione, ma la volle per la sorella Marciana alla di lei morte, evidentemente come suo estremo segno d’amore. Traiano fu poi divinizzato dal suo successore Adriano, il quale anch’egli dapprima rifiutò, ma poi accettò, la divinizzazione, che, di fatto, già era avvenuta per opera del popolo in Grecia e in Egitto. E così ad Alessandria, nel Serapeo, Adriano innalzò una cappella alla propria divinità, e tanto restio fu ad accettare la sua divinizzazione, quanto sollecito a promuovere quella dell’amato Antinoo, annegato nel Nilo. Il successore di Adriano, T. Elio Antonino, al contrario, senza mezzi termini reclamò per sé l’onore degli altari e così divenne Antonino Augusto Pio. Il grande Marco Aurelio, interpretandone il desiderio, non esitò anch’egli a divinizzare un suo caro, il fratello Lucio Vero, subito dopo la morte. E così si potrebbe andare avanti a lungo, peregrinando nella memoria dei nostri antichi cesari.
Noi italiani, che vantiamo una discendenza diretta dai dominatori per eccellenza del Mondo Antico, abbiamo ereditato in forma cristianizzata molti degli usi e costumi dei nostri illustri progenitori, più di quanto noi stessi riusciamo a rendercene conto.
È certamente in tale ottica che deve essere interpretato quel costume tutto italico di aspettare la morte di qualcuno, per dirne tutto il bene possibile, anzi addirittura spesso per esaltarne doti eccezionali e rare, che avrebbero dovuto imporlo all’attenzione di tutti già in vita. Evidentemente, il costume di "divinizzare" chi è passato nel mondo dei più, per effetto del Cristianesimo, si è in qualche modo allargato dall’elitaria schiera dei principi dell’Impero ai comuni mortali, che tuttavia abbiano effettivamente svolto ruoli e attività di un certo pregio e d’interesse pubblico. Così, mentre gli antichi Romani non esitavano a divinizzare già in vita i loro benemeriti, noi, da bravi cristiani, dobbiamo attendere la morte del candidato alla divinizzazione, per avere anche noi il nostro "divo defunto". Ormai, i canoni per tale sorta di moderna divinizzazione più democratica sono abbastanza noti a tutti e ciò che si dirà di una persona dopo la sua morte è oggi sufficientemente prevedibile e scontato. Una volta morto, il "divo defunto" diventa improvvisamente, agli occhi di tutti, un raro esemplare di virtù morali, di dedizione al lavoro, alla famiglia, alla comunità, un caso eccezionale di alta professionalità. Se prima nessuno, o quasi, sospettava che nella nostra deludente epoca potessero esserci ancora uomini eccezionali e di genio, ecco qua il "divo defunto" a smentire imperiosamente ogni nostra ingiustificata mancanza di fede. Se poi il defunto non è stato colto da morte naturale, bensì è stato strappato improvvisamente e violentemente dal seno della comunità, la sua ascesa agli altari assume tinte più forti.
Le cronache di questi ultimi giorni, con la morte del prof. Marco Biagi, hanno tristemente riproposto, purtroppo, il calvario della "divinizzazione post mortem" di virtù e meriti di una persona violentemente e ingiustamente strappata alla vita, che sarebbe stato più giusto e utile conoscere pubblicamente prima, togliendo il monopolio della loro conoscenza alla ristretta cerchia di amici e collaboratori.
Ma, è mai possibile che durante la vita non si possano riconoscere tutte quelle virtù che invece, subito dopo la morte, sprizzano fuori generose e numerose? Non è un po’ ridicolo e poco utile scoprire quasi sempre dopo la morte qualità e meriti di una persona, che, se note e pubblicizzate in vita, avrebbero sicuramente sortito benefici effetti sulla società e sulla stessa persona? Pensate che bello sarebbe sapere che adesso, mentre io scrivo, esistono in Italia tante persone di doti eccezionali, sapere che queste con le loro virtù possono recare grandi servigi alla comunità umana, e che in ogni caso possono riscattare l’umanità dalla tristezza della mediocrità e colmare il vuoto della mancanza di ideali e di valori morali e culturali! Ma come ci sentiremmo meno derelitti, più stimolati a fare anche noi "meglio" qualunque cosa! Quanto meno sole si sentirebbero quelle persone che, credendosi speciali, mortificano tuttavia la loro eccellenza con la trascuratezza delle proprie capacità dovuta alla consapevolezza di essere sole e non considerate. Quanto più alto sarebbe il morale di tutti, sapendo che esistono molte persone eccellenti e che tale loro eccellenza è pubblicamente riconosciuta e onorata. Quanta emulazione deriverebbe in molti altri da questo pubblico sentimento. Quanta più fiducia nella vita deriverebbe a tutti dal riconoscimento generale delle doti e capacità delle persone eccezionali che esistono fra noi. Purtroppo, invece, in vita si tende, al contrario, a minimizzare le qualità di queste persone, un po’ per l’invidia di taluni e un po’ per quella radicata nostra "forma mentis" dell’archeofilismo, per dirla con Cesare Lombroso, e del culto dei morti, per cui la dignità e il valore di qualunque cosa sono figli del tempo e soltanto la vetustà e ancor meglio il trapasso all’altra vita può dare il visto alla grandezza di un uomo.
Massimo Piattelli Palmarini, nel suo libro "Scienza come Cultura", annovera Bruno de Finetti fra i pensatori del Novecento, dicendo di lui: "Viveva fra noi, ma poco ce ne curavamo". Questa frase dice tutta la nostra disattenzione per i vivi, anche se sono grandi uomini. Non si allude qui al caso del genio incompreso in vita e riconosciuto come tale soltanto dopo la morte, perché le sue idee erano troppo innovative o rivoluzionarie per essere comprese nel periodo storico in cui visse. Mi riferisco al caso di persone i cui meriti sono stati riconosciuti già in vita, ma sono enormemente amplificati e pubblicizzati soltanto dopo la morte. Bruno de Finetti è stato uno dei maggiori matematici italiani del secolo appena trascorso, ed era ben noto, stimato e riconosciuto negli ambienti universitari e culturali, nazionali e internazionali. Già da giovane, poco più che laureato, è citato da grandi scienziati e colossi del pensiero scientifico del Novecento, quali Rudolf Carnap, Ernst Nagel, Hans Reichenbach, Karl Popper, Erst Von Mises. Tuttavia, a parte gli "addetti ai lavori" e gli uomini di cultura, chi conosceva il prof. de Finetti? Oggi, negli Stati Uniti d’America, è corrente l’uso del termine "de Finetti type probability" per indicare la sua teoria soggettivista sulla probabilità, che sta sempre più trionfando nel mondo della scienza. A diversi anni dalla sua morte, oggi lo consideriamo "un grande italiano" e a lui dedichiamo una strada di un nuovo quartiere romano.
Non sarebbe giovato a tutti, sul piano psicologico, anche ai non matematici e ai non studiosi, sapere che era vivente in Italia un "grande italiano"?
È possibile che gli unici idoli della nostra età debbano essere cantanti (di musica leggera!) e calciatori? E non vale l’osservazione che il popolo non è sufficientemente acculturato, per apprezzare persone di alto livello culturale. Il teatro, melodrammatico e di prosa, un tempo era frequentato dal popolo e non soltanto da una "elite della finanza", come oggi! Shakespeare era amato e idolatrato dal popolo. Nell’Ottocento il melodramma era ciò che oggi è la musica leggera. Oggi, soltanto una persona ritenuta "raffinata" conosce l’opera lirica, mentre allora il popolo canticchiava la musica di Verdi o di Rossini. Non sarebbe l’ora di sfruttare i "mass media" attuali per riportare la cultura al popolo e il popolo alla cultura? Non ci meravigliamo dei delitti efferati che sempre più frequentemente turbano le nostre cronache, della droga che devasta le menti e le membra dei giovani, della violenza e noncuranza di molti giovani. Sono il frutto dell’aver bandito dai nostri cuori e dalle nostre menti qualsiasi ideale di bellezza interiore, di grandezza, di spiritualità. Non ci vergogniamo di pensare che possano esistere anche oggi "grandi uomini" e non priviamoci della gioia di lodare virtù e conoscenza. Raccontiamo ai nostri bimbi le favole della vita dei grandi uomini e sottraiamoli al nefasto influsso dei cartoni animati giapponesi, colmi di violenza e cattiveria e privi di quella poesia che li potrà rendere buoni e grandi quando saranno uomini.
 CURIOSITÀ DI OGGI E DI IERI - pag. 22

Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002