I volti della religiosità
della pittura di Paul Gaugin
(Luca
Ceccarelli) - Paul Gaugin non amava Parigi. Visse sempre
malvolentieri in questa città, per quel poco che vi visse, e diede il
meglio di sé come pittore e scultore in due posti completamente diversi
dalla grandi metropoli: quello bretone, e quello polinesiano. Il primo, in
cui soggiornò, a più riprese, negli ultimi anni dell’Ottocento, era
ancora un mondo contadino caratterizzato da una religiosità e da
tradizioni popolari antichissime, affascinanti nella loro passionalità.
Il secondo, più mite, dolce pur nella sua sensualità, evocava quasi l’Età
dell’Oro dei nostri antenati. In un’epoca in cui l’Impressionismo
pittorico giungeva ai suoi più estremi sviluppi, Gaugin viene ricondotto
all’area pittorica del simbolismo.
È senza dubbio vero che in un artista
come Gaugin non vi è già più la spinta verso la rappresentazione della
natura, sia pure filtrata attraverso la percezione dell’individuo, come
nell’Impressionismo. Semmai, nella sua poetica c’è un recupero della
dimensione di artificio che è connaturata alla pittura, e che nella
sperimentazione degli artisti del tardo impressionismo tendeva a
sbiadirsi. Ma questo recupero della consapevolezza del carattere
"artificiale" di un’opera d’arte non si limita in Gaugin a
produzioni gradevoli e decorative, ed è invece indissolubilmente connessa
con l’anelito dell’artista ad un’arte che, pur avendo al proprio
centro la dimensione umana, non la disgiunge mai dalla Natura e dal Sacro.
Anche
la pittura di Vincent Van Gogh, per un buon periodo sodale di Gaugin, è
caratterizzata da un forte sentimento religioso, da una forte spinta verso
il sacro. Ma con un’accentuazione diversa. In Van Gogh, olandese e
protestante, di profonda e consapevole religiosità, l’apparizione del
divino è nella contemplazione delle piccole cose e nei paesaggi naturali.
Gaugin invece, cattolico per formazione e vissuto a lungo durante l’infanzia
in America del Sud, avverte più fortemente la spinta ad un’oggettivizzazione
in cristallizazioni simboliche e mitiche.
La Bretagna, dicevamo. Terra che non
sembra interessare a Gaugin per aver dato il nome al più importante ciclo
epico del Medio Evo, in cui eroismo, amore e sacro si intrecciano come non
mai, ma come mondo
contadino
premoderno, in cui la percezione del sacro è ancora molto potente nell’anima
popolare. Ne è prova un quadro come La visione dopo il sermone,
del 1888, in cui sono raffigurati gli effetti, su un uditorio composto per
lo più di donne in costume tradizionale, di una predicazione popolare
sulla lotta tra Giacobbe e l’angelo. Si tratta di un episodio del Genesi
che mostra l’audacia e il destino eroico di questo personaggio biblico,
ascoltando il quale le donne devote provano una profonda emozione. Questa
opera pittorica deve essere messa in relazione con un altro capolavoro
bretone: La danza delle quattro bretoni, del 1886.
Non siamo ancora alla grandezza delle
raffigurazioni pittoriche di ambientazione polinesiana: a Tahiti, dove si
trasferì più tardi e, salvo una breve parentesi, passò il resto della
sua tormentata vita, il pennello di Gaugin diede corpo in forma mitica ai
grandi problemi della vita e della morte (come mostra emblematicamente un
quadro come Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, dipinto tra
il 1897 e il ’98, in cui le divinità sono a contatto con gli uomini e
le donne nelle più varie condizioni, in una sorta di "bosco
sacro"). Niente di più lontano dalla concezione del mondo e dalla
produzione artistica di ambientazione polinesiana di Gaugin del "mito
del buon selvaggio": anche negli uomini e le donne
"arcaici" di Tahiti è ben presente il volto oscuro del vivere,
come mostra la tela che abbiamo indicato, e altre come Lo spirito dei
morti veglia, del 1892, e Nevermore, del 1897, che si ispira al
cupo testo lirico di Edgar Allan Poe tradotto in francese da Stephane
Mallarmé, uno dei più ferventi ammiratori di Gaugin).
Tutti
esempi di alta meditazione che vanno affiancati ad un’alta capacità di
simbolizzare il proprio dolore in una dimensione religiosa che lo purifica
dei suoi aspetti più grezzi. Pur avendo un rapporto con la religione
sofferto e una fede tutt’altro che scontata, Gaugin aveva dipinto
durante un soggiorno bretone Il Cristo giallo, Crocifisso che nella
sua ieraticità rievoca i più antichi dipinti bizantini sul tema, e negli
anni più avanzati della sua vita, gravemente malato e costretto a
ripetuti ricoveri, rappresentò sé stesso stanco e logorato, in camicia
da notte, nell’Autoritratto presso il Golgota, con cui la
passione di Gesù Cristo diventa la propria passione di povero Cristo che
ha il coraggio di mettersi a nudo per come è. |