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Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002

 ARTE - pag. 25
I volti della religiosità della pittura di Paul Gaugin
(Luca Ceccarelli) - Paul Gaugin non amava Parigi. Visse sempre malvolentieri in questa città, per quel poco che vi visse, e diede il meglio di sé come pittore e scultore in due posti completamente diversi dalla grandi metropoli: quello bretone, e quello polinesiano. Il primo, in cui soggiornò, a più riprese, negli ultimi anni dell’Ottocento, era ancora un mondo contadino caratterizzato da una religiosità e da tradizioni popolari antichissime, affascinanti nella loro passionalità. Il secondo, più mite, dolce pur nella sua sensualità, evocava quasi l’Età dell’Oro dei nostri antenati. In un’epoca in cui l’Impressionismo pittorico giungeva ai suoi più estremi sviluppi, Gaugin viene ricondotto all’area pittorica del simbolismo.

È senza dubbio vero che in un artista come Gaugin non vi è già più la spinta verso la rappresentazione della natura, sia pure filtrata attraverso la percezione dell’individuo, come nell’Impressionismo. Semmai, nella sua poetica c’è un recupero della dimensione di artificio che è connaturata alla pittura, e che nella sperimentazione degli artisti del tardo impressionismo tendeva a sbiadirsi. Ma questo recupero della consapevolezza del carattere "artificiale" di un’opera d’arte non si limita in Gaugin a produzioni gradevoli e decorative, ed è invece indissolubilmente connessa con l’anelito dell’artista ad un’arte che, pur avendo al proprio centro la dimensione umana, non la disgiunge mai dalla Natura e dal Sacro.
Anche la pittura di Vincent Van Gogh, per un buon periodo sodale di Gaugin, è caratterizzata da un forte sentimento religioso, da una forte spinta verso il sacro. Ma con un’accentuazione diversa. In Van Gogh, olandese e protestante, di profonda e consapevole religiosità, l’apparizione del divino è nella contemplazione delle piccole cose e nei paesaggi naturali. Gaugin invece, cattolico per formazione e vissuto a lungo durante l’infanzia in America del Sud, avverte più fortemente la spinta ad un’oggettivizzazione in cristallizazioni simboliche e mitiche.
La Bretagna, dicevamo. Terra che non sembra interessare a Gaugin per aver dato il nome al più importante ciclo epico del Medio Evo, in cui eroismo, amore e sacro si intrecciano come non mai, ma come mondo contadino premoderno, in cui la percezione del sacro è ancora molto potente nell’anima popolare. Ne è prova un quadro come La visione dopo il sermone, del 1888, in cui sono raffigurati gli effetti, su un uditorio composto per lo più di donne in costume tradizionale, di una predicazione popolare sulla lotta tra Giacobbe e l’angelo. Si tratta di un episodio del Genesi che mostra l’audacia e il destino eroico di questo personaggio biblico, ascoltando il quale le donne devote provano una profonda emozione. Questa opera pittorica deve essere messa in relazione con un altro capolavoro bretone: La danza delle quattro bretoni, del 1886.
Non siamo ancora alla grandezza delle raffigurazioni pittoriche di ambientazione polinesiana: a Tahiti, dove si trasferì più tardi e, salvo una breve parentesi, passò il resto della sua tormentata vita, il pennello di Gaugin diede corpo in forma mitica ai grandi problemi della vita e della morte (come mostra emblematicamente un quadro come Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, dipinto tra il 1897 e il ’98, in cui le divinità sono a contatto con gli uomini e le donne nelle più varie condizioni, in una sorta di "bosco sacro"). Niente di più lontano dalla concezione del mondo e dalla produzione artistica di ambientazione polinesiana di Gaugin del "mito del buon selvaggio": anche negli uomini e le donne "arcaici" di Tahiti è ben presente il volto oscuro del vivere, come mostra la tela che abbiamo indicato, e altre come Lo spirito dei morti veglia, del 1892, e Nevermore, del 1897, che si ispira al cupo testo lirico di Edgar Allan Poe tradotto in francese da Stephane Mallarmé, uno dei più ferventi ammiratori di Gaugin). Tutti esempi di alta meditazione che vanno affiancati ad un’alta capacità di simbolizzare il proprio dolore in una dimensione religiosa che lo purifica dei suoi aspetti più grezzi. Pur avendo un rapporto con la religione sofferto e una fede tutt’altro che scontata, Gaugin aveva dipinto durante un soggiorno bretone Il Cristo giallo, Crocifisso che nella sua ieraticità rievoca i più antichi dipinti bizantini sul tema, e negli anni più avanzati della sua vita, gravemente malato e costretto a ripetuti ricoveri, rappresentò sé stesso stanco e logorato, in camicia da notte, nell’Autoritratto presso il Golgota, con cui la passione di Gesù Cristo diventa la propria passione di povero Cristo che ha il coraggio di mettersi a nudo per come è.
 ARTE - pag. 25

Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002