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Sommario anno XI numero 10 - ottobre 2002

ENRICO FERMI E LA PILA  ATOMICA - pag. 23
12 - Brevi soggiorni in Italia e le nuove macchine acceleratrici


Siamo arrivati alla dodicesima parte di questa rubrica curata da Nicola Pacilio e dedicata ad Enrico Fermi e la Pila Atomica. In coincidenza con il centenario della nascita del fisico italiano (29 settembre 2001), la rubrica sta impegnando l’autore e Controluce, da ottobre 2001,  via via per un intero anno fino al 2 dicembre 2002 quando sarà commemorato il 60mo anniversario del primo esperimento, con la pila atomica, della produzione di energia nucleare. Nicola Pacilio si occupa di Storia e Filosofia della Scienza ed è libero docente in fisica del reattore nucleare in Italia (Roma) e negli Stati Uniti (Università di California - Berkeley).

Fermi al quadro di controllo del ciclotrone di ChicagoLa ricerca scientifica tenta di liberarsi dai vincoli militari. Il 1° settembre 1945, ai tavoli di una colazione ufficiale in uno dei grandi alberghi di Chicago, i maggiorenti dell’università di quella città annunciarono pubblicamente la formazione dei nuovi tre istituti. In quella occasione, Sam Allison fece un discorso, a dir poco sorprendente, in cui attaccava la segretezza che affliggeva buona parte della scienza e sosteneva la necessità a un libero scambio di informazioni scientifiche. Se questo fosse stato vietato da regolamenti militari, egli disse, i ricercatori scientifici americani avrebbero abbandonato il campo dell’energia atomica e si sarebbe messi a studiare “i colori delle ali delle farfalle”. A ciò Fermi aggiunse: “Non è che non si voglia lavorare per il governo, ma piuttosto che non si può lavorare per il governo. Se la ricerca non torna ad essere libera ed esente da controlli estranei, gli USA avrebbero in breve tempo perduto la loro leadership mondiale nel campo della scienza”. Queste affermazioni ed altre simili pronunciate da scienziati universalmente rispettati come Allison, ben noto per la sua calma e moderazione, e Fermi, una celebrità piuttosto taciturna e conservatrice, fecero una profonda impressione ai giornalisti che si affrettarono a stampare ciò che avevano udito. Il tutto provocò una profonda reazione di tutto l’apparato militare che rispose vivacemente per bocca del generale Leslie Groves, capo supremo del Progetto Manhattan e del centro di Los Alamos. Questi cercò in primo luogo di ostacolare altri discorsi “politici” da parte degli scienziati: fece sapere che il Congresso stava per varare una legge che avrebbe regolamentato l’energia atomica e che l’eccessivo parlarne a ruota libera avrebbe nociuto al corretto decorso degli eventi. Il disegno di legge era stato infatti varato con la stretta collaborazione dei militari e senza che gli scienziati ne conoscessero i dettagli. Questa circostanza apparve subito molto sospetta: ne nacque una forte opposizione e una fiera lotta che durò non poco, sia dietro le quinte sia in seno al Congresso. (Emilio Segre, Enrico Fermi: fisico, Zanichelli 1987)
Brevi ritorni in Italia. Dopo un primo viaggio per partecipare al Congresso Internazionale sulla Radiazione Cosmica, tenuto a Como nell’estate del 1949, Fermi torna in Italia nell’estate del 1954 per tenere un corso, indimenticabile per il contenuto fisico e la semplicità formale, sulla fisica dei pioni alla scuola estiva di Varenna. Tuttavia la salute è già minata. Rientrato a Chicago, viene sottoposto a una operazione chirurgica esplorativa che permette di individuare ormai troppo tardi il male che lo consuma da tempo. Anche in queste circostanze, a lui completamente note, conserva la calma e la serenità di sempre fino al momento della morte, nell’abitazione presso l’Università di Chicago, il 29 novembre 1954. Non ha molto scopo, e anche ben poco senso, cercare di esprimere un giudizio sull’opera di Enrico Fermi e sulla sua figura di scienziato e di uomo. Le sue note e memorie originali sono state raccolte in due volumi di oltre 2000 pagine, che costituiscono il suo più valido monumento. Esse riguardano argomenti dei più diversi, dalla termodinamica all’astrofisica, dalla elettrodinamica alla fisica atomica, dalla fisica molecolare alla fisica nucleare e le sue applicazioni, dallo stato solido alla fisica delle particelle elementari. In tutti questi campi, Fermi ha apportato contributi essenziali, tavolta teorici, altre volte sperimentali e pratici: sempre con acuto spirito di naturalista aderente e interessato soltanto ai fatti e ai fenomeni del nostro globo. Con una sicurezza matematica, una inventiva da sperimentatore e una solidità da ingegnere come nessun altro scienziato del nostro secolo. Vissuto in un periodo di eventi drammatici, è stato condotto dal suo stesso lavoro ad avere in essi una parte di primo piano. Tuttavia, l’aspetto più importante della sua vita è stato quello della scoperta scientifica. Le sue qualità di maestro, la sua semplicità nei rapporti umani, il suo spiccatissimo senso del dovere, accompagnato da un entusiasmo eccezionale per lo studio della natura, il suo equilibrio e la sua energia quasi sovrumana hanno costituito aspetti della sua figura più difficili da trasmettere e fare ricordare dei suoi risultati scientifici, ma, sotto molti aspetti, di importanza non inferiore. (Edoardo Amaldi, Scienziati e tecnologi contemporanei, Mondadori 1974)
Nuovo giocattolo: il Ciclotrone di Chicago.”I ciclotroni, come le Piramidi d’Egitto, passeranno alla storia quali monumenti non utilitari” mi disse Enrico. Erano trascorsi quasi nove anni dal giorno in cui i fisici avevano messo in opera la prima pila atomica sotto la gradinata occidentale dello stadio universitario. Un gruppo di edifici modernissimi dalle linee semplici ed eleganti era sorto di fronte al finto castello medievale, in gran contrasto con la sua facciata pretenziosa e mal ridotta: gli Istituti per la Ricerca Fondamentale, alti e imponenti, e accanto l’Edificio degli Acceleratori, basso e allungato.
Era l’estate del 1951. Il ciclotrone dell’Università di Chicago, iniziato quattro anni prima, aveva appena cominciato a funzionare nell’Edificio degli Acceleratori. Enrico, felice ed eccitato, sembrava un bambino che avesse ricevuto un giocattolo sognato da tempo e superiore a ogni aspettativa: voleva giocarci a ogni ora del giorno e della notte, venendo meno perfino alle sue abitudini e all’usuale metodicità.
«Ciclotroni e piramidi! - esclamai. - Un paragone strano! Che cosa hanno in comune?»
«Sono entrambi vittorie tangibili dell’uomo sulla materia bruta: entrambi costruiti senza pensare a eventuali guadagni».
Il “tram” di FermiAveva ragione. Le piramidi avevano per unico scopo di solleticare la vanità regale durante la vita dei re e di proteggerne i regali corpi dopo la morte. I ciclotroni potranno tutt’al più far avanzare l’uomo di un breve passo lungo il cammino della conoscenza. Ciclotroni e piramidi sono davvero monumenti non utilitari.
Centomila schiavi lavorarono alla grande Piramide di Cheope. Con funi legate attorno alle spalle nude trascinarono massi di pietra, che pesavano fin due tonnellate e mezzo ciascuno, su rulli e slitte dalle cave delle vicine montagne.
La costruzione di ciclotroni giganti cinquemila anni dopo, nell’età delle macchine, non fu impresa altrettanto drammatica, ma fu pur sempre opera di grande ingegnosità tecnica. Non si trovavano ciclotroni bell’e fatti nei negozi, e anche da questo punto di vista i ciclotroni sono simili alle piramidi.
Il primo ciclotrone gigante fu eretto da Ernest Lawrence, il padre di tutti i ciclotroni, su di una collina nei dintorni di Berkeley. Lawrence aveva scelto un luogo fuori dell’abitato per via delle radiazioni letali che emette un ciclotrone quando lo si fa funzionare.
Anche altre Università progettarono ciclotroni a una certa distanza dagli edifici universitari. Ma i fisici di Chicago erano pigri; volevano avere il loro ciclotrone a portata di mano, sul luogo stesso dove tenevano i corsi di lezioni e dove avevano i laboratori. Secondo loro si poteva provvedere ugualmente a proteggere dalle radiazioni sia sperimentatori sia abitanti del vicinato: bastava fabbricare il ciclotrone in una fossa profonda, ben al disotto del livello stradale, e il grosso delle radiazioni sarebbe stato assorbito dal terreno. Per maggior precauzione si poteva poi rinchiuderlo tutto in uno schermo protettivo di cemento spessissimo, una specie di enorme cassone.
Nel costruire l’Edificio degli Acceleratori gli architetti tennero conto di questo progetto dei fisici, Lasciarono posto per altre macchine acceleratrici e scavarono in profondità la fossa del ciclotrone. Nell’edificio fu montata poi una gru colossale, capace di sollevare pesi perfino di una tonnellata l’uno. Scorreva in una sua sede speciale che permetteva di portarla dove si presentasse il bisogno.
In un primo tempo i fisici di Chicago sperarono di poter ordinare un ciclotrone su misura, a una delle grosse industrie. Ma scienziati e industriali non riuscirono a mettersi d’accordo: il prezzo richiesto parve eccessivo; le trattative andavano per le lunghe e intanto il tempo passava. Herbert Anderson, che è d’indole impulsiva, cominciava a spazientirsi: l’azione, diceva, deve seguire prontamente le idee. Decise quindi di costruire lui stesso il ciclotrone. Tanto, di ciclotroni gli industriali non ne sapevano nulla, e a lui sarebbe toccato in ogni modo di far tutti i calcoli e sorvegliare la costruzione. Si mise all’opera, aiutato da un altro fisico, John Marshall.
La Marina degli Stati Uniti contribuì generosamente al finanziamento dell’impresa, e i cittadini di Chicago parteciparono anch’essi alla spesa. Il ciclotrone venne a costare in tutto due milioni e mezzo di dollari, poco più della somma spesa per dar da mangiare agli schiavi che fecero la piramide di Cheope.
Un ciclotrone è costituito essenzialmente di due parti: un enorme magnete, e una scatola metallica. La scatola metallica del ciclotrone di Chicago è così grande che vi si potrebbero riporre trecento bushels di grano (circa otto tonnellate e mezzo); ma è tutto spazio sprecato e nella scatola non c’è mai nulla, nemmeno l’aria: nove grosse pompe pneumatiche provvedono a farvi il vuoto. Le particelle da accelerare vengono lanciate dentro la scatola. Il magnete incurva il loro cammino, impedendo loro di uscirne, e intanto una radio-frequenza le accelera. Esse sono dunque costrette ad andar giro giro dentro la scatola, sempre pii in fretta, finché non hanno raggiunto la velocità desiderata.
Il magnete del ciclotrone di Chicago consiste di un nucleo di acciaio attorno al quale sono disposti avvolgimenti di rame: quando la corrente elettrica circola negli avvolgimenti, l’acciaio si magnetizza. Questo magnete pesa circa duemila tonnellate; quasi quaranta volte più di quello del ciclotrone costruito e usato da Lawrence prima della guerra. (Laura Fermi, Atomi in famiglia, Mondadori 1954)
ENRICO FERMI E LA PILA  ATOMICA - pag. 23

Sommario anno XI numero 10 - ottobre 2002