Il
romanzo di una voce. Mostra su Claudio Villa
(Luca Ceccarelli) - Alla
fine del film di Federico Fellini Roma, del 1972, un nugolo di
motociclisti percorre rombando le strade di Roma,
simbolo
dell’esaltazione della tecnica e della cancellazione violenta
dell’antico. Sarà forse anche per il sentimento di questi mutamenti che
Claudio Villa decise di lasciare Roma e trasferirsi a Rocca di Papa? Nel
Museo di Roma in Trastevere, si tiene un’esposizione su Claudio
Villa. Il romanzo di una voce, che andrà avanti fino al 9 febbraio.
Si legge la storia della sua vita (cominciata proprio in questo rione), si
vedono le foto che lo ritraggono, si ascoltano le canzoni che lui ha
lanciato. Si leggono le pagine di giornale che raccontano episodi salienti
della sua carriera e della sua vita (Una vita stupenda, come recita
il titolo che volle per la sua autobiografia), e la sua morte. Per chi lo
ha conosciuto, a vario titolo, Claudio Villa ha rappresentato un pezzo di
storia della cultura italiana. Più di ogni altro ha diffuso i ritmi e le
melodie del canto lirico in forma volgarizzata. In un certo senso,
ascoltando le canzoni da lui eseguite, sia quelle romanesche (tra cui Barcarolo
romano, Quanto sei bella Roma, Com’è bello fa’
l’amore quand’è sera) che quelle in italiano (ricordiamo tra le
altre Serenata celeste, Buongiorno tristezza, Corde della
mia chitarra) si comprende che non era del tutto peregrina la sua
convinzione di rappresentare “la vera canzone italiana”. Era vero
anche se, com’è stato scritto da qualcuno in un pezzo di tanti anni fa,
usava “le ugole come cazzotti”. In realtà, se si ascolta il Claudio
Villa più giovane (che in realtà si chiamava Claudio Pica) ci si accorge
che la sua voce era su toni molto bassi, quasi una voce bianca. Ciò era
dovuto ad una tubercolosi polmonare di cui si ammalò da bambino, e che lo
tormentò per un lungo periodo della vita, costringendolo, tra l’altro,
a rinunciare agli spettacoli nel teatro di rivista. Non stupisce che negli
anni Sessanta Pier Paolo Pasolini espresse, in una sede per lui insolita
come il settimanale Sorrisi e canzoni, un elogio del “reuccio”.
Proprio lui, l’artista e pubblicista impegnato e di sinistra, amante del
popolo, comprese molto bene che le canzoni di Claudio Villa erano
espressione di una cultura, nel senso migliore, “nazional-popolare”,
dietro la quale non vi era che l’americanismo di maniera degli
“urlatori”, e i seguaci delle varie volgarizzazioni (di solito, poco
felici) del Pop, del Rock e del Jazz, fino ai cantautori degli anni
Settanta. D’altra parte, non va dimenticato che per molto tempo il
cantante militò nel Pci, e cantò gratis a innumerevoli feste dell’Unità,
e anche dopo essere uscito dal partito rimase sempre di idee ferreamente
atee e anticlericali. L’epitaffio irridente che ha voluto sulla sua
tomba recita “Vita, sei bella, morte, fai schifo!”. Una gioiosa
spavalderia che solo da un popolano romano ci si può aspettare.
Un’istantanea dell’esposizione che colpisce è la fotografia di
Claudio Villa insieme ad un Renato Zero ancora agli esordi. Due personaggi
che a prima vista non si potevano immaginare più diversi, Villa, con la
sua larga faccia popolana, e il Renato Zero degli anni Settanta, tutto
parrucche e rimmel, imitatore di David Bowie. Eppure, Renato Zero scrisse,
insieme a Roberto Conrado, una canzone per Claudio Villa: Buon
compleanno. E la scrisse proprio in quello sciagurato 1982 in cui
Villa venne escluso in modo dubbio dal Festival di Sanremo (nulla poté,
in quel caso, la sua verve polemica e combattiva contro il cinismo da
sfinge di certi impresari). Successivamente i due cantanti hanno eseguito
insieme il brano insieme, e Zero lo ha inserito in una sua raccolta del
1991 dedicandolo “a Claudio Villa, Patrizia, Andrea Celeste, Aurora [la
giovane moglie e le figlie del cantante, N.d.a.] e a tutti quelli
che non avranno dimenticato la schiettezza”. I due artisti,
profondamente popolari e popolani, nei pregi e nei limiti, evidentemente
si erano compresi l’un l’altro. |