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Sommario anno XII numero 3 - marzo 2003

INVITO ALLA LETTURA
“sei mejo tu” di Paolo Cappai - ed. “il calamaio”
(Armando Guidoni) - Poesia: “arte dell’esprimere sentimenti, del rappresentare fatti e cose con immagini e linguaggio non propri della comune prosa”.
A questa cruda definizione della parola “poesia” riportata in un vocabolario aggiungerei una riflessione. Quando un individuo scrive una poesia, si spoglia delle proprie “rappresentazioni esteriori” e fa emergere, spontaneamente, da dentro, senza filtri, ciò che effettivamente e realmente “sente”. Anche colui che legge una poesia, spontaneamente, si spoglia delle proprie barriere e filtri e si “fa penetrare” da quelle sensazioni, da quella capacità intrinseca che la poesia ha di “suscitare emozioni” anche in chi “ascolta”.
Nella maggior parte degli altri casi legati ai rapporti fra gli uomini questa “capacità di contatto” si infrange contro mille e mille barriere invisibili che ognuno di noi (dall’una e dall’altra parte) inconsapevolmente frappone all’interno del processo comunicativo.
“Notizie in... Controluce” ha voluto mantenere, fin dalle prime pubblicazioni, una pagina riservata alla poesia. Ed è proprio ospitando in questa pagina alcune poesie di Paolo Cappai che ho avuto occasione, nel passato, di apprezzare le sue capacità di “porgere” agli altri la propria intimità attraverso queste opere intense e ricche di emozioni. Questa raccolta di poesie in vernacolo, presente da alcuni mesi nelle librerie, rappresenta l’esordio poetico di Paolo. È un esempio di navigazione critica del mondo in cui siamo immersi, conformista e schiavo delle opinioni altrui, protagonista della crescita culturale di tutti noi.
Dall’impianto della raccolta si legge una realizzabile possibilità di riscatto da una vita grigia. Si ha come l’impressione che Paolo sia “nato” due volte.
Nella prima parte è evidenziata una visione amara della vita. In particolare, si nota la grande “sofferenza” data dalla differenza fra come l’autore “vede” sé stesso (la propria maschera) e come egli “crede” che sia visto dagli altri. È la tragedia dell’uomo che, quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non è la stessa cosa, non essendo riconosciuto dagli altri per ciò che egli “sente” di essere, si crede isolato. E Paolo è costretto a rifugiarsi nel “piacere dell’eros” perché solo in quei momenti di “intenso contatto corporeo” egli surroga il “contatto spirituale”.
Ma ‘n giorno t’accorgerai de me / Che te parlo ar core senza ditte le bucie / perché per quanto bella e dorce sei / è a te che parlo….
Sembra quasi che sia bloccato nel circolo chiuso della propria coscienza, vincolato ad un istante del tempo infinito, ad una passione, ad uno dei mille e mille eventi esterni possibili, confinato in una solitudine dalla quale è impossibile uscire. Sembra quasi non abbia nessuna possibilità di instaurare rapporti diversi con gli altri personaggi delle sue poesie. Sembra quasi sia obbligato a recitare la sua parte indefinitamente. Sembra quasi rassegnato a questa recita perché solo così può sentirsi “personaggio vivo”.
Quanto sei bella amore / quanno che me guardi e me soridi / che me fai sentì così considerato…
Ma, improvvisamente, si manifesta la possibilità di scoprire che la solitudine non vuol dire annientamento di sé. Paolo scopre che, a volte, la solitudine è, invece, un’opportunità per far emergere il conflitto fra apparenza e realtà, fra interiorità e esteriorità: per “capire sé stessi”. Allora Paolo supera questo conflitto e inizia a denunciare una “speranza spirituale”:
…resta ner fonno ‘na speranza / ch’è più ‘mportante der gioco de li sensi / è la speranza d’accostà l’anima alla tua / pe’ ritrovacce silenziosamente / in uno spazio tutto nostro, fatto de confidenza…
E questa speranza invade il suo passato ed il suo futuro, gli consente di vedere in positivo le proprie azioni:
…succede ‘n fatto curioso / un meccanismo che nun me credevo che potesse da essece / scrivo quello che viene su ar momento / e l’ispirazione viene da li concetti scritti in precedenza / è ‘n filo conduttore tarmente debole…

…e nun fa er difficile a moré / che poi s’aggiusta tutto che manco te n’accorgi / lasciate servì da la vita / che scorre lenta e chiara…
A questo punto la maturazione interna lo porta a riconoscere negli altri gli atteggiamenti legati alla ricerca del loro sé nel “riflesso” proveniente dall’ambiente, lo porta a riconoscere, negli altri, quelli che erano in precedenza “i suoi atteggiamenti”:
a te che te senti viva / solo quanno che te senti ‘ntesa nell’occhi de ‘n antro / te vorrei dì / “ma come, nun te riesce de stattene tranquilla co’ te stessa / sempre hai da trovà quarcuno che te riconosce / e te carezza co’ lo sguardo e poi cor resto?”
Il pensiero finale contiene non la fine di un processo, ma l’inizio di un nuovo percorso sostenuto da una piattaforma culturale più ricca rispetto a quella iniziale
Ch’è ‘r piacere della conoscenza / Quello che in fin dei conti nun tradisce / E che di certo tu nun me pòi toie.
La realtà è rappresentata dalle innumerevoli illusioni degli innumerevoli uomini. Per ognuno di essi la realtà (l’illusione) non si identifica in nessuna delle forme che gli altri le hanno dato.
La realtà di questo istante è destinata a modificarsi nell’istante successivo.
INVITO ALLA LETTURA

Sommario anno XII numero 3 - marzo 2003