Cose
di questo mondo di Michael Winterbottom
(Roberto Esposti flann.obrien@email.it)
- Un
dirottamento semantico realizza Michael Winterbottom, considerando la Via
della Seta,
in
“Cose di questo mondo” (In this world), film da poco nelle nostre
sale. La Via della Seta era il percorso seguito dalle carovane di mercanti
che dall’Europa, passando attraverso Turchia, Persia ed Afghanistan
raggiungevano il Pamir dove scambiavano le loro merci con il prezioso
tessuto in un luogo chiamato Torre di Pietra, ove avvenivano le
contrattazioni. Nel 2002 la Via della Seta è percorsa al contrario, dal
Pakistan passando per Iran, Turchia, il Mar Adriatico fino ad arrivare a
Trieste e da lì poi fino al Campo profughi di Sangatte sulla Manica dove,
novella Torre di Pietra, mercanti di uomini (merce) scambiano denaro per
un passaggio verso l’Inghilterra (Occidente).
Questa è la Via che percorrono Jamal e Enayatullah, afgani, uomini che
valgono meno della secrezione di un insetto, poiché al contrario della
seta nessuno li vuole nella moderna Europa.
Peshawar, febbraio 2002, Jamal è un orfano afgano che vive nel campo
profughi pakistano di Shamshatoo, formicaio a cielo aperto riempito
all’inverosimile da povera gente scappata ai massacri russi ed americani
degli ultimi 24 anni. Ha un cugino più grande, Enayatullah, che vive in
città e vuole andare a Londra per crearsi un futuro, ma ha un problema:
non conosce l’inglese, carta che invece Jamal ha e che gioca per
accompagnare il cugino in questo viaggio clandestino, prodotto delle
aspettative e degli enormi sacrifici della famiglia di Enayatullah. I due
partono e l’addio non è straziante, del resto come potrebbe esserlo?
Attraversare la steppa pakistana non è un problema, l’assenza di strade
e la corruzione delle guardie dei check point sono cose ordinarie, come le
autostrade ed i caselli per noi, in Pakistan. Entrare in Iran è
un’altra cosa invece: le frontiere non sono di argilla, possono
diventare di cemento se parli solo il Pashtu e se sembri un afgano. I
nostri vengono respinti verso il Pakistan, ma trovati nuovi intermediari
ci riprovano e stavolta riescono a passare la loro prima frontiera,
arrivando in breve, portati dai moderni autobus che corrono sulle strisce
asfaltate persiane, a Teheran, caotica e illuminata.
L’avviso della possibilità di raggiungere la Turchia li coglie nella
città che li ospita da diversi giorni e da lì vengono tradotti nel
Kurdistan iraniano, da dove passeranno il confine valicando le altissime
cime caucasiche in una notte di tormenta, bersagliati dal fuoco delle
guardie di frontiera turche, che comunque eluderanno.
Forse sono già in Occidente (tra dieci anni sarà così): Istanbul sembra
qualcosa a metà tra Napoli e Damasco, ma i cugini le sono indifferenti
come una merce che debba pensare (?) solo a giungere a destinazione.
Compito del quale si prenderanno cura alcuni contrabbandieri di uomini
senza scrupoli che li imbarcheranno su di una nave diretta a Trieste,
stipati in un maledetto container, condiviso con una famigliola di poveri
profughi curdi. Il resto lo potete immaginare, perché siete figli di una
terra che essendo il ponte tra Oriente ed Occidente assiste
quotidianamente allo svolgersi di questo genere di drammi. Ma se potete,
andate a vedere questo film: vi sorprenderete di non esservi mai chiesti
che storia possa esserci dietro un cencioso ragazzino che tenta
insistentemente di vendervi nastrini e magari di fregarvi pure la borsa.
Potrebbero esserci gli scheletri nell’armadio della geopolitica
occidentale. Potrebbe esserci un lontano e misero inferno. Winterbottom
non cerca di vendervi un romanzo, non vi regala nulla di più di quello
che è la realtà: questo film è asciutto e realistico come un servizio
grezzo della Reuters. Le uniche sottolineature vengono dalle splendide
note di Dario Marianelli, che assistono le sorgenti emozioni dello
spettatore, coinvolto dall’incertezza del viaggio dei due ragazzi, resa
bene dalla traballante ripresa digitale che trasmette angoscia e precarietà.
Orso d’oro a Berlino 2003. |