Togiko
(di
Vilma Viora)
Togico e i quattro elementi. Togiko
era seduta per terra nella semplice casa accanto al fiume. Leggeva.
Scorreva un racconto sotto i
suoi occhi chiari: qualcosa di infantile e di molto naturale.
Il rapporto con la natura, il sangue pulsante dell’acqua, il fumo, il
fuoco, il rombo del temporale, il cielo, l’aria trasparente di febbraio,
la luna d’agosto, l’odore dell’erba, tutto era evocato nel suo
corpo.
Madre natura a volte giocava con lei come il vento tra le foglie, allora
il corpo s’allargava in bianca nube di cotone o si restringeva in
sottili ali di libellula, percepiva il mormorio del grano, la saggezza
dell’orzo, il canto dell’usignolo e dell’allodola, il fruscio della
biscia, l’incanto del mattino, il rosa incipriato sul mare, il magma dei
vulcani in Polinesia svuotare passioni nell’Oceano, il ventre freddo
dell’Atlantico, il verde d’Irlanda, fuoco d’erba e di luce.
L’anima si appagava solo così estatica nel paesaggio tra carne e
natura, i capelli sparsi sull’acqua di Ofelia, l’incarnato di
porcellana, gli occhi della tigre, il fiuto del pericolo.
Semplicità, natura, quiete, sonagli dorati alle caviglie, i ricordi, il
tè nel deserto, la donna di sabbia, la fame infinita d’amore, di luce,
d’infinito protendere l’anima, quasi un gesto gotico di braccia
distese.
La paglia, il fieno, i salti dall’alto, il volo, il funambolo sulla
corda, l’arcobaleno, le chiome della quercia, il nido del tordo, il
solco incavato prima del seme.
Un frullo d’ali scosse Togiko dalla lettura: l’amico usignolo voleva
che uscisse, s’addensavano nubi lontane che le folate calde facevano
respirare, il vestito si gonfiava come bolla di sapone leggera e
trasparente.
La pioggia a gocce rade e grosse tintinnava sull’orlo del secchio, i
fiori dilatavano le corolle, l’erba si piegava e profumava d’intorno,
il gallo cantava la vita nell’arco della coda piumata, la luce
diffondeva un senso di pace dopo l’attesa, l’usignolo si era fermato
sul ramo sopra il capo di lei.
Era pura contemplazione del cosmo distratto dal suo vorticoso destino,
era fermare il tempo, lì in quel luogo, in quel momento, era l’alito
del canto della terra e della ruota del mulino, era il cuore di bianco
lino che tesseva il corredo da sposa, era la vita senza l’ansia, era
l’armonia di una fuga.
Cantava l’usignolo più nero del legno d’ulivo, cantava le lodi del
fuoco e dell’aria, del tufo e del mare, cantava davanti all’imperatore
cinese dell’antica fiaba per smuovere, sbriciolare il silenzio. Cantava.
Lacrime scendevano miste a gocce sul viso di Togiko, si allentavano le
catene, si apriva una lama di luce laggiù sotto la collina dolcissima di
ciliegi e meli.
Magia del canto: apparvero raggi di sole sulle piume dell’usignolo,
perle scivolavano tra le pieghe della gonna, la tela del ragno scintillava
oscillando, bianche farfalle si alzavano in volo, la purezza del canto
risplendeva, sospesa, nel silenzio e donava a ogni cosa un significato
come nel primo giorno del mondo.
Togiko e l’uccellino presero la strada accanto al fiume, petali bianchi
scendevano gonfi d’acqua accanto a piccoli fuscelli, la rana osservava
dal pantano il caleidoscopio di luci. Tornarono a casa.
Togiko riprese il libro e l’usignolo si pose sul lungo filo davanti
alla finestra per proseguire un dialogo senza suono, tutto interiore,
fatto di pulsazioni e battiti ripetuti tranquilli del cuore.
Il pomeriggio finiva nel chiaroscuro dell’ombra che s’avvicinava
piano.
Un giorno come tanti, un giorno dorato, un giorno nuovo, un giorno che
aveva portato i suoi frutti nel grembo, un giorno amato, vissuto senza
paura, un giorno che cedeva senza opporsi alla sera:
qualcosa di infantile e di molto naturale.
Togiko e la semplicità. Togiko guardava scorrere il fiume
dalla finestra, era opalescente ora azzurro, ora verde con lampi
d’argento, il movimento quasi impercettibile e continuo.
Il senso della vita.
La semplicità che aveva sempre cercato e allo stesso tempo sfuggito.
La freschezza delle lenzuola pulite, il canto del gallo, la luna in
cielo, l’acqua della fontana, il vestitino bianco, la nuvola rosa, i
petali dei fiori di campo, tutto ciò che appariva al mondo senza sforzo
senza inutili complicazioni.
Aveva confuso banalità e semplicità, squallore e essenza, solitudine e
vuoto, desiderio e amore, intrecciando trame là dove non c’era che un
ragno operoso. |