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Sommario anno XII numero 9 - settembre 2003

 SOCIETÀ E CULTURA
Martin Buber - L’uomo non pensa il dialogo, lo vive
(Manlio Della Serra) -
Era il XX secolo, il secolo della disperazione, delle continue e invisibili atrocità, delle insoddisfazioni soffocanti: quel secolo accolse tutta la forza spirituale della religiosità di Martin Buber. La spaccatura tra ebraismo orientale (di matrice chassidica) ed ebraismo tradizionale portò una assordante collisione nella prima metà del secolo ed il conseguente disorientamento degli intellettuali, gettati nel dubbio e nell’impotenza interpretativa. È proprio nel 1923 che Buber pubblica un’opera dal titolo “Io e Tu”, un lavoro di enorme complessità stilistica e di estrema suggestione scritto con l’obiettivo di riprendere i concetti dialogici della filosofia della relazione, già ampiamente noti a F. Rosenzweig, esponente di spicco nella nuova corrente spirituale. L’operazione buberiana è sistematica: scrutare la persona dalla possibilità di abitare il mondo e dalla relativa coscienza che ne deriva. Stupiscono la spontaneità delle riflessioni e la marcata attenzione per coloriture di forte fascino letterario. Buber afferma e sottoscrive processi ragionati senza accontentarsi della semplice proposta, spinto dalla convinzione che gli spunti forniti hanno una consistenza risolutiva per il declino che coinvolge l’esistenza umana. La logica della relazione è addirittura portante, in quanto comanda il dispiegamento delle attitudini individuali rivolte al puro confronto. Non è possibile confondere l’io con il tu dal punto di vista della sua riflessione: queste entità autonome per natura si muovono nel processo di coinvolgimento necessario a costituire la totalità di cui, di li a poco, faranno indissolubilmente parte. Inutile, per questo, pensarli al di fuori della relazione. Una svolta è presente nella distinzione tu-esso: l’attenzione si rivolge ora non al demone dell’oggettività ma alla chiara visione che accompagna la separazione. Comprendere l’importanza di ciò che risulta oggettivo implica il riconoscimento ulteriore di ciò che oggettivo non è; soltanto uno è il tu nella relazione, quello stesso tu che è io: è la logica della reciprocità a variare i ruoli senza intorbidirli nell’attimo relazionale. Il tu innato è il vero motore in grado di innescare la relazione; da questo riconoscimento l’io acquista sicurezza e imposta i “ruoli” nella relazione, potremmo dire “risponde alla domanda del tu”. Immediato è anche l’annullamento del dualismo, implicito nella forma relazionale io-tu piuttosto che io e tu. Il termine reciprocità conserva il suo splendore quando si esprime nella forma più autentica tra le possibili: la relazione con Dio, il tu eterno. Problematica in misura maggiore ma anche capace di legittimare ogni altra relazione: una garanzia come prova di validità, di inclusione ed esclusione dei meccanismi di funzionamento del mondo. Di fronte alla grandezza di Dio il mondo perde valore, viene gradualmente rimosso per rimanere sottointeso nella sua figura che tutto comprende e trascende: non è Dio ad essere adattato al mondo ma è quest’ultimo che viene compreso, fatto partecipe come manifestazione di un’infinita bontà creativa. La riscoperta della natura autentica dell’individuo consiste quindi nella rivalutazione dialogica, nel confronto che dà speranza di crescita. Per questo il tu che si ha di fronte (e non davanti, pena il ritorno all’oggettività) variabile: il rapporto relazionale affonda le radici nella certezza che anche con un oggetto si possa istituire dialogo; non è quindi la forma ontologica del tu a porre limiti visibili per il complicato rapporto di reciprocità, ma il modo di svolgimento dello stesso. Bisogna per questo garantire l’irripetibilità dell’evento, della raggiunta totalità, l’uscita della dimensione temporale per abbracciare la dimensione dell’eternità, della presenza.

È probabile che gli sforzi di Buber nella definizione di questo attimo abbiano condotto i lettori di Io e Tu ad una forma dialogica diversa da quella socratica senza tuttavia imprimere nella mente la forza espressiva di un momento più che singolare.  
 SOCIETÀ E CULTURA

Sommario anno XII numero 9 - settembre 2003