Martin
Buber - L’uomo non pensa il dialogo, lo vive
(Manlio Della Serra) - Era il XX secolo, il secolo della
disperazione, delle continue e invisibili atrocità, delle insoddisfazioni
soffocanti: quel secolo accolse tutta la forza spirituale della religiosità
di Martin Buber. La spaccatura tra ebraismo orientale (di matrice chassidica)
ed ebraismo tradizionale portò una assordante collisione nella prima metà
del secolo ed il conseguente disorientamento degli intellettuali, gettati
nel dubbio e nell’impotenza interpretativa. È proprio nel 1923 che
Buber pubblica un’opera dal titolo “Io e Tu”, un lavoro di enorme
complessità stilistica e di estrema suggestione scritto con l’obiettivo
di riprendere i concetti dialogici della filosofia della relazione, già
ampiamente noti a F. Rosenzweig, esponente di spicco nella nuova corrente
spirituale. L’operazione buberiana è sistematica: scrutare la persona
dalla possibilità di abitare il mondo e dalla relativa coscienza che ne
deriva. Stupiscono la spontaneità delle riflessioni e la marcata
attenzione per coloriture di forte fascino letterario. Buber afferma e
sottoscrive processi ragionati senza accontentarsi della semplice
proposta, spinto dalla convinzione che gli spunti forniti hanno una
consistenza risolutiva per il declino che coinvolge l’esistenza umana.
La logica della relazione è addirittura portante, in quanto comanda il
dispiegamento delle attitudini individuali rivolte al puro confronto. Non
è possibile confondere l’io con il tu dal punto di vista
della sua riflessione: queste entità autonome per natura si muovono nel
processo di coinvolgimento necessario a costituire la totalità di
cui, di li a poco, faranno indissolubilmente parte. Inutile, per questo,
pensarli al di fuori della relazione. Una svolta è presente nella
distinzione tu-esso: l’attenzione si rivolge ora non al
demone dell’oggettività ma alla chiara visione che accompagna la
separazione. Comprendere l’importanza di ciò che risulta oggettivo
implica il riconoscimento ulteriore di ciò che oggettivo non è; soltanto
uno è il tu nella relazione, quello stesso tu che è io:
è la logica della reciprocità a variare i ruoli senza intorbidirli
nell’attimo relazionale. Il tu innato è il vero motore in grado
di innescare la relazione; da questo riconoscimento l’io acquista
sicurezza e imposta i “ruoli” nella relazione, potremmo dire
“risponde alla domanda del tu”. Immediato è anche l’annullamento
del dualismo, implicito nella forma relazionale io-tu piuttosto
che io e tu. Il termine reciprocità conserva il suo splendore quando si
esprime nella forma più autentica tra le possibili: la relazione con Dio,
il tu eterno. Problematica in misura maggiore ma anche capace di
legittimare ogni altra relazione: una garanzia come prova di validità, di
inclusione ed esclusione dei meccanismi di funzionamento del mondo. Di
fronte alla grandezza di Dio il mondo perde valore, viene gradualmente
rimosso per rimanere sottointeso nella sua figura che tutto comprende e
trascende: non è Dio ad essere adattato al mondo ma è quest’ultimo che
viene compreso, fatto partecipe come manifestazione di un’infinita bontà
creativa. La riscoperta della natura autentica dell’individuo consiste
quindi nella rivalutazione dialogica, nel confronto che dà speranza di
crescita. Per questo il tu che si ha di fronte (e non
davanti, pena il ritorno all’oggettività) variabile: il rapporto
relazionale affonda le radici nella certezza che anche con un oggetto si
possa istituire dialogo; non è quindi la forma ontologica del tu a porre
limiti visibili per il complicato rapporto di reciprocità, ma il modo di
svolgimento dello stesso. Bisogna per questo garantire l’irripetibilità
dell’evento, della raggiunta totalità, l’uscita della dimensione
temporale per abbracciare la dimensione dell’eternità, della presenza.
È probabile che gli sforzi di Buber nella definizione di questo attimo
abbiano condotto i lettori di Io e Tu ad una forma dialogica
diversa da quella socratica senza tuttavia imprimere nella mente la forza
espressiva di un momento più che singolare. |