Moravia,
quando le rose erano grandi come cavoli
(Cristina Stillitano) - La storia di un uomo raccontata in
silenzio da immagini e parole. L’associazione Fondo Alberto Moravia ci
offre fino
all 22.02.2004 al museo di Roma in Trastevere un percorso intimo e
suggestivo attraverso 83 anni passati a ricercare qualcosa che la vita gli
aveva tolto quasi da subito. “Recuperare è diverso dall’aver sempre
avuto, non aver mai perduto”. La storia è quella di un bambino diverso
dagli altri, che “vedeva e sentiva tutto grande”. “Ingenuo come un
pinguino dell’Antartide”, “anormale perché troppo sensibile”, uno
a cui le rose del suo giardino parevano cavoli e i profumi gli montavano
alla testa e le api gli sembravano enormi. Da piccolo lo colpisce la
tubercolosi ossea, che lo costringe a letto, lontano dai suoi coetanei,
nei sanatori, in solitudine. Fino ai 19 anni sarà una lotta per
ristabilire la sua salute. Ma già nei lunghi momenti della malattia
inizia il viaggio coraggioso attraverso la sofferenza che lo lacera
dentro. E Moravia amerà sempre i viaggi, ne farà tanti per la sua
professione di scrittore e giornalista, quasi in ogni parte del globo. Il
viaggio è una terapia perché produce lo spaesamento di abitudini e
certezze che costringe ad affrontare una prova con se stessi. “Viaggiare
conduce l’uomo ad agire”, diceva. E la sua vita è tutta là:
l’esplorazione instancabile, dolorosa, sincera attraverso i meandri
della terra più oscura e affascinante, l’anima dell’uomo. La
letteratura, “disperante mestiere”, diventa allora mezzo di
conoscenza, per scrollarsi di dosso la sterile volontà e le parole fini a
se stesse ed approdare nel fondo torbido della realtà, a guardarla negli
occhi, a sguazzarci dentro, a lordarsene le mani. L’”attenzione non
lirica, ma oggettiva” scende muta a scrutare la desolazione che degrada,
il vuoto che inaridisce, l’arroganza che sgomenta. Li respira, li
incamera, li subisce, li assapora, se ne innamora persino. Perché in
mezzo a tutto questo c’è anche bellezza sorprendente e semplice, c’è
umiltà e saggezza da imparare, c’è passione di viscere e sangue. La
sfida è dare voce, consentire di esistere e forse - chissà - anche
lenire l’amarezza di chi vede il mondo, che ama, tanto diverso da come
se l’era immaginato. Scriverà a proposito del rapimento Moro, in una
riflessione dolorosa e tanto attuale sul terrorismo: “.. perché in
fondo al mio animo, c’è l’immagine, direbbe Jung, archetipica, di
come tutto potrebbe, dovrebbe essere. Immagine velata, misteriosa,
illeggibile, indistinta, ma esistente come esigenza, come, si sarebbe
detto una volta, ideale”. I “moralisti armati che non esitano ad
uccidere” sono le vittime di un’atrocità che hanno dentro, spietati
con gli altri perché spietati con se stessi, tragicamente, ciecamente
tesi a distruggere un male che non comprendono e li spaventa: la
tolleranza.
“Uno scrittore ha un
solo dovere” - dirà - “quello di essere vitale”. E la sua lunga
esistenza è tutta animata dalla miracolosa capacità di continuare a
provare meraviglia, di reagire, di non perdere di vista quel proposito che
già Kant ci aveva indicato: l’uomo come fine. “Gli Indifferenti”,
iniziati a 17 anni nella solitudine della malattia e pubblicati, a sue
spese, nel ’29, sono la prima lucida testimonianza di una tragedia che
non si consuma e continua a replicarsi quotidianamente nel vuoto inutile
della sua impotenza. Il fascismo definirà “acido” il contenuto del
romanzo e gli starà addosso, lo controllerà, lo ostacolerà, lo censurerà.
Figlio di padre ebreo e di madre ariana, sarà
espulso
dal regime e riammesso solo nel ’40 in seguito a positiva accettazione
della domanda per la definizione della “posizione razziale”. “Nel
’38" - scrive nella prefazione a “16 ottobre 1943 - Otto ebrei”
di G. Debenedetti - “l’assurdità, sempre presente sotto le dittature,
entrò nella mia vita con le leggi per la difesa della razza. L’assurdità,
dunque, prese il nome di discriminazione”. Benché assolto per
“insufficienza di prove dal delitto di lesa razza commesso nascendo”,
sarà ugualmente vittima del fascismo che, oltre a togliergli un fratello
(Gastone, morto in guerra), tenterà ostinatamente di strappargli anche la
sua identità, fino a ridurlo ad “un nodo di esistenza minacciata”,
“un mero dato biologico”. Sfollato a Fondi con Elsa Morante dal
settembre ’43 al giugno ’44, darà vita e memoria a questa esperienza
con l’indimenticabile “La ciociara”. Nel dopoguerra il suo impegno
etico e civile andrà consolidandosi e approfondendosi, “perché il
mondo non si salva da sé” - parola di Cassola, e sarà eletto deputato
al parlamento europeo. Sosterrà con forza la lotta contro la guerra, per
un “pacifismo come forza politica”, per i diritti umani, per il
disarmo nucleare. “Non sono più italiano, né europeo, né scrittore.
Sono soltanto un membro di una specie”, ci ammonirà nel 1982,
dall’Espresso, in una “Lettera da Hiroshima”.
Per formazione, per
interessi, per sensibilità Moravia si proclamava europeo o, come
giustamente dicono, universale. Ma Roma resta sempre il centro dei suoi
interessi e dei suoi affetti. La Roma conosciuta dapprima attraverso le
letture adolescenziali, quella di D’Annunzio, del Belli, di Pirandello.
Roma che non è amata dai romani, che non hanno radici, che non sanno
capirla. E invece Moravia l’ha conquistata e compresa a poco a poco,
“vivendoci la vita di tutti i giorni, di modo che Roma è una delle
esperienze della mia vita”. Dal terrazzo del suo appartamento di via
dell’Oca si vedevano i tetti della città e i monumenti e la luce e
tutte le cose, anche le più banali, che avevano, come ricorda, “un
valore che non esito a chiamare poetico e autobiografico”. La mostra si
intitola appunto “Moravia e Roma” ed esplora le suggestioni che hanno
animato e reso intenso il legame dello scrittore con la sua città.
Rimane, a sorprenderci,
la forza mai sopita di una ricerca ed un impeto che non perdono fiducia,
non cessano di lottare, non invecchiano e non si disincantano. Forse solo
così ci si avvicina all’uomo. La battaglia è condotta con le armi più
difficili: una penna e l’amore. Il sogno è quello che scrisse una volta
alla sorella Adriana: “.. vorrei andare in un paese dove la gente
cammina coi piedi in su”.
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