Luci
(rimpiante) della città
(Cristina Stillitano) - Se andate al Teatro Olimpico sino al
28 febbraio potrebbe capitarvi - come è capitato a chi scrive - di
rimpiangere di
non
essere nati più di 70 anni fa’. Quando il cinema varcava la soglia senza
ritorno del sonoro e una rivoluzione inarrestabile aveva inizio. Da allora
la tecnologia ha percorso la sua rapida strada verso risultati sempre più
raffinati e spettacolari. Oggi la generazione de “Il Signore degli Anelli”
si gode le sue 10 ore di saga “fantasy” lasciandosi travolgere - vorremmo
dire tramortire - dagli imponenti e sofisticati effetti speciali. E,
probabilmente, si domanda incredula come sia possibile seguire per quasi
due ore un film muto. Forse le verrebbe da sorridere vedendo quell’improponibile
figurino con bombetta e baffetti che ammicca con i suoi occhi bistrati
di nero. Ma, a questo punto, il miracolo di Charlie Chaplin ancora una
volta avrebbe magicamente avuto luogo. Tanto più intenso e travolgente,
quanto più inavvertitamente riesce ad incantare chi lo osserva. Si torna
bambini, ad avere a che fare con un riso che sgorga alla gola improvviso e
spensierato. Poi arriva la tenerezza e il paradosso e l’ansia e infine la
commozione, quella vera, che avvolge e stupisce. Forse l’arte si riconosce
proprio da questo: dalla capacità di toccare le corde più profonde di
un’emozione, liberandola nella sua forma più semplice e nuda. Una forma
che nemmeno si pensava di possedere ancora.
Chaplin credeva con forza nel potere del riso e delle lacrime come
antidoto all’odio e al terrore. Con poesia, con elegante discrezione, con
una cura perfetta per ogni dettaglio, danzando più che recitando, il suo
Charlot, l’aristocratico e generoso vagabondo solitario, ci conduce
attraverso le debolezze e le contraddizioni di un mondo ingiusto, vissute,
subite, con un candore che le rende ancora più stridenti e inaccettabili.
La polemica contro il conformismo e la miseria diventano disavventura
malinconica di un animo gentile, satira sussurrata senza enfasi e senza
eccessi. “Quel modo di vestire mi aiuta ad esprimere la mia concezione
dell’uomo medio, dell’uomo comune, la concezione di quasi tutti gli
uomini, di me stesso.” - diceva a proposito del trucco e
dell’abbigliamento di Charlot - “La bombetta troppo piccola rappresenta lo
sforzo accanito di poter apparire dignitoso. I baffi esprimono vanità. La
giacca abbottonata stretta, il bastoncino e tutto il comportamento del
vagabondo rivelano il desiderio di assumere un’aria galante, ardita,
disinvolta. Egli cerca di affrontare coraggiosamente il mondo, di andare
avanti a forza di bluff: e di questo è consapevole. E ne è così
consapevole che riesce a ridere di se stesso e anche a commiserarsi un
po’”.
Chaplin non vinse neanche un oscar come miglior attore o regista.
Ricevette soltanto quello alla carriera nel 1972 e un secondo - nello
stesso anno - come miglior compositore musicale per “Luci della ribalta”,
che peraltro aveva realizzato ben 20 anni prima. E, in effetti, non tutti
sanno che molte delle musiche che accompagnano i suoi films furono
composte ed alcune, come “Swing high little girl” persino cantate, da lui
stesso. Al Teatro Olimpico di Roma l’”Orchestra Città Aperta” le esegue
splendidamente dal vivo durante la proiezione del film. Il direttore,
Timothy Brock, in collaborazione con l’Associazione Chaplin, ha curato
anche il restauro delle partiture originali. La programmazione prevede
“Luci della Città” (1931) e “Il Circo” (1928), entrambi muti. In verità
nella scena iniziale di “Luci della Città”, quella dell’inaugurazione del
monumento sul quale si è candidamente addormentato Charlot, i personaggi
gracchiano un discorso che, però, Chaplin preferì lasciare alla nostra
immaginazione. Per il resto, non volle assolutamente introdurre il sonoro.
E fece bene. Il suo capolavoro non ne ha alcun bisogno. |