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Sommario anno XIII numero 8 - agosto 2004

 LETTURE FILOSOFICHE

Alcune considerazioni su “La nausée” di Jean Paul Sartre
(di Caterina Rosolino)
IL DE-LIRIO.
Delirio dell’individuo. La spazialità coartata. Le mani.
Jean Paul SartreMentre leggiamo, vediamo il pensiero di Antoine Roquentin, protagonista de « La Naussèe » di J.P.Sartre, dispiegarsi davanti a lui come una forma vivente, un’entità (più volte Roquentin l’apostrofa come fosse vivo: “l’idea accovacciata come un gatto”, e ancora: “l’idea s’impossessa di me” ecc…). In contrapposizione al “pensiero vivo” del personaggio e in continua mutazione, si colloca il pensiero morto degli altri uomini, che hanno affidato ad una statua di bronzo, alla loro Esperienza (che per l’occasione si tramuta in Saggezza prodiga di consigli come un distributore automatico), o semplicemente alla collettività (“…è incredibile come si preoccupino tutti di pensare le stesse cose”), il compito di pensare per loro. Antoine Roquentin invece è un uomo solo, ciò non significa che è un uomo solitario, un eremita, che ama vivere in luoghi appartati (anzi frequenti sono le volte che lo troviamo a riflettere in luoghi pubblici, circondato da gente), quel “solo” significa che pensa con la propria testa, che nella sua ricerca del vero è l’unico che ha il coraggio di oltrepassare le colonne d’Ercole del conosciuto. La condizione d’isolamento è necessaria per la ricerca della verità: egli può varcare così i limiti del noto e naufragare nell’ignoto, e lo stesso Roquentin ne è cosciente: “quando si vuol capire una cosa, ci si mette di fronte ad essa, da soli, senza aiuti; tutto il passato del mondo non ci servirebbe a niente, poi questa cosa sparisce e quel che si è capito sparisce con essa”. È questa la condizione per il de-lirio. Ma che cos’è il delirio? E come possiamo parlare di delirio facendo riferimento ad Antoine Roquentin? In effetti quel che dice pare seguire un filo logico, i ragionamenti a cui arriva sono il risultato di piccoli scalini, di passi che lo portano lentamente a quelle conclusioni. Ma chi ha detto che il delirio sia contrario alla lucidità? E non è proprio da un’eccessiva lucidità che deriva lo stravedere del protagonista? Dopo tutto “follia è divino buon senso”dice Emily Dickinson in una sua poesia. Ma torniamo alla prima domanda… Delirare vuol dire andare oltre il confine, verso l’ignoto, verso l’estraneità. De-lirare è andare al di là del solco tracciato dall’aratro (lira). Attorno al terreno arato, l’ultimo solco tracciato dal vomere si compone di un avvallamento dove scorrono le acque piovane reflue, e un dosso formato dalla terra rovesciata dall’aratro, proprio questo dosso, secondo un’etimologia ritrovata da Renzo Mulato in un antico testo, è detto lira. Esso difende dalla confusione della palude o dal confondersi con l’estraneo, (e delirare quindi acquista il senso di andare fuori dal seminato o dal solco sacro che cingeva la città). Delirio è anche parola chiave per capire Céline nel “Voyage au bout de la nuit”. Egli stesso ne è consapevole: “Devo entrare nel delirio, devo raggiungere il livello di Shaekespeare…” ed a più riprese dirà che le pagine meno riuscite del romanzo sono quelle meno toccate dal delirio. Non a caso all’inizio del libro Sartre cita Céline, scegliendo un passo che nomina l’individuo, importante per capire la posizione isolata e controcorrente di Roquentin, un diverso. Perché appunto rompere ogni difesa dalla confusione della palude, significa anche rifiutare il codice d’interpretazione corrente del mondo: “ecco che cos’è la loro esperienza; ecco perché mi son detto tante volte che odora di morte: è la loro ultima difesa. Il dottore vorrebbe pur credervi, vorrebbe mascherarsi l’insopportabile realtà: ch’egli è solo, che non ha capito nulla, che non ha passato…”. E una volta che si guarda in faccia la realtà e si è soli ci s’incammina allora goffamente, come s’addice alla figura d’un vero e proprio anti-eroe, nel pantano del dubbio, dove tutto è incerto. Il delirio eliminando il confine di difesa con la palude elimina ogni distanza tra io e mondo: “È l’uomo che ha creato la distanza”, scrive Sartre, “ed essa non ha senso che in uno spazio umano…separa Maratona da Atene ma non un sasso da un altro sasso”. Quello che si percepisce a questo punto è la sensazione di una spazialità coartata, un troppo-pieno appunto.
Ogni mediazione tra io e realtà viene meno: da questa considerazione si comprende l’importanza che in tutto il romanzo viene data all’immagine delle mani. Le mani, infatti, sono proprio quel medium, la parte del corpo per eccellenza, che ci permette di manipolare il mondo a nostro piacimento, di entrare in comunicazione con qualche suo elemento in modo possessivo e autoritario: afferrandolo, plasmandolo, usandolo. Nel romanzo invece le mani di Roquentin perdono questa funzione, diventano il corpo in agonia di un granchio rovesciato sul dorso e dunque impotente, che muore: le mani e con esse la facoltà attiva e la posizione privilegiata del personaggio nei confronti del circostante, si annullano. L’io non è più libero come non lo era all’inizio quando, nel raccogliere un pezzo di carta caduto nel fango, si suggestiona a tal punto da vedere in esso una mano bruciata, gonfia, coperta di vesciche. Anche in questo caso la mano viene ritratta in uno stato di putrescenza, e fa riferimento alla mancanza di libertà: “ho pensato che non ero più libero”. Dunque ciò che è vivo è il mondo, è il mondo ad assalire Roquentin che assiste con disgusto e nausea alla propria dissoluzione in una realtà senza gerarchie, alla fusione in essa senza nessun distinguo.
LA SCRITTURA.
La memoria. L’ambiguità e la doppiezza, pure del linguaggio.
Si incomincia dalla fine, si finisce nel principio? Ma quale è il limite da varcare per approdare alla verità? Quale velo si deve squarciare?
Sin dalle prime pagine notiamo che il protagonista, nell’accingersi a redigere un journal intime, s’interroga sull’efficacia della scrittura quando si deve dire il vero sulla vita, sul mondo. Già dal principio rivela la funzione ingannatrice della memoria: «Naturellement je ne peux plus rien écrire de net sur ces histoires de samedi et d’avant hier, j’en suis déjà trop éloigné… ». La scrittura dunque non deve mettersi al servizio della memoria. E come per Sartre e un ramo della fenomenologia “essere non è altro che essere nel mondo”, così essere per il lettore equivale a essere nella storia…questa sensazione è realizzata dall’uso del presente nella composizione del journal intime. Ma oltre al ruolo, quindi, chiarificatore della scrittura, che vuol svelarci la realtà senza il filtro della memoria, vorrei provare ad indagare sulla possibilità di altri livelli di lettura, non contraddittori con quanto detto. Ad un certo punto leggiamo «…j’ai beau fouiller le passé je n’en retire plus que de ribes d’images et je ne sais pas très bien ce qu’elles représentent, ni si ce sont de souvenirs ou des fictions : il y a beaoucoup de cas d’ailleurs où ces bribes elles meme ont disparu : il ne reste plus que de mots…» dunque la memoria non è il solo filtro che ostacola la visione vera delle cose…come possiamo comprendere da questo passo, e da altri, ci sono delle paroline che danno fastidio all’orecchio, che sono anch’esse ingannatrici. Una di queste è passato. Del passato non restano che parole dice Roquentin…queste parole non rimandano a niente: sono esse stesse la “cosa” di cui parlano e cioè il passato, che non esiste in quanto non è presente. Tutto quel che esiste è presente dice il protagonista. Il passato è una costruzione della mente, è mera finzione. Ma c’è un’altra parolina che non ci piace: l’avventura. «Ce sentiment d’aventure ne vient décidément pas des événements: la preuve en est fait. C’est plutot la facon dont les istants s’enchainent.» e poco dopo «le sentiment d’aventure serait celui de l’irréversibilité du temps». Si sa che l’irreversibilità del tempo non può essere sperimentata nella vita: «Les aventures sont dans le livres», anche l’espressione avventura dunque è svuotata di senso perché in rapporto alla realtà è una carcassa, uno scheletro, ossia un simbolo indecifrabile, di cui si riconosce solo la forma. Sebbene non tutte le parole hanno perso per strada la loro “anima”, ridotte all’apparenza come la vita, in tutto il testo si nota una non marginale difficoltà a nominare le cose, a definirle… perché perdono identità e si mescolano l’una nell’altra, ma anche per cercare d’immergerci, di farci tuffare nella realtà del testo fatto non di cose ma di parole. Limitando forse così la nostra immaginazione che viene frenata dall’incomprensione dei tanti aggettivi dimostrativi disseminati qua e là, e facendo smarrire anche noi in quel NON SENSO che turba a momenti la nostra lettura. Più volte mi è capitato di fermarmi a contemplare quel “qualcosa” o “questo”, “quello” senza capire subito cosa si volesse designare, e arrivando a comprenderlo solo più tardi. Lo scopo è intrappolare anche noi in questa marmaglia di parole, come Roquetin è intrappolato in quella delle cose…e dello specchio. (lo specchio è definito come trappola e forse questa funzione si può attribuire anche alla pagina su cui l’autore riflette la sua immagine del mondo che sembra immobile ma in realtà non lo è, come il viso di Roquentin forse la scrittura può assumere altre forme se la si guarda con attenzione). Sull’innominabilità si possono portare come esempio diverse frasi: «L’idée est toujours là, l’innomable…»; «Les choses se sont délivrées de leurs noms. Elles sont là, grotesque, tetues, géant et ca paraît imbécile de les appeler des banquettes ou de dire quoi que ce soit sur elles: je suis au milieu des Choses, les innommables. Seul, sans mots, sans défenses, elles m’environnent, sous moi, derrière moi, au-dessus de moi. Elles n’exigent rien, elles ne s’imposent pas: elles sont là». Questo linguaggio del vago e dell’indefinito non è usato però sempre, dunque non si scardina completamente il sistema della scrittura, la scrittura è ancora il mezzo per portare alla luce la realtà nonostante siano le cose a tesaurizzare-fuori un chiaro-mistero.
Il linguaggio ha assunto quindi per noi una duplicità di significato: da una parte è ostacolo al contatto con ciò che è immediatamente evidente agli occhi del personaggio, imbarazzato nell’assegnazione di un nome alle cose, e fa dubbiosi e incerti anche noi; dall’altra ricalca, copia fedelmente le impressioni e idee sulla realtà che si delineano davanti gli occhi dello scrittore e fanno blocco contro di lui…perché non appartengono a lui. Le percezioni di Roquentin non sono espressione di una soggettività ma sono la musica degli oggetti percossi, la loro voce, sono le proprietà degli oggetti stessi. Egli prova disgusto quando la cosa è oggettivamente orribile, prova amabilità quando la cosa è oggettivamente amabile. La doppiezza è pertanto una caratteristica fondamentale nel libro, non solo il linguaggio ma ogni cosa ha una doppia faccia: il “troppo-pieno” è ciò che c’è di più “futile” e “vuoto”, “tutto” è “nulla”, “apparire” sta per “essere”, ciò che è più “grottesco” e “assurdo” è il “normale” e “naturale”.
La simultaneità dei significati, che si sottraggono nel momento in cui s’incontrano, nel finale porta al risultato di uno zero, un bel tondo. Fine e inizio coincidono. La conoscenza della verità ha ricondotto il personaggio all’inizio del suo cammino: è sospeso nel dubbio. Il dubbio iniziale era “Dove mi condurrà lo svelamento dell’idea?”, il dubbio finale è “Dove mi condurrà l’idea svelata?” …a scrivere un romanzo?
Sorge nella mia mente il dubbio che il romanzo di cui parla sia quello appena scritto. Nel raccontare si incomincia dalla fine dice Roquentin. Forse anche se ne “La Nausea” la memoria è stata subito messa al bando, questo è stato fatto per dissimulare (un gioco, la scrittura, quando ogni senso è perduto). Penso a Sartre, l’autore del libro il cui progetto era stato delineato da lui fin dall’inizio, che quando ha iniziato a scrivere aveva in mente le regole generali in cui la storia doveva scivolare e sfociare, come nella musica si hanno in mente il ritmo e pure le tonalità in cui il pezzo può modulare passando dall’una all’altra… penso all’autore del libro come all’autore della musica che distoglieva dalla nausea il personaggio, ed ecco che il disco comincia a girare davanti a me, quelle righe dove sono impressi dei segni strani che sono solcati dalla puntina dello sguardo, rivedo la storia, irreversibile, che gira a ritroso, già stabilita prima che il secondo scrittore inizi ad eseguire le note, da bravo esecutore…e la storia, lama ch’affonda verso la fine, che si precipita verso la fine (non vediamo l’ora che appaia l’idea, la verità che tanto attanaglia Roquetin) per un attimo ci ha dato altro a cui pensare, velo essa stessa della realtà in cui viviamo e spada che la squarcia perchè ci ha tolto la nausea di dosso di un’esistenza assurda e insensata… ma presto la musica è spezzata: chiudo il libro che fa eco nella mente: la risposta è nella realtà, nelle cose e non nelle parole, quindi guardo il calendario davanti a me: domenica 2 ottobre, una folla indistinta di persone oggi andrà al cinema. Per distrarsi dalla Nausea?

 LETTURE FILOSOFICHE

Sommario anno XIII numero 8 - agosto 2004