Quel
cappio al collo
(Vincenzo Andraus - carcere di Pavia e tutor Comunità Casa del Giovane Pavia)
Qualche tempo addietro scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi che
circondano il carcere… Ricordo la risposta indifferente.
Mi sono chiesto spesso qual’è il volto nascosto dietro le righe di una
notizia.
Qual’è il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “SCACCO
MATTO” in un carcere.
Quanto quest’ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità, al di
là della mera notizia? Penso a quell’uomo, l’ultimo della serie che
s’è impiccato o asfissiato. A quel volto, a quel cappio al collo, e
intravedo l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sé
espressione di quello spirito umano… spesso incatenato.
Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà
dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza
di saggezza.
So bene quant’è difficile agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò
sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non
vederne neppure l’ombra.
In un carcere è difficile perforare quella superficialità che è corazza
a difesa, il “muro di niente” contro cui cozziamo e moriamo.
È davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità,
navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a
quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura
svelarci il significato da dare alla vita.
Nei riguardi del carcere non credo che tutto ciò che vi accade sia
arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla
prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo o
meglio della sua comprensione sensibile.
Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere
a misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini. Perché in carcere,
oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda
la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa,
condivisa.
Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano
l’Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra
evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con
l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e
successi da conseguire a tutti i costi.
In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da
una società che corre all’impazzata al supermercato delle suggestioni,
degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che
libera, ma fatica di pochi momenti.
In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul
sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della
prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta…
Ho l’impressione che occorra quella coerenza che riporta al centro
l’essere umano, con partecipazione per chi subisce il dolore
dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non è
accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché
l’uomo possa migliorare e trasformarsi.
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