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Sommario anno XIII numero 9 - settembre 2004

 I NOSTRI PAESI - pagina 7

tuscolo
Tuscolo verso la distruzione (1 di 4)
(Claudio Comandini) - I possedimenti tuscolani nei secoli XI e XII comprendono la rocca e la città sulla collina al centro della Valle Latina, circondata dalle ville patrizie, dalla suburra e dal castello di Molara, ed inoltre i siti degli attuali comuni di Frascati, Grottaferrata, Monteporzio, Montecompatri, Colonna, Rocca Priora, Rocca di Papa (che compongono ancora la diocesi tuscolana), con propaggini che coinvolgono le zone di Marino, Albano, Ariccia, Genzano, Nemi, Lanuvio, Lariano e Zagarolo. La zona dell’Algido è popolata di chiese e monasteri di S. Aurea, S. Nicola, S. Biagio, di proprietà dell’Abbazia dei monaci basiliani di S. Nilo (Grottaferrata). Il territorio si muove fra dolci colline e piccoli laghi, su cui spicca con i suoi boschi la mole del mons Albanum (monte Cavo), e si prolunga al confine della via Labicana (parzialmente ripercorsa dall’attuale Casilina), di cui i Conti di Tuscolo controllano le Due Torri (o Torrione) di colle Carcariola, nella prima parte della via Appia fino alla fortificata villa dei Quintili, con il “castello” di Cecilia Metella e la valle della Caffarella, nel tratto della via Latina al km. 2 dell’attuale via Anagnina, con il castello di Borghetto e il Torraccio della Marrana, e la via Tuscolana fino alla congiunzione con la via Latina, con il torrione di Micara (presunto sepolcro di Lucullo) e di Tor di Mezza Via (una costruzione più antica dell’attuale). A Roma sono attestate le proprietà del palazzo di via Lata (S.S. Apostoli - via del Corso) e la Torre dei Conti, il circo di Massenzio e la tomba di Romolo, Silva Candida (via Clodia) e Porto (Fiumicino), Ninfa e Norma nella palude Pontina, e inoltre zone costiere come Nettuno, Terracina e Torre Astura, estendendo la sua influenza a zone del viterbese come Celleno e Mazzano. Questo territorio è soggetto in questo stesso periodo, fra spartizioni patrimoniali e divisioni politiche, ad una progressiva erosione. Nell’area più prossima alla città antica sono stimati10.000 abitanti.
Quello che ancora oggi riusciamo a vedere di questo paesaggio perduto non prescinde da contributi preziosi come quelli di Gregorovius, Nibby, Tabacco, Rendina, Mergè, Lombardi, Devoti e Del Nero, di differenti impostazioni ma comunque costruiti sulla base di rigorose documentazioni e pertinenti contestualizzazioni, che possono permetterci di allargare l’orizzonte di riferimento di eventi nei quali la dimensione locale si associa ai grandi movimenti della storia.
Ora, se i feudi tuscolani non sembrano essere intaccati dal forte tracollo politico dei Conti di Tuscolo seguito alla definitiva estromissione nel 1048 del papa Benedetto IX, la loro economia curtense di sussistenza e di scambio, che favoriva l’imposizione di pedaggi ed altre gabelle, viene fortemente depressa dallo sviluppo su aree extraregionali e internazionali dei traffici mercantili a base monetaria e finanziaria. Il processo che complessivamente viene a compiersi è quello descritto da Marx nel primo libro del Capitale come “transizione” (Ubergang), dove inizialmente il mantenimento della base economica feudale favorisce la sedenterizzazione e la crescita dei ceti borghesi, che successivamente prevalgono instaurando una diversa base di organizzazione materiale. Sostanzialmente, accade che proprio l’azione dei discendenti di Teofilatto, sia nell’accentramento di potere sviluppato a Roma con il “papato di famiglia” che nei legami internazionali stabiliti dalla renovatio imperi, così radicata nei riferimenti di un mondo antico, sia uno degli elementi decisivi nel favorire lo sviluppo mercantile che porta una organizzazione sociale ed economica basata sulla concessione fiduciaria di terre amministrate con “beneficio del possesso” (feudo), verso un modo di produzione dove la ricchezza collettiva ottenuta dal lavoro è subordinata alla proprietà privata dei mezzi di produzione (capitale). L’ereditarietà dei feudi si accompagna alla crescita di nuovi contratti di locazione che provocano una maggiore mobilità sociale, le attività iniziano a specializzarsi e i terreni a produrre in eccedenza. Si sviluppano l’artigianato e i commerci, che, anche sotto la spinta dell’incremento demografico, richiede nuovi spazi, determinando modalità di azione e di pensiero che preparano i grandi mutamenti che precedono la modernità, pur se nella mentalità collettiva continua a prevalere l’adesione ad un sistema di valori orientato verso la trascendenza religiosa, che ha in Roma il suo riferimento simbolico ed effettuale.
L’importanza di Tuscolo entra in crisi e inizia a decadere con quella del sistema di governo che la sua aristocrazia aveva espresso: la concentrazione del potere religioso e amministrativo in clan familiari a base territoriale non regge alla pressione di equilibri internazionali in forte ristrutturazione, che vedono elementi molto diversi interagire in un contesto dal complesso sviluppo. Con il Sinodo di Sutri (1046) Enrico III di Franconia arriva a stabilire il diritto imperiale di nominare pontefici e concili, mentre le scomuniche reciproche fra il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e Leone IX di Egisheim-Dagsburg sanciscono lo scisma definitivo (1054) fra le posizioni delle chiese d’oriente e d’occidente. La chiesa di Roma reagisce con l’accentramento e la solennizzazione del suo potere espresso da Ildebrando da Soana anche prima della sua nomina a Gregorio VII; l’impero continua a rivendicare i diritti dei suoi uffici nella gestione della chiesa e dei territori italiani; prosegue il processo di formazione del Comune da parte di borghesia e mercanti; la spregiudicata iniziativa della potenza bellica dei Normanni (chiamati anche Vichinghi), popolazione seminomade originaria della Scandinavia, che già ha occupato il nord della Francia, sta completando la conquista dell’Inghilterra, e che inizia a prevalere sul meridione bizantino e sulla Sicilia araba fatimida, con una iniziale vassallaggio al duca di Napoli di Rainulfo Drengot e a Guamario di Salerno di Guglielmo, sconfiggendo papa Leone IX (1053) e poi diventando alleati della Chiesa. La definizione degli interessi di queste componenti conosce nel suo sviluppo frequenti cambiamenti negli adattamenti reciproci e nelle condizioni che vengono a porsi i diversi poteri: in pratica, sembra non esserci un sistema di alleanze fisso. Piuttosto, un “potere” immenso e imprescindibile sembra dominare gli uomini, un potere dal quale sono costretti senza più nessuna riluttanza alle più accese condizioni di conflitto, tenuti insieme da un’aggrovigliata serie di relazioni dinastiche, vere, presunte o desiderate, che li porta continuamente a modificare alleanze all’interno di uno stato di guerra permanente. Infatti, nel 1058 alla morte di Stefano IX (Federico cardinale a S. Crisogono, già abate di Montecassino, fratello del rivale dell’imperatore Goffredo di Lorena, e vicino ad Ildebrando), il Conte di Tuscolo Gregorio II, fratello di Benedetto IX, esprime ancora un orientamento anti imperiale e con una vasta alleanza di nobili che coinvolge oltre agli alleati conti di Galeria anche i tradizionali rivali Crescenzi, cerca di interrompere la serie di papi tedeschi per imporre al Laterano Benedetto X, Giovanni Mincio vescovo di Velletri, figlio di Guido dei Conti di Tuscolo figlio a sua volta di Alberico III. Il vescovo di Ostia Pier Damiani ne rifiuta l’investitura, portando a prevalere, con l’elezione a papa del vescovo di Firenze Niccolo II di Borgogna e l’alleanza con i Normanni e con la contessa Matilde di Toscana, gli interessi rappresentati da Ildebrando. Il futuro Gregorio VII, in Germania a tessere una fitta rete di diplomazie internazionali, a Roma provoca ribellioni finanziate dall’ebreo convertito Leone Baruch, suo parente per via materna e capostipite dei Pierleoni. I Normanni assediano e devastano Tuscolo, e le città alleate come Galeria (sulla via Clodia, ora scomparsa). Nel 1059 con il Concilio di Melfi Roberto il Guiscardo diventa duca di Puglie e Calabrie e giura fedeltà al papa, mentre la bolla In nomine Domini sgancia l’elezione pontificia dalla sua realizzazione nella sede di Roma, riservandola esclusivamente ai cardinali vescovi, lasciando all’aristocrazia romana un debole diritto di preferenza nominale, all’imperatore un diritto generico di considerazione, escludendone di fatto l’influenza.


palombara sabina
Il Castello Savelli
(Tania Simonetti-Marco Cacciotti) - Palombara Sabina è il centro agricolo della Sabina, il suo borgo antico si sviluppa con andamento concentrico attorno al maestoso Castello Savelli, eretto sopra un’altura conica ai piedi del massiccio calcareo di monte Gennaro che raggiunge i 1271 metri nella punta Zappi. Il Castello è menzionato per la prima volta, col nome di Palommagra, nel 1111, allorché apparteneva al conte Ottaviano: infatti il primo nucleo del Castello fu costruito dagli Ottaviani, in tutto occupava un ettaro di superficie, a forma di quadrilatero, con mura spesse circa due metri. In esso, nel 1111, il conte Ottaviano firmò l’atto di restituzione in favore dell’abate di San Giovanni. Il conte Ottaviano, ed i suoi successori, erano probabilmente dei Crescenzi, congiunti dei feudatari di Ponticelli. Non si sa come (forse per acquisto o per intreccio di parentele) agli Ottaviani, nel secolo XIII, succedettero i Savelli i quali, con l’ascesa al pontificato di Onorio III e, qualche decennio dopo, con quella di Onorio IV, riuscirono ad accrescere i loro possedimenti nella regione e ne divennero nel secolo successivo i feudatari esclusivi. La notorietà del Castello di Palombara andò via via diffondendosi e dentro le sue mura trovarono ospitalità papi, antipapi e imperatori quali Eugenio III, Enrico IV di Franconia e Federico Barbarossa. Nel 1180 vi venne arrestato l’antipapa Innocenzo; il papa Onorio IV (Giacomo Savelli) vi confermò, nel 1285, il proprio testamento. Il Castello era una vera roccaforte adatta a resistere agli assedi. L’originaria struttura medioevale, con l’alta torre opera degli Ottaviani, è stata completamente rinnovata dai Savelli, che utilizzarono alcune stanze per i processi della Corte Savella: (a Roma i Savelli avevano il loro tribunale e la loro prigione, che estendeva la sua giurisdizione a tutti i laici al servizio del papa), tribunale usato anche per giudicare alcuni cavalieri dell’ordine dei Templari (1310 ), in uno dei processi minori che fecero seguito a quello di Parigi e qui tenutosi per motivi di praticità, quali la sicurezza dei luoghi e la breve distanza da Roma, senza contare una finalità di ammonimento in una zona percorsa da movimenti eretici ispirati all’esigenza di riformare gli aspetti più sfarzosi della Chiesa. Le vicende personali dei Savelli, spesso cariche di violenza e di sangue, si intrecciarono spesso con quelle del paese, trascinandolo nelle loro tempestose vicende. Nel 1455 un Giacomo Savelli mise al bando alcuni vassalli per dei delitti da loro commessi. Questi rientrarono nel borgo con la forza e uccisero un figlio di lui in tenera età, offrendo poi il Castello a papa Calisto III, che però non approvò il loro operato, e fece restituire il Castello stesso ai suoi proprietari. Poco dopo la banda di Tiburzio e Valeriano di Maso, probabilmente seguaci del più celebre Stefano Porcari che aveva a Roma vanamente combattuto contro il potere temporale dei papi, pose a Palombara, con il favore di Giacomo Savelli e di Everso II dell’Anguillara, la sua principale base di azione per le rapine e i delitti che commise. Tiburzio fu catturato a Roma con alcuni dei suoi nel 1460 e fatto giustiziare sotto Pio II. Si decise pure di punire Giacomo Savelli e di tanto venne incaricato Federico d’Urbino, capitano della Chiesa, che assediò il paese nel 1461 costringendolo ad arrendersi. Giacomo fece a Roma pubblica ammenda e se la cavò con la confisca dei beni, tranne Palombara. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1482, Palombara fu occupata dalle soldatesche del re Ferdinando di Napoli e poi da quelle pontificie. Qualche anno dopo, ai primi del 1498, i Savelli, alleati con i Colonna, nel corso delle turbolente vicende seguite alla discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, resistettero accanitamente agli Orsini, ma, perduta ogni speranza di soccorso e di salvezza, Troilo Savelli che guidava la difesa, preferì dar fuoco all’abitato e abbattere le case del borgo pur di mantenere lontano il nemico. Quando lo scontro si chiuse per volere di papa Alessandro VI Borgia, che riuscì a portare al tavolo della pace nella Rocca Pia di Tivoli i due schieramenti rivali, Palombara era ormai un ammasso di rovine. Ma lo stesso Troilo, dopo aver distrutto il suo Castello, lo ricostruì, dotandolo per di più di nuove scuderie, rimesse, cantine, che vediamo a sinistra dell’arco d’ingresso. Inoltre ne consolidò la rocca e l’abbellì con un giardinetto pensile affacciato su di un amplissimo, inimitabile paesaggio. Si deve a Trailo anche la decisione di affrescare la cappellina e l’ala del Castello prescelta come abitazione signorile. Nel febbraio del 1532, Benvenuto Cellini (1500-71), ricercato a Roma perché coinvolto in una rissa nel corso della quale aveva gravemente ferito il suo avversario, vi trovò rifugio in attesa del perdono papale; come l’artista racconta nella sua autobiografia «montai su di un caval morello turco, il più bello ed il miglior di Roma, con un archibuso a ruota dinanzi all’arcione, e con quanta più fretta io potretti me ne andai a Palombara, luogo del Giovanbattista Savelli». Sempre nel Castello, il 29 maggio 1602, nacque Virginia Savelli, poi sposa del duca Piero Farnese, una vita tormentata da gravi avversità familiari e finanziarie, fondatrice, nel 1646, del Monastero di Santa Maria dei Sette Dolori a Roma, sede della Congregazione delle Oblate Agostiniane. Altri rinnovamenti, al Castello, furono eseguiti nel 1560 e una caratteristica creazione dei Savelli fu la galleria coperta, ma percorribile anche esternamente, lunga 83 m. e fornita di 37 feritoie; era chiamata “soccorso”, perché poteva essere attraversata di corsa dai balestrieri fino al torrione, potendo poi tornare alla rocca senza esser visti e controllare così la difesa del Castello. Esso rimase ai Savelli fino al 1637, quando il duca Bernardino e suo fratello, abate Fabrizio, autorizzati da chirografo di Urbano VIII, lo vendettero a Marcantonio Borghese per la somma di 385.000 scudi. Passò poi ai Torlonia nel 1893, diventando via via sede di un’azienda agricola, abitazione, uffici e carcere. Fu comprato dai Cesarini Sforza nel 1949; da essi lo comprò l’amministrazione comunale, che lo ha sottoposto a restauro con l’intento di destinarlo a centro culturale e sede di un museo territoriale. Infatti, alcuni locali dell’ala occidentale, il cosiddetto Palazzo di Giacomo (Giacomo Savelli che nella seconda metà del ‘400 curò la ristrutturazione della rocca), sono stati destinati a sede del Museo territoriale della Sabina Tiberina meridionale. L’edificio attuale risale al sec. XVI ed ha una torre costruita nel sec. XV. Essa era alta in origine m. 23,33, divisa in 5 piani; nel sec. XVI fu coronata di piombatoie e merli. Le più belle sale del Castello sono decorate da affreschi del 1500 della scuola di Raffaello.
Bibliografia: (Istituto Italiano Castelli-Lazio, www.castit.it - Provincia di Roma- Bonechi- Rendina-Bonaventura)

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