tuscolo
Tuscolo verso la distruzione (1 di 4)
(Claudio Comandini) - I possedimenti tuscolani nei secoli XI
e XII comprendono la rocca e la città sulla collina al centro della Valle
Latina, circondata dalle ville patrizie, dalla suburra e dal castello di
Molara, ed inoltre i siti degli attuali comuni di Frascati, Grottaferrata,
Monteporzio, Montecompatri, Colonna, Rocca Priora, Rocca di Papa (che
compongono ancora la diocesi tuscolana), con propaggini che coinvolgono le
zone di Marino, Albano, Ariccia, Genzano, Nemi, Lanuvio, Lariano e
Zagarolo. La zona dell’Algido è popolata di chiese e monasteri di S.
Aurea, S. Nicola, S. Biagio, di proprietà dell’Abbazia dei monaci
basiliani di S. Nilo (Grottaferrata). Il territorio si muove fra dolci
colline e piccoli laghi, su cui spicca con i suoi boschi la mole del mons
Albanum (monte Cavo), e si prolunga al confine della via Labicana
(parzialmente ripercorsa dall’attuale Casilina), di cui i Conti di
Tuscolo controllano le Due Torri (o Torrione) di colle Carcariola, nella
prima parte della via Appia fino alla fortificata villa dei Quintili, con
il “castello” di Cecilia Metella e la valle della Caffarella, nel
tratto della via Latina al km. 2 dell’attuale via Anagnina, con il
castello di Borghetto e il Torraccio della Marrana, e la via Tuscolana
fino alla congiunzione con la via Latina, con il torrione di Micara
(presunto sepolcro di Lucullo) e di Tor di Mezza Via (una costruzione più
antica dell’attuale). A Roma sono attestate le proprietà del palazzo di
via Lata (S.S. Apostoli - via del Corso) e la Torre dei Conti, il circo di
Massenzio e la tomba di Romolo, Silva Candida (via Clodia) e Porto
(Fiumicino), Ninfa e Norma nella palude Pontina, e inoltre zone costiere
come Nettuno, Terracina e Torre Astura, estendendo la sua influenza a zone
del viterbese come Celleno e Mazzano. Questo territorio è soggetto in
questo stesso periodo, fra spartizioni patrimoniali e divisioni politiche,
ad una progressiva erosione. Nell’area più prossima alla città antica
sono stimati10.000 abitanti.
Quello che ancora oggi riusciamo a vedere di questo paesaggio perduto non
prescinde da contributi preziosi come quelli di Gregorovius, Nibby,
Tabacco, Rendina, Mergè, Lombardi, Devoti e Del Nero, di differenti
impostazioni ma comunque costruiti sulla base di rigorose documentazioni e
pertinenti contestualizzazioni, che possono permetterci di allargare
l’orizzonte di riferimento di eventi nei quali la dimensione locale si
associa ai grandi movimenti della storia.
Ora, se i feudi tuscolani non sembrano essere intaccati dal forte tracollo
politico dei Conti di Tuscolo seguito alla definitiva estromissione nel
1048 del papa Benedetto IX, la loro economia curtense di sussistenza e di
scambio, che favoriva l’imposizione di pedaggi ed altre gabelle, viene
fortemente depressa dallo sviluppo su aree extraregionali e internazionali
dei traffici mercantili a base monetaria e finanziaria. Il processo che
complessivamente viene a compiersi è quello descritto da Marx nel primo
libro del Capitale come “transizione” (Ubergang), dove inizialmente il
mantenimento della base economica feudale favorisce la sedenterizzazione e
la crescita dei ceti borghesi, che successivamente prevalgono instaurando
una diversa base di organizzazione materiale. Sostanzialmente, accade che
proprio l’azione dei discendenti di Teofilatto, sia nell’accentramento
di potere sviluppato a Roma con il “papato di famiglia” che nei legami
internazionali stabiliti dalla renovatio imperi, così radicata nei
riferimenti di un mondo antico, sia uno degli elementi decisivi nel
favorire lo sviluppo mercantile che porta una organizzazione sociale ed
economica basata sulla concessione fiduciaria di terre amministrate con
“beneficio del possesso” (feudo), verso un modo di produzione dove la
ricchezza collettiva ottenuta dal lavoro è subordinata alla proprietà
privata dei mezzi di produzione (capitale). L’ereditarietà dei feudi si
accompagna alla crescita di nuovi contratti di locazione che provocano una
maggiore mobilità sociale, le attività iniziano a specializzarsi e i
terreni a produrre in eccedenza. Si sviluppano l’artigianato e i
commerci, che, anche sotto la spinta dell’incremento demografico,
richiede nuovi spazi, determinando modalità di azione e di pensiero che
preparano i grandi mutamenti che precedono la modernità, pur se nella
mentalità collettiva continua a prevalere l’adesione ad un sistema di
valori orientato verso la trascendenza religiosa, che ha in Roma il suo
riferimento simbolico ed effettuale.
L’importanza di Tuscolo entra in crisi e inizia a decadere con quella
del sistema di governo che la sua aristocrazia aveva espresso: la
concentrazione del potere religioso e amministrativo in clan familiari a
base territoriale non regge alla pressione di equilibri internazionali in
forte ristrutturazione, che vedono elementi molto diversi interagire in un
contesto dal complesso sviluppo. Con il Sinodo di Sutri (1046) Enrico III
di Franconia arriva a stabilire il diritto imperiale di nominare pontefici
e concili, mentre le scomuniche reciproche fra il patriarca di
Costantinopoli Michele Cerulario e Leone IX di Egisheim-Dagsburg
sanciscono lo scisma definitivo (1054) fra le posizioni delle chiese
d’oriente e d’occidente. La chiesa di Roma reagisce con
l’accentramento e la solennizzazione del suo potere espresso da
Ildebrando da Soana anche prima della sua nomina a Gregorio VII;
l’impero continua a rivendicare i diritti dei suoi uffici nella gestione
della chiesa e dei territori italiani; prosegue il processo di formazione
del Comune da parte di borghesia e mercanti; la spregiudicata iniziativa
della potenza bellica dei Normanni (chiamati anche Vichinghi), popolazione
seminomade originaria della Scandinavia, che già ha occupato il nord
della Francia, sta completando la conquista dell’Inghilterra, e che
inizia a prevalere sul meridione bizantino e sulla Sicilia araba fatimida,
con una iniziale vassallaggio al duca di Napoli di Rainulfo Drengot e a
Guamario di Salerno di Guglielmo, sconfiggendo papa Leone IX (1053) e poi
diventando alleati della Chiesa. La definizione degli interessi di queste
componenti conosce nel suo sviluppo frequenti cambiamenti negli
adattamenti reciproci e nelle condizioni che vengono a porsi i diversi
poteri: in pratica, sembra non esserci un sistema di alleanze fisso.
Piuttosto, un “potere” immenso e imprescindibile sembra dominare gli
uomini, un potere dal quale sono costretti senza più nessuna riluttanza
alle più accese condizioni di conflitto, tenuti insieme da
un’aggrovigliata serie di relazioni dinastiche, vere, presunte o
desiderate, che li porta continuamente a modificare alleanze all’interno
di uno stato di guerra permanente. Infatti, nel 1058 alla morte di Stefano
IX (Federico cardinale a S. Crisogono, già abate di Montecassino,
fratello del rivale dell’imperatore Goffredo di Lorena, e vicino ad
Ildebrando), il Conte di Tuscolo Gregorio II, fratello di Benedetto IX,
esprime ancora un orientamento anti imperiale e con una vasta alleanza di
nobili che coinvolge oltre agli alleati conti di Galeria anche i
tradizionali rivali Crescenzi, cerca di interrompere la serie di papi
tedeschi per imporre al Laterano Benedetto X, Giovanni Mincio vescovo di
Velletri, figlio di Guido dei Conti di Tuscolo figlio a sua volta di
Alberico III. Il vescovo di Ostia Pier Damiani ne rifiuta l’investitura,
portando a prevalere, con l’elezione a papa del vescovo di Firenze
Niccolo II di Borgogna e l’alleanza con i Normanni e con la contessa
Matilde di Toscana, gli interessi rappresentati da Ildebrando. Il futuro
Gregorio VII, in Germania a tessere una fitta rete di diplomazie
internazionali, a Roma provoca ribellioni finanziate dall’ebreo
convertito Leone Baruch, suo parente per via materna e capostipite dei
Pierleoni. I Normanni assediano e devastano Tuscolo, e le città alleate
come Galeria (sulla via Clodia, ora scomparsa). Nel 1059 con il Concilio
di Melfi Roberto il Guiscardo diventa duca di Puglie e Calabrie e giura
fedeltà al papa, mentre la bolla In nomine Domini sgancia l’elezione
pontificia dalla sua realizzazione nella sede di Roma, riservandola
esclusivamente ai cardinali vescovi, lasciando all’aristocrazia romana
un debole diritto di preferenza nominale, all’imperatore un diritto
generico di considerazione, escludendone di fatto l’influenza.
palombara
sabina
Il Castello Savelli
(Tania Simonetti-Marco Cacciotti) - Palombara Sabina è il
centro agricolo della Sabina, il suo borgo
antico
si sviluppa con andamento concentrico attorno al maestoso Castello Savelli,
eretto sopra un’altura conica ai piedi del massiccio calcareo di monte
Gennaro che raggiunge i 1271 metri nella punta Zappi. Il Castello è
menzionato per la prima volta, col nome di Palommagra, nel 1111, allorché
apparteneva al conte Ottaviano: infatti il primo nucleo del Castello fu
costruito dagli Ottaviani, in tutto occupava un ettaro di superficie, a
forma di quadrilatero, con mura spesse circa due metri. In esso, nel 1111,
il conte Ottaviano firmò l’atto di restituzione in favore dell’abate
di San Giovanni. Il conte Ottaviano, ed i suoi successori, erano
probabilmente dei Crescenzi, congiunti dei feudatari di Ponticelli. Non si
sa come (forse per acquisto o per intreccio di parentele) agli Ottaviani,
nel secolo XIII, succedettero i Savelli i quali, con l’ascesa al
pontificato di Onorio III e, qualche decennio dopo, con quella di Onorio
IV, riuscirono ad accrescere i loro possedimenti nella regione e ne
divennero nel secolo successivo i feudatari esclusivi. La notorietà del
Castello di Palombara andò via via diffondendosi e dentro le sue mura
trovarono ospitalità papi, antipapi e imperatori quali Eugenio III,
Enrico IV di Franconia e Federico Barbarossa. Nel 1180 vi venne arrestato
l’antipapa Innocenzo; il papa Onorio IV (Giacomo Savelli) vi confermò,
nel 1285, il proprio testamento. Il Castello era una vera roccaforte
adatta a resistere agli assedi. L’originaria struttura medioevale, con
l’alta torre opera degli Ottaviani, è stata completamente rinnovata dai
Savelli, che utilizzarono alcune stanze per i processi della Corte Savella:
(a Roma i Savelli avevano il loro tribunale e la loro prigione, che
estendeva la sua giurisdizione a tutti i laici al servizio del papa),
tribunale usato anche per giudicare alcuni cavalieri dell’ordine dei
Templari (1310 ), in uno dei processi minori che fecero seguito a quello
di Parigi e qui tenutosi per motivi di praticità, quali la sicurezza dei
luoghi e la breve distanza da Roma, senza contare una finalità di
ammonimento in una zona percorsa da movimenti eretici ispirati
all’esigenza di riformare gli aspetti più sfarzosi della Chiesa. Le
vicende personali dei Savelli, spesso cariche di violenza e di sangue, si
intrecciarono spesso con quelle del paese, trascinandolo nelle loro
tempestose vicende. Nel 1455 un Giacomo Savelli mise al bando alcuni
vassalli per dei delitti da loro commessi. Questi rientrarono nel borgo
con la forza e uccisero un figlio di lui in tenera età, offrendo poi il
Castello a papa Calisto III, che però non approvò il loro operato, e
fece restituire il Castello stesso ai suoi proprietari. Poco dopo la banda
di Tiburzio e Valeriano di Maso, probabilmente seguaci del più celebre
Stefano Porcari che aveva a Roma vanamente combattuto contro il potere
temporale dei papi, pose a Palombara, con il favore di Giacomo Savelli e
di Everso II dell’Anguillara, la sua principale base di azione per le
rapine e i delitti che commise. Tiburzio fu catturato a Roma con alcuni
dei suoi nel 1460 e fatto giustiziare sotto Pio II. Si decise pure di
punire Giacomo Savelli e di tanto venne incaricato Federico d’Urbino,
capitano della Chiesa, che assediò il paese nel 1461 costringendolo ad
arrendersi. Giacomo fece a Roma pubblica ammenda e se la cavò con la
confisca dei beni, tranne Palombara. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1482,
Palombara fu occupata dalle soldatesche del re Ferdinando di Napoli e poi
da quelle pontificie. Qualche anno dopo, ai primi del 1498, i Savelli,
alleati con i Colonna, nel corso delle turbolente vicende seguite alla
discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, resistettero accanitamente
agli Orsini, ma, perduta ogni speranza di soccorso e di salvezza, Troilo
Savelli che guidava la difesa, preferì dar fuoco all’abitato e
abbattere le case del borgo pur di mantenere lontano il nemico. Quando lo
scontro si chiuse per volere di papa Alessandro VI Borgia, che riuscì a
portare al tavolo della pace nella Rocca Pia di Tivoli i due schieramenti
rivali, Palombara era ormai un ammasso di rovine. Ma lo stesso Troilo,
dopo aver distrutto il suo Castello, lo ricostruì, dotandolo per di più
di nuove scuderie, rimesse, cantine, che vediamo a sinistra dell’arco
d’ingresso. Inoltre ne consolidò la rocca e l’abbellì con un
giardinetto pensile affacciato su di un amplissimo, inimitabile paesaggio.
Si deve a Trailo anche la decisione di affrescare la cappellina e l’ala
del Castello prescelta come abitazione signorile. Nel febbraio del 1532,
Benvenuto Cellini (1500-71), ricercato a Roma perché coinvolto in una
rissa nel corso della quale aveva gravemente ferito il suo avversario, vi
trovò rifugio in attesa del perdono papale; come l’artista racconta
nella sua autobiografia «montai su di un caval morello turco, il più
bello ed il miglior di Roma, con un archibuso a ruota dinanzi
all’arcione, e con quanta più fretta io potretti me ne andai a
Palombara, luogo del Giovanbattista Savelli». Sempre nel Castello, il 29
maggio 1602, nacque Virginia Savelli, poi sposa del duca Piero Farnese,
una vita tormentata da gravi avversità familiari e finanziarie,
fondatrice, nel 1646, del Monastero di Santa Maria dei Sette Dolori a
Roma, sede della Congregazione delle Oblate Agostiniane. Altri
rinnovamenti, al Castello, furono eseguiti nel 1560 e una caratteristica
creazione dei Savelli fu la galleria coperta, ma percorribile anche
esternamente, lunga 83 m. e fornita di 37 feritoie; era chiamata
“soccorso”, perché poteva essere attraversata di corsa dai
balestrieri fino al torrione, potendo poi tornare alla rocca senza esser
visti e controllare così la difesa del Castello. Esso rimase ai Savelli
fino al 1637, quando il duca Bernardino e suo fratello, abate Fabrizio,
autorizzati da chirografo di Urbano VIII, lo vendettero a Marcantonio
Borghese per la somma di 385.000 scudi. Passò poi ai Torlonia nel 1893,
diventando via via sede di un’azienda agricola, abitazione, uffici e
carcere. Fu comprato dai Cesarini Sforza nel 1949; da essi lo comprò
l’amministrazione comunale, che lo ha sottoposto a restauro con
l’intento di destinarlo a centro culturale e sede di un museo
territoriale. Infatti, alcuni locali dell’ala occidentale, il cosiddetto
Palazzo di Giacomo (Giacomo Savelli che nella seconda metà del ‘400 curò
la ristrutturazione della rocca), sono stati destinati a sede del Museo
territoriale della Sabina Tiberina meridionale. L’edificio attuale
risale al sec. XVI ed ha una torre costruita nel sec. XV. Essa era alta in
origine m. 23,33, divisa in 5 piani; nel sec. XVI fu coronata di
piombatoie e merli. Le più belle sale del Castello sono decorate da
affreschi del 1500 della scuola di Raffaello.
Bibliografia: (Istituto Italiano Castelli-Lazio, www.castit.it -
Provincia di Roma- Bonechi- Rendina-Bonaventura)
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