grottaferrata
San Nilo: Millenario 1004 - 2004 (quinta parte)
(Massimo Medici) - Le cerimonie del Rito Bizantino-Greco.
Nell’articolo precedente si era accennato alle ragioni per le quali,
nell’Abbazia di S. Nilo a Grottaferrata, sia in vigore il Rito
Bizantino-Greco, che è tipico dell’Europa Orientale. Cerchiamo, ora, di
descrivere le cerimonie più frequenti. È bene ricordare che, come tutti
i riti orientali, anche questo è molto complesso e suggestivo, sia a
causa dei paramenti molto ricchi degli officianti, che delle numerose e
lunghe preghiere spesso mormorate, che dei solenni canti liturgici in
lingua greca.
Nell’impossibilità di descrivere in modo esaustivo tutte le parti di
questo rito, se ne dà un breve cenno di una piccola parte, tenendo
presenti quegli aspetti che più colpiscono il visitatore, senza
addentrarci nelle profonde ragioni teologiche e storiche che sottendono la
sua intima essenza.
Se osserviamo con una certa attenzione l’atto del benedire, ci avvediamo
che il celebrante non alza la mano destra tenendo il pollice, l’indice e
il medio distanti tra loro, come è d’uso in tutte le chiese di Rito
latino, ma appoggia il pollice all’anulare, mentre l’indice è teso e
le altre due dita alquanto piegate. La risposta è che la posizione delle
dita forma l’abbreviazione greca del nome di Gesù: ICXC.
Un’altra particolarità, che non dovrebbe sfuggire all’occhio del
visitatore, sta nel Segno della Croce: non viene tracciato con la mano
aperta, come nel Rito latino, ma tenendo il pollice, l’indice ed il
medio uniti fra loro. Questo segno lo si fa molto spesso e sempre ogni
qualvolta vengano nominate le Tre Persone della Trinità. Inoltre, ma qui
bisogna essere degli attenti osservatori, si può notare, in questi atti,
anche un impercettibile inchino.
Un’altra particolarità propria della Liturgia Eucaristica Bizantina, è
l’impiego dello “zéon”, cioè versare nel calice, prima della
Comunione, un po’ di acqua bollente, volendo con questo significare che
il Sangue dell’Eucaristia è di una persona viva.
Ed ancora: nelle celebrazioni solenni, l’ “Egumeno”(cioè l’Abate)
porta una corona impreziosita da pietre lucenti, il pastorale e l’
“epigonàtion” cioè una piccola borsa a forma di rombo appesa alla
cintura.
Sono queste le particolarità che generalmente colpiscono di più il
visitatore che assiste per la prima volta a cerimonie solenni in un tempio
di Rito Orientale.
Un’altra cosa alquanto strana per lui è che, quando si entra, non si
vede l’altare, che, invece, è la prima cosa che si scorge di norma in
una chiesa di Rito Latino.
Ad un esame più attento, ci si avvede che questo è nascosto dietro una
tenda rossa che viene aperta e chiusa più volte durante le varie fasi
dell’Ufficio, svelando all’interno un piccolo, suggestivo ambiente.
Tutt’intorno, delle icone ci guardano severe figure di santi con quella
fissità immobile della persona quasi schiacciata sul fondo del quadro
senza terza dimensione; senza la profondità che è propria di quelle
sacre rappresentazioni, anch’esse tipiche dell’Europa Orientale di
qualche secolo fa.
Entrati, a questo punto, alquanto nell’atmosfera di questi templi,
tenteremo di descrivere, a grandi linee, le cerimonie che riguardano sia i
Sacramenti dell’iniziazione cristiana che il matrimonio; quest’ultimo
notevolmente fastoso e complesso.
La prima iniziazione si ha con il Battesimo che è “per immersione” e
non “per aspersione”. Il che vuol dire che il bambino viene immerso,
dal sacerdote, per tre volte in una capiente fonte battesimale piena
d’acqua opportunamente riscaldata, mentre alcuni chierici cantano
antiche preghiere nella liturgia greca alla luce di una candela impugnata
da un sacerdote, anch’egli orante. Subito dopo riceve anche la Cresima e
la Comunione. Quest’ultima avviene secondo l’antichissima usanza del
pane e del vino che vengono introdotti, con molta attenzione, nella bocca
del bambino. Tre cerimonie in una: è una caratteristica del Rito
Bizantino-Greco.
Descriviamo, ora, la bella e solenne cerimonia del matrimonio: le vesti
del celebrante sono molto ricche, mentre i canti, melodie provenienti da
antichissimi manoscritti bizantini (furono oggetto di attento studio da
parte di monaci che si sono dedicati alla ricerca storica su quelle
pagine), non sono accompagnati da nessuno strumento musicale. La
particolarità di quegli scritti è che quelle armonie non si avvalgono, a
differenza di quelle moderne, del pentagramma, ma usano una serie di segni
chiamati “nèumi” di diverso valore fonico tra loro, che indicano
battute ed intervalli musicali partendo dalla chiave attraverso una nota
iniziale.
Per prima cosa avviene il “fidanzamento” che consiste
nell’accoglienza che il sacerdote fa ai nubendi sulla soglia del tempio.
Levando in alto il vangelo ascolta le loro voci che dichiarano di essere
liberi da qualsivoglia altro legame e di voler convolare a nozze in quella
chiesa. Detto ciò, dopo aver baciato entrambi il Sacro Libro, entrano nel
tempio preceduti dal sacerdote, tenendo in mano una candela accesa. Si
fermano, un poco prima dell’altare, dietro un piccolo tavolo sul quale
sono poggiate due corone d’oro ed il Vangelo.
Da questo momento in poi, fra canti e nuvole d’incenso, c’è lo
scambio degli anelli, l’offerta di un mazzo di fiori alla sposa mentre
si recitano lunghe preghiere in greco. L’officiante, durante la
cerimonia, spesso leva in alto il Vangelo, mentre un chierico, al lato
degli sposi, legge alcuni brani di preghiere aventi per argomento la
fedeltà ed il reciproco amore, ricordando che Dio stesso, per primo, ci
ama.
Si canta “l’Alleluja” finché si arriva alla Comunione che è fatta,
anche in questo caso, nelle due specie del vino e del pane. Il sacerdote
leva in alto, ancora una volta, il Vangelo e porge una corona allo sposo
che la bacia e la pone sulla testa della sposa. Poi l’officiante le
prende entrambe e le alza al cielo e, dopo averle mosse verso l’alto
alcune volte, le rimette, invertendole, sulla testa degli sposi. Questo
gesto vuol significare che non vi saranno né re né regine, ma entrambi
formeranno un solo nucleo. Indi porge un calice allo sposo che ne beve e
lo cede alla sposa che ne beve anch’essa. Poi, sia il sacerdote che i
due sposi, questi con una candela in mano, girano pregando per tre volte
intorno al tavolo sul quale erano poggiate le due corone ed il Vangelo.
Toglie la corona allo sposo e gliela fa baciare. Lo stesso avviene per la
sposa; quindi alza al cielo nuovamente il Vangelo recitando ad alta voce
alcune preghiere ed esortando i due a condurre una vita seguendo gli
insegnamenti di quello. I canti si levano più alti. Infine gli fa baciare
il Sacro Libro, invitando gli sposi a baciarsi fra di loro. La cerimonia
è finita: bella, suggestiva e commovente.
(continua)
grottaferrata
S. Nilo e i suoi tempi - 7
(Claudio Comandini) - 6. Le meditazioni dell’eremita Nilo
(seconda parte)
Con il programma di non eccedere nello zelo e di non esporsi a lodi,
evitando quindi occasioni per coltivare superbia, Nilo si applica nello
studio del Nazianzeno, e si ciba perlopiù di pane ed acqua e di legumi
cotti su una mensa di pietra, usando come piatto un frammento di coccio, e
d’estate di frutta fresca, cercando di farsi bastare carrube selvatiche,
bacche di mirto e corbezzoli. Se evita digiuni di quaranta giorni, durante
sessanta giorni mangia solo due volte, come aveva anche appreso da storie
di Teodoreto riguardanti una donna. Trascorre undici mesi senza bere,
mangiando pane rifatto dopo il tramonto, ottenendone lo sviluppo di due
virtù: la temperanza, per la quale, come è attribuito dal Caryofilo
all’abate Teona, è utile bere poco, e la mortificazione della vanità
del pensiero, che dubita delle opere dei santi. Nilo evita comunque gli
eccessi nei digiuni dell’acqua, limitandoli ad otto giorni (seguendo il
Salmo CXXVIII (CXXVII): 25, e Isaia XXXVIII: 16). Nei giorni di quaresima
non beve, e si reca presso i vicini cenobi per nutrirsi dell’eulogia (antidoron),
nel rito bizantino “i residui dei pani da cui si estraggono le oblate
per il Divino Sacrificio” (Giovannelli). La circostanza dimostra che
anche monaci eremiti come Nilo, il suo collega Stefano e prima ancora S.
Saba, andavano ai cenobi vicini per assistere alle messe, nutrendosi
appunto di questi pani benedetti che Giovannelli descrive piuttosto che
come “ostie” quali “panini di una certa grandezza”.
Ora, per focalizzare gli effettivi contesti di senso, consideriamo le
relazioni fra rito e parole. Già nella preghiera del Padre Nostro la
parola greca epioùsion è tradotta in Luca XI: 3 con “pane
quotidiano”, e in Matteo VI: 11 con “pane soprasostanziale”,
chiarendo il senso sovrasensibile del Sacramento dell’Eucaristia, con
cui si compie la presenza nella comunità del Cristo e l’edificazione
della comunità dei credenti.
La parola sacramentum usata nel mondo latino in riferimento ai rituali
religiosi ha come significati originari quelli di “giuramento di fedeltà
alla bandiera dei militari” e di “somma di denaro depositata in un
processo civile”, riducendo a determinazioni militari e giuridiche
legate ad un “simbolo” la portata del concetto espresso dalla parola
greca mistèrion to (“misteri”, al plurale), usata originariamente in
riferimento ai riti Eleusini e adoperato dai cristiani per la dottrina
soprasensibile, e successivamente adattata con una diversa sfumatura nel
latino misteryum (mistero, singolare). Per Agostino il “sacramento” è
quindi un simbolo che “produce” la realtà che significa, e indica e
contiene la vita divina in Cristo come “segno visibile di un’azione
invisibile”; per Ugo di S. Vittore è un “segno esterno” che
contiene la grazia in quanto istituito da Cristo, e per Tommaso vi operano
forma sacramenti e materia sacramenti, la parola (la consacrazione e il
segno), e il segno (pane e vino). Se la religiosità latina pone un
accento sull’efficacia oggettiva della pratica formale del sacramento,
che può provocare anche interpretazioni magiche, nel primo cristianesimo
e in quello orientale si mantiene in maniera più evidente già nel
livello linguistico il riferimento ai “misteri”.
Nilo compie penitenza anche la notte, dormendo solo un’ora per poter
digerire, poi recitando il salterio e facendo cinquecento metanie e, dopo
l’appello della simantra, recitando le preghiere del Mesonicticòn e del
Mattutino. Ora le pratiche bizantine hanno una spiccata particolarità, e
oltre a ricordarne il nome, è opportuno descriverne alcune: il Mattutino
è la preghiera dell’alba, una delle Ore Maggiori della preghiera, che
erano Mattutino, Vèspero, Apòdipnon (Compieta), recitate nella chiesa
grande. Le Ore Minori, recitate nel nartece, erano Prima, Terza, Sesta,
Nona e Mesonicticòn: Mesonicticòn è la preghiera di mezzanotte, fatta
ad imitazione di David e Paolo e raccomandata da S. Basilio, con gonoclisìe,
prostrazioni, di due tipi, piegando o solo il busto o prostrando tutto il
corpo a terra, prescritte nelle tre quaresime bizantine: preparative a
Pasqua, a Natale, e ai Ss. Pietro e Paolo.
Nilo considerava di doversi impegnare nella fede più nei monaci ordinari,
la cui azione aveva anche una ricaduta pratica. Vestito di una pelle di
capra, che cambiava una volta l’anno (ne aveva due), per cinta una fune,
che scioglieva una volta l’anno sopportando gli insetti, da cui si
ripuliva, secondo il Bios addirittura “punendoli” per essersi permessi
di dargli fastidio, appendendo la tunica sopra un formicaio.
Privo di letto, sedia, armadio, arca, borsa, bisaccia, non aveva neanche
il calamaio, e scriveva sulla cera. Di tutte le sue opere, ne restano tre
(studiate da Gassisi su Oriens Christ. IV,1905 Roma): il codice B a XIX,
che contiene opere ascetiche e dogmatiche del B. Marco Monaco, discepolo
di Giovanni Grisostomo, l’ascetica del B. Diacono, vescovo di Fotice
nell’Epiro (V sec.) e un discorso di Basilio di Seleucia; il codice B a
XX, dottrine di S. Doroteo, egumeno in Palestina (inizi VII sec.), due
scritti di S. Giovanni Crisostomo e del metropolita Teodosio di Durazzo
(in S. Doroteo è contenuta la citazione della disfatta bizantina a
Rametta); il codice B b. I, che contiene la Istoria Lausiaca di Palladio,
vescovo di Elenopoli, in Bitinia, che contiene 420 biografie di monaci
egiziani del deserto.
Coltivando povertà, umiltà e mortificazione, veglie e orazione,
solitudine e castità, mettendo a dura prova se stesso, viene tentato e
illuso diabolicamente sui modi e contenuti della fede. Se le sue
tentazioni sono molteplici, mantiene con perseveranza il proposito di
preferire la morte ad una “gloria vanificata” (I Corinti IX: 15). Ed
ecco che gli sembra di essere così gonfio da non entrare nella grotta,
uscendone per intrattenere allucinati e derisori dialoghi con i suoi
fratelli, immaginati negli alberi; resiste alla visione di un’entità di
fiamma sull’altare chiudendo gli occhi; ha forti attacchi di libidine,
per cui si rotola nelle spine, e assiste addirittura a scene di
squartamenti fra demoni. A Roma per consultare libri e in pellegrinaggio
alle catacombe dei Martiri e ai sepolcri degli Apostoli di S. Sebastiano
(piena di graffiti poliglotti), vede una tedesca dall’imponente
bellezza, da cui è fortemente attratto e che gli resta ossessivamente
impressa. E in ginocchio di fronte all’altare confessa la sua debolezza
(la narrazioni per immagini del Domenichino - affresco nella Cappella
Farnese - incastona il crocefisso in un albero e ritrae Nilo assorto) e
una mano del Crocefisso si stacca e lo benedice, segnandolo tre volte.
Mentre è nella grotta, a un monaco gli chiede di poter restare, Nilo gli
consiglia di dare inoltre le tre monete che aveva con sé ai poveri. Con
Nilo impara la calligrafia, ma presto si stanca dell’ascesi. Astenendosi
dal redarguirlo (Matteo V: 22), un giorno gli dice pacatamente che può
pure andarsene: questi con sdegno reclama le sue tre monete, e Nilo gli
consiglia di farne “domanda per iscritto” e porla sull’altare per
averne “il ricambio nel regno dei cieli”. L’ex monaco muore poco
dopo aver prese le monete al Castello (annota con puntualità il
Giovannelli, forse il Castello del Mercurion e monastero del Castellano,
dove si rifugiò il beato Stefano in una scorreria di Saraceni, e dove
Nilo condusse il beato Giorgio, ma considerando che un monastero con tale
dedica esiste in realtà vicino a Palmi, tale il Castello dovrebbe essere
quello di Laino, e non quello di Seminara). Nella grotta Nilo compone tre
salteri, impiegando quattro giorni per uno, soddisfacendo così il debito.
Impedimenti corporali lo distolgono dalla preghiera e un tumore alla gola
lo rende muto e gli impedisce di mangiare: riconosciuta la malattia come
forma della tentazione diabolica, Nilo si accontenta di pane e acqua, e
“non potendo pregare con la voce, lo faceva col pensiero”.
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