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Sommario anno XIII numero 9 - settembre 2004

 I NOSTRI PAESI - pagina 10

grottaferrata
San Nilo: Millenario 1004 - 2004 (quinta parte)
(Massimo Medici) - Le cerimonie del Rito Bizantino-Greco.
Nell’articolo precedente si era accennato alle ragioni per le quali, nell’Abbazia di S. Nilo a Grottaferrata, sia in vigore il Rito Bizantino-Greco, che è tipico dell’Europa Orientale. Cerchiamo, ora, di descrivere le cerimonie più frequenti. È bene ricordare che, come tutti i riti orientali, anche questo è molto complesso e suggestivo, sia a causa dei paramenti molto ricchi degli officianti, che delle numerose e lunghe preghiere spesso mormorate, che dei solenni canti liturgici in lingua greca.
Nell’impossibilità di descrivere in modo esaustivo tutte le parti di questo rito, se ne dà un breve cenno di una piccola parte, tenendo presenti quegli aspetti che più colpiscono il visitatore, senza addentrarci nelle profonde ragioni teologiche e storiche che sottendono la sua intima essenza.
Se osserviamo con una certa attenzione l’atto del benedire, ci avvediamo che il celebrante non alza la mano destra tenendo il pollice, l’indice e il medio distanti tra loro, come è d’uso in tutte le chiese di Rito latino, ma appoggia il pollice all’anulare, mentre l’indice è teso e le altre due dita alquanto piegate. La risposta è che la posizione delle dita forma l’abbreviazione greca del nome di Gesù: ICXC.
Un’altra particolarità, che non dovrebbe sfuggire all’occhio del visitatore, sta nel Segno della Croce: non viene tracciato con la mano aperta, come nel Rito latino, ma tenendo il pollice, l’indice ed il medio uniti fra loro. Questo segno lo si fa molto spesso e sempre ogni qualvolta vengano nominate le Tre Persone della Trinità. Inoltre, ma qui bisogna essere degli attenti osservatori, si può notare, in questi atti, anche un impercettibile inchino.
Un’altra particolarità propria della Liturgia Eucaristica Bizantina, è l’impiego dello “zéon”, cioè versare nel calice, prima della Comunione, un po’ di acqua bollente, volendo con questo significare che il Sangue dell’Eucaristia è di una persona viva.
Ed ancora: nelle celebrazioni solenni, l’ “Egumeno”(cioè l’Abate) porta una corona impreziosita da pietre lucenti, il pastorale e l’ “epigonàtion” cioè una piccola borsa a forma di rombo appesa alla cintura.
Sono queste le particolarità che generalmente colpiscono di più il visitatore che assiste per la prima volta a cerimonie solenni in un tempio di Rito Orientale.
Un’altra cosa alquanto strana per lui è che, quando si entra, non si vede l’altare, che, invece, è la prima cosa che si scorge di norma in una chiesa di Rito Latino.
Ad un esame più attento, ci si avvede che questo è nascosto dietro una tenda rossa che viene aperta e chiusa più volte durante le varie fasi dell’Ufficio, svelando all’interno un piccolo, suggestivo ambiente. Tutt’intorno, delle icone ci guardano severe figure di santi con quella fissità immobile della persona quasi schiacciata sul fondo del quadro senza terza dimensione; senza la profondità che è propria di quelle sacre rappresentazioni, anch’esse tipiche dell’Europa Orientale di qualche secolo fa.
Entrati, a questo punto, alquanto nell’atmosfera di questi templi, tenteremo di descrivere, a grandi linee, le cerimonie che riguardano sia i Sacramenti dell’iniziazione cristiana che il matrimonio; quest’ultimo notevolmente fastoso e complesso.
La prima iniziazione si ha con il Battesimo che è “per immersione” e non “per aspersione”. Il che vuol dire che il bambino viene immerso, dal sacerdote, per tre volte in una capiente fonte battesimale piena d’acqua opportunamente riscaldata, mentre alcuni chierici cantano antiche preghiere nella liturgia greca alla luce di una candela impugnata da un sacerdote, anch’egli orante. Subito dopo riceve anche la Cresima e la Comunione. Quest’ultima avviene secondo l’antichissima usanza del pane e del vino che vengono introdotti, con molta attenzione, nella bocca del bambino. Tre cerimonie in una: è una caratteristica del Rito Bizantino-Greco.
Descriviamo, ora, la bella e solenne cerimonia del matrimonio: le vesti del celebrante sono molto ricche, mentre i canti, melodie provenienti da antichissimi manoscritti bizantini (furono oggetto di attento studio da parte di monaci che si sono dedicati alla ricerca storica su quelle pagine), non sono accompagnati da nessuno strumento musicale. La particolarità di quegli scritti è che quelle armonie non si avvalgono, a differenza di quelle moderne, del pentagramma, ma usano una serie di segni chiamati “nèumi” di diverso valore fonico tra loro, che indicano battute ed intervalli musicali partendo dalla chiave attraverso una nota iniziale.
Per prima cosa avviene il “fidanzamento” che consiste nell’accoglienza che il sacerdote fa ai nubendi sulla soglia del tempio. Levando in alto il vangelo ascolta le loro voci che dichiarano di essere liberi da qualsivoglia altro legame e di voler convolare a nozze in quella chiesa. Detto ciò, dopo aver baciato entrambi il Sacro Libro, entrano nel tempio preceduti dal sacerdote, tenendo in mano una candela accesa. Si fermano, un poco prima dell’altare, dietro un piccolo tavolo sul quale sono poggiate due corone d’oro ed il Vangelo.
Da questo momento in poi, fra canti e nuvole d’incenso, c’è lo scambio degli anelli, l’offerta di un mazzo di fiori alla sposa mentre si recitano lunghe preghiere in greco. L’officiante, durante la cerimonia, spesso leva in alto il Vangelo, mentre un chierico, al lato degli sposi, legge alcuni brani di preghiere aventi per argomento la fedeltà ed il reciproco amore, ricordando che Dio stesso, per primo, ci ama.
Si canta “l’Alleluja” finché si arriva alla Comunione che è fatta, anche in questo caso, nelle due specie del vino e del pane. Il sacerdote leva in alto, ancora una volta, il Vangelo e porge una corona allo sposo che la bacia e la pone sulla testa della sposa. Poi l’officiante le prende entrambe e le alza al cielo e, dopo averle mosse verso l’alto alcune volte, le rimette, invertendole, sulla testa degli sposi. Questo gesto vuol significare che non vi saranno né re né regine, ma entrambi formeranno un solo nucleo. Indi porge un calice allo sposo che ne beve e lo cede alla sposa che ne beve anch’essa. Poi, sia il sacerdote che i due sposi, questi con una candela in mano, girano pregando per tre volte intorno al tavolo sul quale erano poggiate le due corone ed il Vangelo. Toglie la corona allo sposo e gliela fa baciare. Lo stesso avviene per la sposa; quindi alza al cielo nuovamente il Vangelo recitando ad alta voce alcune preghiere ed esortando i due a condurre una vita seguendo gli insegnamenti di quello. I canti si levano più alti. Infine gli fa baciare il Sacro Libro, invitando gli sposi a baciarsi fra di loro. La cerimonia è finita: bella, suggestiva e commovente.   (continua)


grottaferrata
S. Nilo e i suoi tempi - 7
(Claudio Comandini) - 6. Le meditazioni dell’eremita Nilo (seconda parte)
Con il programma di non eccedere nello zelo e di non esporsi a lodi, evitando quindi occasioni per coltivare superbia, Nilo si applica nello studio del Nazianzeno, e si ciba perlopiù di pane ed acqua e di legumi cotti su una mensa di pietra, usando come piatto un frammento di coccio, e d’estate di frutta fresca, cercando di farsi bastare carrube selvatiche, bacche di mirto e corbezzoli. Se evita digiuni di quaranta giorni, durante sessanta giorni mangia solo due volte, come aveva anche appreso da storie di Teodoreto riguardanti una donna. Trascorre undici mesi senza bere, mangiando pane rifatto dopo il tramonto, ottenendone lo sviluppo di due virtù: la temperanza, per la quale, come è attribuito dal Caryofilo all’abate Teona, è utile bere poco, e la mortificazione della vanità del pensiero, che dubita delle opere dei santi. Nilo evita comunque gli eccessi nei digiuni dell’acqua, limitandoli ad otto giorni (seguendo il Salmo CXXVIII (CXXVII): 25, e Isaia XXXVIII: 16). Nei giorni di quaresima non beve, e si reca presso i vicini cenobi per nutrirsi dell’eulogia (antidoron), nel rito bizantino “i residui dei pani da cui si estraggono le oblate per il Divino Sacrificio” (Giovannelli). La circostanza dimostra che anche monaci eremiti come Nilo, il suo collega Stefano e prima ancora S. Saba, andavano ai cenobi vicini per assistere alle messe, nutrendosi appunto di questi pani benedetti che Giovannelli descrive piuttosto che come “ostie” quali “panini di una certa grandezza”.
Ora, per focalizzare gli effettivi contesti di senso, consideriamo le relazioni fra rito e parole. Già nella preghiera del Padre Nostro la parola greca epioùsion è tradotta in Luca XI: 3 con “pane quotidiano”, e in Matteo VI: 11 con “pane soprasostanziale”, chiarendo il senso sovrasensibile del Sacramento dell’Eucaristia, con cui si compie la presenza nella comunità del Cristo e l’edificazione della comunità dei credenti.
La parola sacramentum usata nel mondo latino in riferimento ai rituali religiosi ha come significati originari quelli di “giuramento di fedeltà alla bandiera dei militari” e di “somma di denaro depositata in un processo civile”, riducendo a determinazioni militari e giuridiche legate ad un “simbolo” la portata del concetto espresso dalla parola greca mistèrion to (“misteri”, al plurale), usata originariamente in riferimento ai riti Eleusini e adoperato dai cristiani per la dottrina soprasensibile, e successivamente adattata con una diversa sfumatura nel latino misteryum (mistero, singolare). Per Agostino il “sacramento” è quindi un simbolo che “produce” la realtà che significa, e indica e contiene la vita divina in Cristo come “segno visibile di un’azione invisibile”; per Ugo di S. Vittore è un “segno esterno” che contiene la grazia in quanto istituito da Cristo, e per Tommaso vi operano forma sacramenti e materia sacramenti, la parola (la consacrazione e il segno), e il segno (pane e vino). Se la religiosità latina pone un accento sull’efficacia oggettiva della pratica formale del sacramento, che può provocare anche interpretazioni magiche, nel primo cristianesimo e in quello orientale si mantiene in maniera più evidente già nel livello linguistico il riferimento ai “misteri”.
Nilo compie penitenza anche la notte, dormendo solo un’ora per poter digerire, poi recitando il salterio e facendo cinquecento metanie e, dopo l’appello della simantra, recitando le preghiere del Mesonicticòn e del Mattutino. Ora le pratiche bizantine hanno una spiccata particolarità, e oltre a ricordarne il nome, è opportuno descriverne alcune: il Mattutino è la preghiera dell’alba, una delle Ore Maggiori della preghiera, che erano Mattutino, Vèspero, Apòdipnon (Compieta), recitate nella chiesa grande. Le Ore Minori, recitate nel nartece, erano Prima, Terza, Sesta, Nona e Mesonicticòn: Mesonicticòn è la preghiera di mezzanotte, fatta ad imitazione di David e Paolo e raccomandata da S. Basilio, con gonoclisìe, prostrazioni, di due tipi, piegando o solo il busto o prostrando tutto il corpo a terra, prescritte nelle tre quaresime bizantine: preparative a Pasqua, a Natale, e ai Ss. Pietro e Paolo.
Nilo considerava di doversi impegnare nella fede più nei monaci ordinari, la cui azione aveva anche una ricaduta pratica. Vestito di una pelle di capra, che cambiava una volta l’anno (ne aveva due), per cinta una fune, che scioglieva una volta l’anno sopportando gli insetti, da cui si ripuliva, secondo il Bios addirittura “punendoli” per essersi permessi di dargli fastidio, appendendo la tunica sopra un formicaio.
Privo di letto, sedia, armadio, arca, borsa, bisaccia, non aveva neanche il calamaio, e scriveva sulla cera. Di tutte le sue opere, ne restano tre (studiate da Gassisi su Oriens Christ. IV,1905 Roma): il codice B a XIX, che contiene opere ascetiche e dogmatiche del B. Marco Monaco, discepolo di Giovanni Grisostomo, l’ascetica del B. Diacono, vescovo di Fotice nell’Epiro (V sec.) e un discorso di Basilio di Seleucia; il codice B a XX, dottrine di S. Doroteo, egumeno in Palestina (inizi VII sec.), due scritti di S. Giovanni Crisostomo e del metropolita Teodosio di Durazzo (in S. Doroteo è contenuta la citazione della disfatta bizantina a Rametta); il codice B b. I, che contiene la Istoria Lausiaca di Palladio, vescovo di Elenopoli, in Bitinia, che contiene 420 biografie di monaci egiziani del deserto.
Coltivando povertà, umiltà e mortificazione, veglie e orazione, solitudine e castità, mettendo a dura prova se stesso, viene tentato e illuso diabolicamente sui modi e contenuti della fede. Se le sue tentazioni sono molteplici, mantiene con perseveranza il proposito di preferire la morte ad una “gloria vanificata” (I Corinti IX: 15). Ed ecco che gli sembra di essere così gonfio da non entrare nella grotta, uscendone per intrattenere allucinati e derisori dialoghi con i suoi fratelli, immaginati negli alberi; resiste alla visione di un’entità di fiamma sull’altare chiudendo gli occhi; ha forti attacchi di libidine, per cui si rotola nelle spine, e assiste addirittura a scene di squartamenti fra demoni. A Roma per consultare libri e in pellegrinaggio alle catacombe dei Martiri e ai sepolcri degli Apostoli di S. Sebastiano (piena di graffiti poliglotti), vede una tedesca dall’imponente bellezza, da cui è fortemente attratto e che gli resta ossessivamente impressa. E in ginocchio di fronte all’altare confessa la sua debolezza (la narrazioni per immagini del Domenichino - affresco nella Cappella Farnese - incastona il crocefisso in un albero e ritrae Nilo assorto) e una mano del Crocefisso si stacca e lo benedice, segnandolo tre volte.
Mentre è nella grotta, a un monaco gli chiede di poter restare, Nilo gli consiglia di dare inoltre le tre monete che aveva con sé ai poveri. Con Nilo impara la calligrafia, ma presto si stanca dell’ascesi. Astenendosi dal redarguirlo (Matteo V: 22), un giorno gli dice pacatamente che può pure andarsene: questi con sdegno reclama le sue tre monete, e Nilo gli consiglia di farne “domanda per iscritto” e porla sull’altare per averne “il ricambio nel regno dei cieli”. L’ex monaco muore poco dopo aver prese le monete al Castello (annota con puntualità il Giovannelli, forse il Castello del Mercurion e monastero del Castellano, dove si rifugiò il beato Stefano in una scorreria di Saraceni, e dove Nilo condusse il beato Giorgio, ma considerando che un monastero con tale dedica esiste in realtà vicino a Palmi, tale il Castello dovrebbe essere quello di Laino, e non quello di Seminara). Nella grotta Nilo compone tre salteri, impiegando quattro giorni per uno, soddisfacendo così il debito. Impedimenti corporali lo distolgono dalla preghiera e un tumore alla gola lo rende muto e gli impedisce di mangiare: riconosciuta la malattia come forma della tentazione diabolica, Nilo si accontenta di pane e acqua, e “non potendo pregare con la voce, lo faceva col pensiero”.

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Sommario anno XIII numero 9 - settembre 2004