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Sommario anno XIII numero 9 - settembre 2004

 CINEMA

Ingmar Bergmann, Un mondo di marionette, Germania, 1980
(Emanuela Evangelisti) - Un burattino che fugge da sé stesso, che si rifiuta di recitare la sua parte, che corre disperato in cerca allo stesso tempo di una via d’uscita, di una fessura d’aria e di uno scampolo d’identità. Questa, a mio avviso, l’immagine simbolica, emblematica, centripeta di un film ricco di parole e di energie velate, nascoste ma in agitazione al di sotto della soglia minima della coscienza del protagonista e di quella visiva della nostra fruizione. Ma, come lui stesso ha da tempo capito, “tutte le strade sono chiuse”. E la ripetizione di questa frase, seppur distanziata, nel corso del film, ha il carattere mantrico di un verso che non distende ma travolge e, paradossalmente, conduce al compimento dell’atto paventato, epilogo già racchiuso nella sequenza iniziale di questo film trascinante e perturbante.
Peter Egermann (Robert Atzorn) è prigioniero di un’ossessione: vuole uccidere sua moglie Katarina (Christine Buchegger), ma finirà con l’uccidere una donna che con lei condivide, per puro caso, soltanto il nome. E per puro caso avverrà anche l’omicidio, non voluto dal suo artefice, ma inevitabile nel momento in cui ogni strada sarà, non solo figurativamente, barrata. Così la disperazione non troverà una valvola di sfogo, e, compressa in una cappa insopportabile, si tramuterà in follia, fatale risoluzione.
Solo la sequenza d’apertura e quella finale sono caratterizzate dall’uso di un colore forte, artificioso e sensuale, presto abbandonato da una non lineare narrazione in bianco e nero degli eventi precedenti il dramma, o a questo appena seguenti. Attributi, quelli, validi per l’opera nel suo intero che, infatti, travolge, manipola e seduce. Quest’ultimo aspetto, quello della sensualità, sembra nuovo in Bergman, come molte voci si sono preoccupate di sottolineare. Fagocitate dalla tendenza superficiale a guardare all’erotismo da una prospettiva unicamente fisica e distratte dall’abitudine a riscontrare complessità e introspezioni in tutti i lavori del regista svedese, come se le due cose, del resto, non potessero convivere pacificamente, le nostre menti hanno trascurato la sensualità già nascosta in tante parole e in tante immagini precedenti a quelle di questo film. Un’opera certamente più corporea, perfino carnale, di molte altre, ma, come è stato detto, non per questo meno poetica o densa di suggestioni esistenziali.
La ricostruzione degli eventi precedenti il tragico epilogo è basata sulle testimonianze che alcune figure ruotanti intorno a quella di Egermann danno all’ispettore che conduce le indagini: la madre, il collega della moglie, lo psichiatra amico, o presunto tale. A queste si aggiungono significative sequenze introdotte da didascalie di contesto che spiegano quanto tempo prima o dopo il fatto si svolgono gli eventi in esse contenuti. Il risultato è un incedere di parole e sguardi mancati, riflessioni e visioni. A tal proposito, particolarmente suggestiva si presenta la scena del sogno che Egermann racconta in una lettera non spedita al suo psichiatra: un idillio oscuro pur nella sua totale bianchezza.
Considerato talvolta uno dei lavori minori del regista svedese, questo film è, a mio avviso, un notevole studio psicologico che si dipana attraverso immagini e dialoghi accattivanti e coinvolgenti al punto da penetrare completamente lo sguardo e la mente di coloro che, nei film di Bergman, riscoprono non solo il piacere di un’affascinante esperienza cinematografica ma anche il valore catartico di un’opera d’arte.

 CINEMA

Sommario anno XIII numero 9 - settembre 2004