Ingmar
Bergmann, Un mondo di marionette, Germania, 1980
(Emanuela Evangelisti) - Un burattino che fugge da sé stesso, che
si rifiuta di recitare la sua parte, che corre disperato in cerca allo
stesso tempo di una via d’uscita, di una fessura d’aria e di uno
scampolo d’identità. Questa, a mio avviso, l’immagine simbolica,
emblematica, centripeta di un film ricco di parole e di energie velate,
nascoste ma in agitazione al di sotto della soglia minima della coscienza
del protagonista e di quella visiva della nostra fruizione. Ma, come lui
stesso ha da tempo capito, “tutte le strade sono chiuse”. E la
ripetizione di questa frase, seppur distanziata, nel corso del film, ha il
carattere mantrico di un verso che non distende ma travolge e,
paradossalmente, conduce al compimento dell’atto paventato, epilogo già
racchiuso nella sequenza iniziale di questo film trascinante e
perturbante.
Peter Egermann (Robert Atzorn) è prigioniero di un’ossessione: vuole
uccidere sua moglie Katarina (Christine Buchegger), ma finirà con
l’uccidere una donna che con lei condivide, per puro caso, soltanto il
nome. E per puro caso avverrà anche l’omicidio, non voluto dal suo
artefice, ma inevitabile nel momento in cui ogni strada sarà, non solo
figurativamente, barrata. Così la disperazione non troverà una valvola
di sfogo, e, compressa in una cappa insopportabile, si tramuterà in
follia, fatale risoluzione.
Solo la sequenza d’apertura e quella finale sono caratterizzate
dall’uso di un colore forte, artificioso e sensuale, presto abbandonato
da una non lineare narrazione in bianco e nero degli eventi precedenti il
dramma, o a questo appena seguenti. Attributi, quelli, validi per
l’opera nel suo intero che, infatti, travolge, manipola e seduce.
Quest’ultimo aspetto, quello della sensualità, sembra nuovo in Bergman,
come molte voci si sono preoccupate di sottolineare. Fagocitate dalla
tendenza superficiale a guardare all’erotismo da una prospettiva
unicamente fisica e distratte dall’abitudine a riscontrare complessità
e introspezioni in tutti i lavori del regista svedese, come se le due
cose, del resto, non potessero convivere pacificamente, le nostre menti
hanno trascurato la sensualità già nascosta in tante parole e in tante
immagini precedenti a quelle di questo film. Un’opera certamente più
corporea, perfino carnale, di molte altre, ma, come è stato detto, non
per questo meno poetica o densa di suggestioni esistenziali.
La ricostruzione degli eventi precedenti il tragico epilogo è basata
sulle testimonianze che alcune figure ruotanti intorno a quella di
Egermann danno all’ispettore che conduce le indagini: la madre, il
collega della moglie, lo psichiatra amico, o presunto tale. A queste si
aggiungono significative sequenze introdotte da didascalie di contesto che
spiegano quanto tempo prima o dopo il fatto si svolgono gli eventi in esse
contenuti. Il risultato è un incedere di parole e sguardi mancati,
riflessioni e visioni. A tal proposito, particolarmente suggestiva si
presenta la scena del sogno che Egermann racconta in una lettera non
spedita al suo psichiatra: un idillio oscuro pur nella sua totale
bianchezza.
Considerato talvolta uno dei lavori minori del regista svedese, questo
film è, a mio avviso, un notevole studio psicologico che si dipana
attraverso immagini e dialoghi accattivanti e coinvolgenti al punto da
penetrare completamente lo sguardo e la mente di coloro che, nei film di
Bergman, riscoprono non solo il piacere di un’affascinante esperienza
cinematografica ma anche il valore catartico di un’opera d’arte. |