Turchia
in Europa. Le ragioni di un dibattito
(Elisabetta Robinson) - L’inizio dei negoziati per
l’adesione della Turchia all’Unione Europea è stato fissato ad
ottobre 2005. Sebbene i tempi previsti per l’eventuale ingresso del
Paese musulmano in Europa siano molto lunghi (dovrebbero protrarsi fino al
2014), gli interrogativi, le perplessità e le problematiche sollevate da
una simile prospettiva, hanno già dato vita ad un ampio e difficile
dibattito. I negoziatori dei Pesi europei favorevoli al processo di
integrazione, portano a sostegno della loro tesi il fatto che la Turchia
sia un Paese fondamentalmente laico, al quale mancherebbe soltanto
l’adeguamento ad alcuni criteri politici richiesti dai parametri di
Copenaghen e il riconoscimento dell’isola di Cipro, per poter essere
considerato parte effettiva dell’Europa. Tesi respinta da coloro che
ritengono la Turchia uno Stato ancora profondamente illiberale,
geograficamente, storicamnte e culturalmente estraneo all’Europa.
Proclamata repubblica nel 1923, la Turchia subisce un importante processo
di modernizzazione ad opera del generale Mustafà Kemal detto Ataturk
(1881 – 1938), nominato presidente con poteri semidittatoriali.
Ispirandosi al positivismo di Auguste Comte (1798 – 1857), secondo il
quale la storia dell’umanità progredisce linearmente dallo stadio
religioso a quello scientifico, Ataturk si impegnò a fondo in una
politica di occidentalizzazione e di laicizzazione dello Stato, che lo
portò a scontrarsi con i musulmani tradizionalisti. La modernizzazione
introdotta da Ataturk non ha tuttavia impedito una reislamizzazione della
società turca, operata spesso in chiave anti-cristiana. Il risveglio
della religione, anziché la sua scomparsa, ha fatto della Turchia la
prova empirica della fallacia delle teorie classiche della
secolarizzazione, secondo cui i processi di modernizzazione conducono
inevitabilmente al declino delle credenze e delle pratiche religiose.
L’attuale premier turco Recep Tayyp Erdogan, ex sindaco di Istambul e
leader del partito islamico dell’AKP (Partito della Giustizia e dello
Sviluppo), sul quale al momento delle elezioni pesava una condanna per
incitamento all’odio religioso, presenta un programma politico in cui la
legge islamica, la shari’a, è indicata come orizzonte ideale piuttosto
che come insieme di precetti fissi ed immutabili.
Il “modello Erdogan”, che unisce islam politico, liberismo e politica
estera filo-occidentale, non piace al fondamentalismo islamico ma, allo
stesso tempo, desta ulteriori perplessità in quanti sono contrari
all’ingresso della Turchia in Europa.
La costituzione turca, imposta dai militari che effettuarono il colpo di
stato nel 1980, è una delle più restrittive in termini di libertà
pubbliche. Le università, i mass media e vasti settori della vita
economica sono sottoposti al controllo dell’esercito e la violazione dei
diritti umani, come rivelato da un recente rapporto di Amnesty
International, è una realtà ancora largamente diffusa.
Dal punto di vista economico, la Turchia presenta evidenti segni di
instabilità, con un tasso medio di inflazione molto alto e un PIL per
abitante bassissimo rispetto alla media europea. A destare preoccupazioni
è, inoltre, il dato demografico: si stima che, con l’ingresso della
Turchia in Europa, nel giro di 20 anni, dai 150 ai 200 milioni di
cittadini europei saranno di etnia e di lingua turca, nonché di religione
musulmana. Questo permetterebbe al partito turco di conquistare la
maggioranza nel Parlamento Europeo. È recente la dichiarazione che il
famoso storico britannico Bernard Lewis, considerato il maggior esperto
mondiale di Islam, ha rilasciato al quotidiano tedesco Die Welt: per Lewis,
entro la fine del secolo, l’Europa sarà islamica.
Il giornalista Franco Venturini, in un editoriale apparso sul Corriere
della Sera, parla invece di un “fidanzamento” (quello con la Turchia),
che potrebbe diventare, al termine delle trattative, il “più tormentato
dei matrimoni” (cfr. Corriere della Sera, 8 dicembre 2004).
Il dibattito è aperto. |