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Roma il Tribunale mondiale sull’Iraq
(Giovanna Ardesi) - Si è svolta a Roma dal 10 al 13
febbraio scorso, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università Roma
Tre, la decima sessione del World Tribunal on Iraq (Tribunale mondiale
sull’Iraq). Le precedenti sessioni si sono svolte in altre città del
mondo, la prima delle quali a Bruxelles. Qui nel giugno 2003, durante il
meeting europeo sulla Pace e i Diritti umani, organizzato dalla Fondazione
per la Pace Bertrand Russel, i rappresentanti dei vari movimenti contrari
alla guerra, nati dal basso, lanciarono l’idea di organizzare un
“Tribunale internazionale” (WTI) che giudicasse i crimini perpetrati
contro il popolo iracheno e contro la pace. Le conclusioni finali di tale
Tribunale sono previste con la sessione di Istanbul a giugno 2005.
La sessione di Roma si è proposta di mettere a fuoco il ruolo specifico
svolto dai mezzi d’informazione ed il loro mancato rispetto del dovere
di correttezza dell’informazione.
Facciamo alcuni esempi. Come sono state raccontate dai media le elezioni
irachene? Al contrario dei dati trionfalistici forniti dalla stragrande
maggioranza di essi sull’affluenza alle urne, la Commissione elettorale
irachena ha comunicato che ha votato il 57% degli “elettori iscritti”.
Ma il dato sugli elettori che si sono iscritti, superando la paura dei
terroristi e che, di conseguenza, hanno potuto ritirare la scheda
elettorale, non si conosce. Il Centro Carter poi, che ha il compito di
valutare la regolarità delle elezioni nel Terzo Mondo, ha bocciato le
procedure elettorali adottate in Iraq. Secondo la regista irachena Hana Al
Bayaty, che vive in Belgio e che fa parte del WTI, facendo una stima della
percentuale dei votanti iracheni sulla base degli aventi diritto si arriva
al 44% di quelli residenti in Iraq, e al 23% di quelli residenti
all’estero.
Altro obiettivo che si è posto di raggiungere il Tribunale Mondiale
sull’Iraq è quello di analizzare come sia stata raccontata la guerra.
Tale analisi dovrà essere condotta attraverso testimonianze oculari ed
una puntuale ricostruzione dei fatti accaduti.
In particolare, per giungere alla verità sulla battaglia di Fallujah sono
state prese in considerazione le testimonianze rese da giornalisti che si
sono trovati sul posto dopo i combattimenti. Alcuni giornalisti erano al
seguito della Mezza Luna Rossa, che ha cercato di portare aiuto e medicine
a quella popolazione, nonostante il divieto americano posto per motivi di
sicurezza. Si vuole che i loro nomi restino al momento segreti.
Sono ormai note alcune testimonianze dei profughi. Secondo Abu Hammad,
residente di 35 anni a Fallujah hanno usato di tutto: carri armati,
artiglieria, fanteria e gas tossici. La città è stata rasa al suolo dai
bombardamenti. Un altro residente Abu Sabah ha detto che “hanno usato
strane bombe che producono fumi, del tutto simili a quelli del fungo
atomico, lasciando cadere dal cielo frammenti che lasciano dietro di sé
lunghe code di fumo”. Ha aggiunto poi che quelle bombe fanno bruciare la
pelle anche quando l’acqua viene gettata sulle ustioni.
Dai siti internet arabi si viene pure a sapere che circa 500 civili
innocenti sono stati uccisi dagli attacchi al napalm (lo stesso gas
tossico che veniva usato in Vietnam). Si tratta, dunque, di armi di
distruzione di massa. Eppure, il Pentagono ha scatenato una guerra
all’Iraq di Saddam proprio perché avrebbe posseduto armi micidiali non
convenzionali. Una tesi, questa del governo Bush, che è stata
recentemente smentita da una Commissione d’inchiesta americana.
Le giornaliste Giuliana Sgrena del “Manifesto” e Florence Aubenas di
“Liberation” stavano raccogliendo le testimonianze di profughi di
Fallujah, sfuggiti ai bombardamenti nei giorni della battaglia. Uno dei
compiti che si è posto il WTI è, dunque, quello di stabilire il modo di
fare informazione dei media nel mondo. Ebbene, come sta reagendo la stampa
dei Paesi alleati degli americani a questo uso illegale di armi, vietate
nel 1980 dalle Nazioni Unite? In
Gran Bretagna la stampa ha reso noto che nel mese di novembre alcuni
parlamentari laburisti hanno chiesto che Blair riferisse alla Camera dei
Comuni. In particolare, a proposito della guerra al napalm, la deputata
Alice Mahon ha detto: “Blair deve spiegare i motivi di quanto sta
accadendo… Era a conoscenza del fatto che in Iraq si sta facendo uso di
questa arma spaventosa?”. Già il 28 novembre sul “Daily Mirror” il
commentatore politico Paul Gilfeather in un suo servizio sulla battaglia
di Fallujah scriveva: “Le truppe statunitensi stanno usando in segreto
dei gas al napalm proibiti per spazzare via i restanti ribelli a Fallujah
e nei dintorni”. Altre località bombardate con armi chimiche sono
riportate dal giornale on line “Asia Time”: Jolan, ash-Shuhada e
al-Jubayl, giornale che riferisce pure che sono state scaricate nei
dintorni bombe a grappolo. Altro che bombardamenti di precisione! Secondo
il commentatore politico Paul Gilfeather, il napalm era stato usato già
durante l’assedio di Bagdad. Come risponde il Pentagono a queste accuse?
Non si tratterebbe di bombe al napalm tradizionale, bensì di bombe
incendiarie Mark 77, una cosa diversa, dunque! Invece, proprio i marines
che tornano a casa dall’Iraq chiamano queste bombe “Napalm”.
A parte i giornalisti embedded (che prestano servizio dalle stazioni
militari), gli altri corrono il rischio di essere fatti sparire o uccisi,
ogni volta che si tenti di alzare il velo su qualcosa che si vuole
lasciare segreto. Sarebbe giusto non dimenticare, a tal proposito, il
giornalista Baldoni del “Diario”, anche lui esperto delle questioni
irachene, ucciso mentre era al seguito della Croce Rossa.
Il giornale inglese “Guardian” da un anno parla di assassini politici
effettuati dagli squadroni della morte. Lo stesso giornale scrive che i
candidati alle elezioni irachene, sgraditi agli americani, sono stati
esclusi dalla competizione o assassinati probabilmente dagli squadroni
della morte.
Scrive Gino Strada di Emergency su “Avvenimenti” (autore del libro
Pappagalli verdi) che “sono finite la neutralità e l’indipendenza del
lavoro umanitario” da quando già “un mese prima della guerra,
militari e agenti dei servizi segreti americani entrarono direttamente nel
mondo degli aiuti umanitari, non più limitandosi a fornire danaro alle
varie agenzie delle Nazioni Unite, ma assumendo il compito di coordinare
le attività umanitarie dei diversi soggetti, dalle Agenzie ONU, alla
Croce rossa internazionale, alle Organizzazioni non governative”. “Una
sorta di gestione diretta - dice Strada - in cui i promotori della guerra
diventarono in prima persona il soggetto responsabile degli aiuti,
lasciando alle organizzazioni il ruolo di subcontractors.”
Le torture in Iraq potrebbero essere state considerate come non gravi dai
responsabili, perché tanto sarebbero state compensate dalla gestione
diretta degli aiuti umanitari! |