Baricco
(delude) a Macondo
(Serena Grizi) - Chi non ha apprezzato le doti di romanziere
di Alessandro Baricco può aver più facilmente apprezzato le sue doti di
divulgatore letterario (dai tempi del televisivo Totem) per le
quali egli stesso, negli ultimi anni, si è andato ritagliando maggiori
spazi per dare voce alle pagine di molti autori americani ed europei. Più
curiosità ha destato il suo immergersi nel mondo di Gabriel Garcia
Marquez in una delle tre serate di lettura al teatro Palladium di
Roma. Baricco ha subito proposto alla platea di non entrare nello
specifico letterario del libro, ma di sondare i tanti perché
affacciatiglisi alla mente già dalla prima volta giovanile in cui, da
lettore, incontrò Cent’anni di solitudine (Cds). Sorpreso dalla
complessità del giocattolo, l’impianto del romanzo, sembra che in anni
recenti, da scrittore, lo abbia smembrato per capirne finalmente i segreti
e ne abbia tratto una serie di personali conclusioni. Il romanzo, citando
l’incipit di una serie di capoversi, sembra essere costruito per
proposizioni sempre uguali ed elementari che fanno il verso al parlato.
Sembra inoltre che l’autore non essendo in grado di cavarsela con i
dialoghi li abbia quasi del tutto estromessi dal suo stile, limitandosi a
quattro o cinque in tutto il libro e riservando ai pochi esistenti battute
tanto proverbiali quanto impossibili, secondo Baricco, da rintracciarsi
nel parlato della vita di tutti i giorni. Eppure basterebbe pensare al
fatto che, anche nella vita di tutti i giorni, ogni narratore orale che
riporta aneddotica o storie tradizionali sceglierà solo le migliori e le
più dense di significato. Baricco nega che questa serie di trovate siano
in realtà lo stile di Marquez, ma solo modi per evitare quello che non sa
fare. Baricco, oltre lo stile, racconta come Cds sia privo di umanità e di
amore e porta a testimonianza le troppe scene di sesso dense di calore e
umori a tinte forti che, se isolate dal contesto, esalano un gusto troppo
forte e volgare per qualsiasi lettore. Infatti, in ultimo, consiglia
Baricco, quando la sua abituale platea e ormai soggiogata, “provate a
sbianchettare (coprire con il bianchetto n.d.r.) le parti dedicate agli
amplessi e le parti preparatorie agli stessi e di Cds non rimarrà granchè”.
La novità di questo Baricco conferenziere, in cattedra al centro del
palcoscenico, i riccioli ormai domati e imbiancati illuminati da una
lampada che lo aiuta a leggere nel buio del teatro, è questo suo
approccio destruens e poi intorno ad un autore latinoamericano,
terreno nel quale non si era mai addentrato più di tanto se non con
Osvaldo Soriano, ma solo per affrontare il facile tema del calcio, fra
gli argomenti leggeri così amati dalle sue platee (alle quali un Borges
sarebbe stato difficile da ammannire?).
Si potrebbe pensare che la superficialità con cui affronta un premio
Nobel è frutto di una sua antipatia verso un autore impostogli (eppure
l’intento dichiarato delle tre serate al Palladium è “provare a
raccontare quel che so di tre testi che hanno (…) segnato il mio
apprendistato di scrittore”), mentre non si vuole credere che Baricco
non abbia letto la genesi di Cds e di tanti altri romanzi in Vivere per
raccontarla di Marquez uscito nel 2002. Qui, chi ha ammirato il
talento visionario di Gabo, troverà l’infanzia vissuta nella
casa-ventre miracoloso dei nonni sulla costa caraibica della Colombia (è
in quegli anni che comincia a sognare ad occhi aperti) e l’adolescenza
nella casa abitata con i genitori, immerso in una povertà nella quale
vivrà il sentimento conflittuale di amore-odio per il padre, farmacista e
affascinante ballerino, spesso lontano da casa ed incapace di provvedere
alla sua famiglia composta da una frotta di figli legittimi e naturali. La
stessa casa che Marquez, in preda al rifiuto per la miseria e la
promiscuità, abbandonerà non dimenticando di aiutare la sua famiglia e
condannandosi per lunghi anni alle privazioni più pesanti non possedendo
altro che un paio di sandali, qualche camicia dozzinale e una cartella con
i suoi scritti che non lascia mai. Ma Vivere per raccontarla non ha
avuto la stessa risonanza cosmica di Cent’anni di solitudine, fosse
solo perché è un romanzo autobiografico, non sempre ispirato, ma sempre
follemente umano.
Alla fine la platea, seppure con un Baricco che è sembrato fuori-forma,
dall’eloquio più spento e meno ricco di argomenti, ha comunque applaudito
a lungo. Se ridurre a brandelli un premio Nobel è una nuova trovata per
ammannire capolavori a platee stanche e troppo stimolate che si pensa
soffrano di nanismo intellettuale, ma che alla fine, in ogni caso,
applaudono, allora è inutile criticarlo. Intanto, ignaro delle proprie
lacune di romanziere, Marquez è di nuovo in libreria con Memoria
delle mie puttane tristi. |