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Alla sagra del ridicolo

Alla sagra del ridicolo
Settembre 22
15:30 2014

14-A-Per-art-DomenicoFra i molti miei difetti ce n’è uno particolarmente ingombrante: penso parlo e scrivo in lingua italiana pura. Ogni tanto, certo, mi permetto un latinismo abbastanza comprensibile, ma detesto gli anglicismi, i gallismi e tutti gli ‘ismi’ di derivazione straniera (salvo l’uso in senso ironico). Tutto questo per dire quanto io possa biasimare quel delirio linguistico chiamato ‘politically correct‘, peraltro termometro ideale di quanto sia ipocrita il nostro tempo. Una delle idiozie più divertenti in auge è quella di femminilizzare al massimo i vocaboli maschili o presunti tali, con l’intento di esaltare viepiù la componente femminile ma con il risultato contrario di renderla più ridicola.

Poiché è inutile impartire lezioni di glottologia e semantica a un popolo di dura cervice e scarsa cultura, falsamente impegnato nell’intento di non offendere nessuno (come se adoperare un buon lessico manzoniano debba suonare come offesa a chicchessia), mi limito a qualche tratto di colore. L’estremismo di genere comincia ormai ad ‘attaccare’ anche quei vocaboli che sono non facilmente (o per nulla) manovrabili; ad esempio, talune professioni. L’ingegnere si è finora salvato poiché ancora (ma per poco) non si è udito un improponibile ingegnera; ma in televisione tempo fa ho percepito un orripilante architetta: un termine che forse dà più l’immagine di una tetta monumentale che di una seria professionista.
Voglio quindi provocare una riflessione in senso contrario e affermare – con lo stesso criterio – che i termini giornalista o geometra andrebbero intesi solo al femminile, mentre i maschietti dovrebbero chiamarsi giornalisto e geometro. E perché non dovrebbero, atteso che il ministro (termine che indica la funzione e non il sesso) è diventato talvolta un goffo la ministra? Devo dire che è divertente vedere tanta gente, anche con pretesa di accigliato intellettualismo, affannarsi nel cercare a tutti i costi la distinzione di genere anche dove non c’è.
Albert Einstein disse che solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Una riprova di ciò viene dal più recente frutto della stolidità più ottusa: la femminilizzazione dei nomi collettivi. Per chi non ricorda cosa siano, rinvio a una rinfrescata della grammatica. Prendiamo invece il più ampio e collaudato degli aggettivi indefiniti, tutti, un termine che comprende uomini, donne, vecchi, vecchie, bambini, bambine, ecc. Termine tuttavia ostico per l’involontario e anonimo umorista che ha ideato un manifesto politico in cui si invitavano ‘tutte e tutti‘ (prima le donne, per galanteria) a partecipare a un certo evento. E cosa dire di quell’altro insigne maestro della lingua italiana che si richiamava alla coscienza di ‘ognuno e ognuna‘?
Un tempo i saggi filosofi affermavano che il ridicolo può uccidere più della spada, ma ormai il grottesco non è più percettibile e la spada non è più proponibile. E allora, che fare? Punirli nel modo più rigido ed esemplare possibile: rimandarli a scuola. Forza, su! «Il, lo, la, i, gli, le», il complemento, il predicato, il verbo intransitivo, l’avverbio, la sintassi. E poi ancora le figure retoriche: la metonimia, l’ossimoro, l’asindeto, l’anacoluto, ecc. Quando avranno studiato a dovere vedrete che questa mania del ‘politicamente corretto’ sarà passata.

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